di Carlo Bertani –
“E cosa sta facendo la nostra gente in Palestina? Erano servi nelle terre della Diaspora e d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo. Essi trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose.”
Ahad Ha’am – Zionism: the Dream and the Reality – Harper and Row – New York – 1974.
In questi giorni di sgomento e rabbia, incredulità ed angoscia, stiamo osservando l’ennesimo capitolo dell’infinito tormento palestinese, che già sappiamo non sortirà effetto alcuno, né fra i palestinesi – che si ritroveranno uniti per qualche tempo, per poi ricominciare l’eterno dissidio interno – né per gli israeliani, i quali non potranno rimanere a Gaza – sarebbe come riportare il morto in casa – e s’accontenteranno di qualche anelito di vittoria: vera, presunta, addomesticata dai media, velleitaria e che provocherà altri dissidi interni.
La partita, più che sul campo di battaglia, si gioca sulla capacità di resistenza politica nel tempo il quale – già sanno entrambi i contendenti – non potrà superare le poche settimane, come tutte le guerre degli ultimi anni. Oramai, si fanno le guerre nei periodi di vacanza – il Libano durante le vacanze estive, nel 2006, idem la Georgia nel 2008 – ed oggi sotto Natale: come le “importanti” riforme della politica italiana, che arrivano sempre a Luglio.
Oramai, per bastonare le popolazioni sempre più disilluse, bisogna contare – in qualsiasi modo – sulla massima “distrazione” degli altri. Perché, nel caso della Palestina, si tratta di un vero e proprio vulnus al diritto internazionale.
La pantomima internazionale prevedeva da tempo questo attacco – perché la diplomazia israeliana non si fida della nuova amministrazione americana (staremo poi a vedere…) – ed aveva bisogno del “classico” veto all’ONU. Che, il “glorioso” Bush, non ha fatto certo mancare.
Che si tratti di una colossale presa in giro del diritto internazionale, ci vuole poco a capirlo, anche per chi non ricorda le risoluzioni dell’ONU in materia.
Gran parte della responsabilità ricade sulla dirigenza israeliana, inutile negarlo, perché non ha rispettato le risoluzioni[1] n. 242 del 1967:
Ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto.
e n. 338 del 1973:
2 – Richiama le parti in causa affinché immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.
Lo status di “territori occupati” quasi non esiste nel diritto internazionale, giacché può riferirsi soltanto alle zone occupate dopo la fine delle ostilità, ossia nel lasso di tempo che intercorre fra un armistizio ed un trattato di pace. Che non può, ovviamente, durare decenni: in epoca contemporanea, le più lunghe occupazioni “temporanee” furono quelle della Saar, dal 1918 al 1935 e dal 1945 al 1957, entrambe però codificate nei trattati di pace e risolte con accordi franco-tedeschi.
Lo status giuridico dei territori palestinesi è un vero e proprio vulnus del diritto internazionale, e questo dovrebbero saperlo anche i politici italiani che blaterano sempre le stesse facezie in TV, ad ogni massacro. Sotto, c’è ben altro.
Immaginiamo cosa sarebbe successo se le truppe russe – scese in campo solo dopo l’attacco georgiano, è bene ricordarlo – avessero bombardato Tblisi – chiese, scuole ed ospedali compresi – facendo 500 morti e 3000 feriti. Immaginiamo cosa sarebbe capitato all’ONU. In Palestina, invece, è solo “difesa”.
Il progetto immaginato dagli israeliani per i “territori occupati” considera gli stessi come un facile serbatoio di manodopera a basso costo: più sono poveri, meno potremo pagarli. Così – anche se ultimamente sono state aperte le porte ad una modesta immigrazione orientale – i palestinesi sono stati e sono la forza lavoro per le mansioni di basso livello in Israele. La questione etnica, sempre rimarcata dalla destra israeliana integralista, non vede di buon occhio la presenza stabile in Israele d’altre comunità religiose: hanno dovuto accettare la presenza dei pochi “arabi israeliani”, ma l’hanno accettato obtorto collo. Figuriamoci se arrivassero schiere d’induisti, buddisti, taoisti, ecc.
