di Alessandro Cisilin – da Galatea European Magazine,
Il silenzio è quasi assoluto, ma dopo l’Afganistan e l’Iraq c’è un’altra guerra che è stata dichiarata nel nome della lotta al terrorismo. E’ quella contro la pirateria somala che imperversa sul Golfo di Aden, che spalanca i mari asiatici alle flotte europee del Mediterraneo. Un conflitto preparato dagli Stati Uniti per ragioni militari, chiesto da Gran Bretagna e Russia per ragioni commerciali, sicché facile è stato nelle scorse settimane ottenere il sì, nell’ordine, delle Nazioni Unite, della Nato e infine dell’Unione Europea, con una decisione dalla rapidità senza precedenti, assunta dai governi senza neppure consultare il Parlamento di Bruxelles.
La Somalia dopotutto è la Somalia, e nessuna potenza al mondo ha interesse a levare veti in suo nome.
Il problema sembra inconfutabile, così come la necessità di una soluzione militare. La pirateria quest’anno ha conosciuto in quei mari un’escalation impressionante. Decine di imbarcazioni assaltate, una trentina secondo alcune fonti, un’ottantina secondo altre, per un bottino complessivo stimato ad almeno trenta milioni di euro, col corollario di premi assicurativi annui a carico delle navi commerciali cresciuti in pochi mesi da una media di novecento dollari a novemila.
Il bottino un tempo erano tesori, casse lucchettate di pietre preziose e altri gioielli sovrani. Ora l’oro è l’oro nero, oppure sono gli stessi equipaggi, da prendere in ostaggio in vista di danarosi riscatti. Le azioni sono pressoché impossibili da arginare per la rapidità con cui vengono portate. I pirati, armati fino ai denti, acquistano o affittano una cosiddetta “mother ship”, un innocuo mercantile di discreto taglio, che consente loro di prendere il largo, fino a circa duecento miglia marine, e al contempo di avvicinarsi a osservare la nave-preda senza destare sospetti. Talvolta, per verificarne l’assenza di armi difensive, all’ultimo minuto sparano un colpo. In assenza di risposta si parte, con un gommone o un’altra imbarcazione leggera, con non più di sette uomini a bordo, che in pochi secondi raggiungono il bersaglio.
La stessa natura della minaccia desta perplessità circa la proporzionalità della risposta, perfino tra i militari. Dal 15 ottobre è stato posizionato sulle coste somale lo “Standing naval Maritime Group” (SNMG2) della Nato, una flotta di sette navi da guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia, Grecia e Turchia. Cinque fregate, una nave appoggio e l’imbarcazione ammiraglia, il cacciatorpediniere Durand De la Penne, guidata dall’italiano Giovanni Gumiero, fornita di missili, siluri, cannoni ed elicotteri. Il comando è però a rotazione, e si muove permanentemente agli ordini dell’ammiraglio statunitense Mark P. Fitzgerald, che dirige le forze navali americane in Europa, lo stesso che pochi mesi fa aveva detto: “c’è poco che possiamo fare per fermare i pirati”. È come schierare un esercito regolare contro la guerriglia, come il Vietnam, l’Iraq, l’Afganistan, applicati alle dinamiche del mare. Gli assalti dei bucanieri sono talmente fulminei che risultano di fatto inarrestabili da un’imbarcazione terza, per quanto imbottita di sofisticati radar ed esplosivi.
C’è una sola cosa che una nave da guerra è in grado di fare in tali contesti: sparare all’impazzata contro natanti sospetti, col rischio di stragi di innocenti e di civili, esattamente quel che accade nelle citate zone di conflitto. E perché ciò succeda serve una condizione a monte, e cioè l’assenza di “regole di ingaggio”, e questo è effettivamente il caso, sia nella risoluzione 1838 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 7 ottobre scorso, sia nella delibera della Nato del successivo 11 ottobre, sia nella decisione dell’Unione Europea del 10 novembre scorso.
