La salute dell’economia è quella che è. In pratica: un po’ traballante. Ma un passo avanti, lo si è fatto. Prima il mantra era: “Il peggio (della crisi) è passato”. Ultimamente, invece, primi ministri e istituzioni varie non fanno altro che ripetere che “la ripresa” – parolina magica dal significato vago, ma beneaugurante – c’è. Si è sconfitta, se non altro, la monotonìa. La crisi, ancora no. Perchè a parole ed auspici non corrispondano numeri sempre altrettanto confortanti.

Peccato, per esempio, che negli Stati Uniti – notizia di venerdì scorso – la disoccupazione abbia sfondato la barriera psicologica della doppia cifra (passando dal 9,8% di settembre al 10,2% di ottobre) e toccato il livello più alto dal lontano 1983. Peccato anche che – sempre negli Stati Uniti e sempre notizia di venerdì scorso – il totale di disoccupati, sottoccupati (ovvero: persone costrette a lavorare part time) e licenziati&scoraggiati che un posto non lo cercano manco più sia ormai pari, secondo i calcoli del “New York Times”, a un 17,5% dell’intera forza lavoro a stelle e strisce. Praticamente: quasi un lavoratore su cinque è più o meno a spasso. Un’ecatombe mai vista dai tempi della Grande depressione. E peccato pure che – al solito, negli Usa – le banche continuino a fallire a raffica. Solo in questo fine settimane gli istituti di credito costretti a chiudere definitivamente i battenti sono stati ben cinque. Totale: dal 1^ gennaio ad oggi, le banche Usa fallite sono state 120. E peccato, infine, che se gli Stati Uniti – vero epicentro della crisi – piangono, l’Europa non rida. Limitandosi alla stretta attualità: giusto ieri, sulla Gran Bretagna è piovuta l’ennesima doccia fredda, sotto forma di statistica. Le persone dichiarate insolventi – tra luglio e settembre – sono state 35 e passa mila. Come a dire: un terzo degli abitanti di una città grande quanto Vicenza. In soli tre mesi.

Se questa fosse “la ripresa”, dunque, bisognerebbe augurarsi che finisse presto. Ma ripresa non è. E qui sta il punto. Perchè, per carità, spargere ottimismo fa sempre bene. Ma cambiare nome alle cose; stravolgere il senso di numeri e fatti; far passare per ritorno alla normalità quel che non è un ritorno e di normale non ha quasi nulla; e far ripetere questa vulgata ai media, come fossero tanti pappagalli;  beh, tutto questo non fa bene. E per di più puzza. Puzza di George Orwell, di 1984, di guerra che diventa pace; ignoranza che diventa forza; libertà che diventa schiavitù. E di crisi che, appunto, diventa un mezzo miracolo economico. Difficile dire se questo esperimento che – sul piano economico – finirà per funzionare. Per certo – sul piano politico ed etico – è un po’ inquietante.

 

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