Di conseguenza, la soluzione più vantaggiosa per Israele è mantenere una sorta di grande prigione a cielo aperto – della quale controllano tutti i rubinetti – nella quale le condizioni di vita sono inenarrabili e, ad ogni nuova incursione israeliana, più giovani passano nelle file di Hamas. Chi dà più retta alla corrotta ed imbelle dirigenza di Fatah? Ovvio che, presa coscienza del proprio status di prigionieri, si ribellano lanciando razzi: così non sarebbe se non si sentissero ostaggi degli israeliani. E, ad ogni nuovo attacco, Hamas si compatta all’interno e s’espande fra la popolazione. L’attacco israeliano, dunque, sortirà proprio l’effetto contrario rispetto a quanto viene comunicato dalle schiere di giornalisti “embedded”.
Viene da chiedersi, però, la ragione che spinge gli israeliani su questa strada, poiché – a fronte di qualche vantaggio economico nello sfruttamento dei palestinesi – ci sono spese militari che “corrono” da decenni, ed una situazione finanziaria che non è proprio rosea. Alcuni anni fa, le banche israeliane rifiutarono i mutui ai Comuni, poiché ritenuti inaffidabili: parola di banchieri ebrei.
La strana “convenienza” economica di mantenere per decenni uno stato di guerra permanente con tutti (o quasi) i suoi vicini è però accettata dalla maggioranza della popolazione, e questo è un dato che non possiamo passare sotto silenzio.
La percezione israeliana del mondo arabo nasce – è impossibile negarlo – dalla pretesa superiorità che nasce dalla Bibbia ebraica, ossia dal Pentateuco: tanti sono i richiami al “popolo eletto”, ed altrettanti ci credono fermamente.
Paradossalmente, pur essendo gli israeliani per la gran parte discendenti di famiglie europee, sembrano completamente stagni nei confronti dell’Illuminismo, fenomeno che riuscì a portare a termine – grazie all’importanza suprema assegnata alla Ragione illuminista – il processo iniziato nel XVI secolo con la Pace di Augusta, quel cuius regio, eius religio che – nelle intenzioni dell’epoca – doveva porre fine alle dispute religiose.
E’ stranissimo che un popolo formatosi in Europa e negli USA – e che tanto ha dato alle Scienze esatte – si mostri così refrattario nei confronti di principi universalmente accettati, quali il rispetto dell’altrui credo e cultura. I musulmani hanno mostrato e mostrano maggior propensione al rispetto, più dei cattolici, e l’Andalusia dei Mori è ancora là a testimoniarlo. Gli israeliani disprezzano gli arabi e la loro cultura – rispetto alla quale tutti abbiamo il diritto d’affermare che non accetteremmo mai per noi – ma che non possiamo più permetterci, dopo essere stati colonizzatori, di disprezzare.
I veri pasticci sono venuti dopo, ed hanno avuto come attori non i musulmani – i quali, all’epoca, erano colonizzati – ma le cancellerie europee con le promesse d’indipendenza di Lawrence (in cambio dell’appoggio contro i Turchi), smentite e tradite dal successivo trattato di Sèvres del 1920.
Nonostante le rassicurazioni di Balfour, dopo la Seconda Guerra Mondiale la Palestina si trasformò in una terra di nessuno, dove la ragione del più forte – perché più organizzato – contava su personaggi come Menachem Begin, il quale aveva la pessima abitudine di “dimenticare” bombe a mano nelle case degli arabi.
La sua “carriera” è una striscia di sangue, ed oggi parlano di “terrorismo”. Da Wikipedia:
Il 25 aprile 1946 guida personalmente un commando che attacca un garage inglese uccidendone tutto il personale addetto.