Quest’ultima ha una motivazione che suona ancor più stonata rispetto alle forze che saranno dispiegate a partire da dicembre, ovvero altre navi da guerra di nove paesi (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Lituania e Cipro), guidate dal quartier generale britannico di Northwood. Mentre il Consiglio di Sicurezza affermava che si tratta di difendere i commerci, ossia in primis circa il 30% della produzione petrolifera mondiale che transita sul Golfo di Aden, l’Unione Europea, per bocca dell’Alto Rappresentante agli Esteri Solana (ovvero l’ex numero uno della Nato), con cotanta flotta si arroga solo l’obiettivo di proteggere i periodici attracchi nel Corno d’Africa di una nave di aiuti del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
La sproporzione appare grossolana ma l’intento irreprensibilmente nobile, tanto più che a invocare l’intervento militare è stato anche il governo di Mogadiscio. Anche qui peraltro non tutti i conti sembrano tornare. Tra i clan più attivi tra i pirati del Golfo svetta il Majarteen che, oltre a dominare la regione nordorientale del Puntland, autoproclamatasi indipendente dieci anni fa, è anche il gruppo di appartenenza del presidente somalo Abdullah Yusuf Ahmed.
Ora, che i bucanieri beneficino di finanziamenti o quantomeno di complicità governative non sarebbe una novità, data l’enorme tradizione di “corsari” al soldo delle più svariate corone. Che però ad armarli siano le stesse flotte che poi dichiaran loro guerra è un po’ più anomalo. La tappa più recente del contributo militare americano alla Somalia risale a prima del 2006, col fallito tentativo della Cia di rovesciare le Corti Islamiche. Con gli islamici al potere Mogadiscio ha conosciuto l’unico periodo di stabilità dell’ultimo trentennio ma, secondo la Casa Bianca, il paese rischiava e rischia di diventare il nuovo Afganistan, ossia il terreno di addestramento globale per i terroristi più o meno affiliati ad Al Quaeda. Di conseguenza, il bombardamento del gennaio 2007 che li ha espulsi e la successiva occupazione del paese da parte dei militari dell’Unione Africana, ovverto le truppe etiopiche, sono stati portati col coordinamento della base americana di Camp Lemonier, a Djibouti, con tanto di supporto logistico di mezzi della Nato. L’afflusso di armi del resto si era intensificato anche negli anni precedenti, nonostante il regime di embargo, con forniture belliche ai signori della guerra accertate dalle Nazioni Unite e provenienti da tutti i paesi limitrofi più l’Italia.
Il conflitto civile non dà del resto a tutt’oggi segni di cedimento, con controffensive e attentati di matrice islamica che si susseguono a ritmo quotidiano. Gli Stati Uniti hanno quindi valutato che il supporto esterno non basta più, istituendo a Stoccarda un apposito comando Nato per il continente nero, l’Africom. La guerra alla pirateria somala è stata la sua prima decisione, se non il primo pretesto operativo per una missione che appare orientata non tanto a contrastare qualche bucaniere quanto a condizionare quel che accade all’interno della Somalia, nonché, per esplicita ammissione del Pentagono, per fornire appoggio a eventuali operazioni in Golfo Persico: oggi l’Iraq, domani chissà.
A pensar male ci si azzecca, specie se si va a vedere il contesto in cui ebbero inizio i primi addestramenti anti-pirateria della marina militare statunitense. Era l’ottobre del 2004, un anno in cui gli attacchi dei pirati somali furono solo un paio, una cifra ridicola rispetto a quel che accade in tutti gli altri mari. L’antipirateria americana è dunque nata curiosamente prima della pirateria somala. E il recente boom di quest’ultima non è stato nutrito solo dall’afflusso di armi dal Nord. Pesa naturalmente la dilagante povertà cui è costretto un paese in costante conflitto, il cui prodotto interno lordo è costituito dal quaranta per cento dagli aiuti, sicché l’attività piratesca diventa l’unica fonte di sostentamento possibile per intere province. E pesa anche lo scandalo, parzialmente documentato da qualche inchiesta giornalistica, di una ricchissima fauna marina falcidiata dalla pesca illegale di navi estere, nonché da attività segrete di scarico di rifiuti da parte dei paesi mediterranei.
Dal poco che si apprende da qualche inchiesta indipendente sui famigerati pirati somali, risulta infatti che si tratta in realtà di pescatori incazzati. Sono amati e rispettati nei loro villaggi, che si adoperano perfino in tradizionali rituali all’alba delle loro gesta. Sono ritenuti un “buon partito” dalle donne, in quanto percepiti non come delinquenti ma benefattori. Loro stessi negano l’epiteto di “pirati”, ergendosi invece a difensori del loro mare devastato. La loro più colossale impresa di quest’anno è anche la più eloquente del gioco sporco sul quale si sono scagliati, il sequestro di una grossa nave ucraina che stava per approdare nel porto keniano di Mombasa. Non c’erano alimenti, e non c’era neppure petrolio. C’era un enorme carico di armi e una trentina di carri armati di fabbricazione russa.
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