Il 22 luglio 1946 è alla testa del gruppo di terroristi che fa esplodere l’Hotel King David di Gerusalemme, provocando la morte di 97 persone, in gran parte ammalati, feriti, medici e infermiere (l’hotel era adibito a ospedale militare).
Il 1 marzo 1947 uccide due ufficiali britannici in un circolo militare inglese.
Il 18 aprile uccide un passante con una bomba, in un’azione intimidatoria terrorista. Due giorni dopo lancia un’altra bomba contro un ospedale della Croce Rossa Internazionale di Gerusalemme.
Il 12 luglio 1947, con alcuni compagni, rapisce due sottufficiali britannici appena ventenni, Mervyn Paice e Clifford Martin: li tortura a lungo e li impicca poi con fil di ferro. Ai due cadaveri lega una bomba che ferisce i soccorritori sopraggiunti. (tecnica usata anche dai finlandesi con i prigionieri russi N. d. A.).
Tre mesi dopo dirige una rapina ad una succursale della Barclay’s Bank e, nel fuggire col bottino, uccide quattro agenti di servizio.
Nel febbraio 1948 dirige un gruppo di terroristi in un attacco contro un ospedale britannico di Gerusalemme: risultato, tre militari feriti vengono assassinati nei loro letti.
Il 10 aprile 1948, il più odioso e più noto dei crimini delle lotte in Palestina: Begin mette a punto e dirige personalmente l’azione di rappresaglia contro il villaggio arabo di Deir Yassin, con l’uccisione a sangue freddo di tutti i suoi abitanti, compresi i vecchi, gli infermi e i bambini in fasce (il numero delle vittime varia, dal un minimo di oltre un centinaio di persone a un massimo di 254).
Costui è stato il fondatore del Likud, il partito di Sharon e Netanyahu. I primi ad usare l’arma del terrorismo furono proprio gli israeliani, che poi pensarono bene di promuovere Primo Ministro un simile pendaglio da forca.
Tutto sembra nascere da quel vasto fenomeno criminale europeo – perché non vi parteciparono solo tedeschi, bensì polacchi, ucraini, francesi, italiani, croati… – che fu la pietra angolare che segnò Israele: la Shoà. C’era da aspettarselo: a quel tempo, era normale che così fosse.
La perfidia assai strana è che coloro i quali, per anni, condussero le tradotte al macello non pagarono lo scotto: perché, ad esempio, la Germania non fu obbligata a cedere una parte del suo territorio per lo stato ebraico?
No: in pieno stile coloniale, l’assassinio di milioni d’ebrei (e non solo, è bene ricordarlo) fu pagato dai palestinesi, che c’entravano come i cavoli a merenda. E non stiamo a raccontare storie di Gran Muftì “nazisti” poiché, per contrappasso, potremmo ricordare chi – finanziariamente, per due guerre mondiali – sorresse lo sforzo bellico britannico.
Terminata la guerra, sarebbe stato meglio onorare chi morì nei lager e rendere così giustizia a tutti i perseguitati del tempo: cercando “un altro Egitto”, direbbe de Gregori.
Il movimento dei kibbutzim ci provò, e suscitò scandalo – in quegli anni – l’educazione collettiva dei giovani, la minor importanza della famiglia, ma questa è un’altra storia, che sarebbe bello raccontare se i kibbutz, oggi, non fossero diventati degli avamposti di Tzahal.
Ciò che avvenne in Israele, soprattutto dopo la guerra di Yom Kippur, fu la montante importanza di una nuova destra, che nulla aveva a che fare con la tradizione conservatrice.
La Shoà, da evento storico – patito sulla propria pelle, ma pur sempre evento storico – fu trasformato in fatto quasi religioso: nacque la retorica della Shoà, che ebbe in Yad Yashem il suo tempio, il nuovo tempio di Salomone.
Intere generazioni d’israeliani sono state cresciute in questa retorica, e l’avvento dei media planetari ha espanso ai quattro venti l’assioma che – un popolo così provato – avesse diritto ad un eterno risarcimento, a scapito di chiunque.
Il tentativo di Rabin – condurre Israele su una strada europea, perché anche in Europa avremmo rivalse e “crediti” a bizzeffe da esigere, la storia europea è un solo, terribile groviglio di massacri e ritorsioni – fallì perché andò a cozzare contro un muro, quello creato da anni di retorica: l’ebreo è sicuro solo in Israele, fuori dai suoi confini sono sempre all’erta le forze del male, pronte a distruggerlo. Salvo, poi, constatare che gli ebrei americani ed italiani se la passano molto meglio di quelli israeliani; a microfono spento, vi diranno: “fossi matto ad andare laggiù, col rischio di saltare per aria o di precipitare in una guerra l’anno”.
Le questioni geopolitiche contano, non lo nascondiamo, ma questi sono i sentimenti che la popolazione israeliana avverte: semplicemente, perché da anni viene bombardata su opposti fronti. Da una lato, quello biblico – con tutte le citazioni di fosche profezie, sul popolo eletto, ecc – e dall’altro per il ricordo della Shoà, la quale esige d’essere sempre all’erta, pronti a rispondere a qualsiasi attacco, costi quel che costi.
In definitiva, Israele non ha mai superato il trauma della Shoà, anche se quelli che si salvarono sono oramai quasi tutti andati per età: sono le generazioni successive che l’hanno trasformata nel cespite per qualsiasi avventura militare.
Lo Stato Maggiore di Tel Aviv sa benissimo che non potrà occupare Gaza (e dopo? quanti attentati?), e nemmeno sperare d’appiattire ai suoi voleri la popolazione palestinese, dopo tanti massacri e un così diffuso dolore. Una seconda Shoà.
“Finché c’è guerra c’è speranza” – titolo di un film di Sordi – sembra calcare alla perfezione per una dirigenza politica che ha saputo creare da una tragedia un mostro, la ripetizione eterna del ricordo. Guai a noi, se dovessimo serbare memoria e rancore per le guerre di religione o per le bombe incendiarie degli anglo-americani. Non ne usciremmo più: la Jugoslavia ne sa qualcosa.
La guerra in Jugoslavia fu generata da complessi avvenimenti che riguardarono soprattutto la divisione del debito estero fra le repubbliche federate, ma la gran parte delle genti – gli jugoslavi stessi – poco trassero, per odiarsi, dalle decisioni del Fondo Monetario Internazionale.
Ciò che alimentò la fornace fu il ricordo, l’imprinting lasciato/lanciato nelle generazioni, come ha magistralmente spiegato – più con il sogno felliniano che con le parole – Kusturica in Underground. Fantasmi del passato ripresero forma sorgendo da abissi che si pensavano dimenticati: le due divisioni delle Waffen SS islamiche, Handsar e Kama, tornarono a vivere intorno a Sarajevo, come la Skandenberg albanese, divenuta UCK. E poi cetnici nazionalisti della destra di Belgrado, partizan che combattevano per l’eterna causa serba, ustascia che sparavano nel nome della purezza etnico/religiosa croata.
Un coacervo di miasmi senza più reale valenza – nel senso del tempo che le espresse, la Seconda Guerra Mondiale, con le sue ideologie, i suoi nazionalismi ed i calcoli politico/strategici degli stati maggiori – nutrì per anni le gelide notti sui monti della Bosnia, sorresse fino all’ultimo respiro le battaglie in strada, fornì abbondanti giustificazioni per i massacri d’innocenti.
C’è una soluzione, al perverso e raccapricciante alimentare il ricordo per meri scopi di bottega?
Impossibile, se non mutano le premesse.
L’alternativa?
Israele fu per molti anni alleato del Sudafrica dell’apartheid, e la “teoria” dei “territori occupati” sa tanto di “Bantustan”: se non basta, rimangono a testimoniarlo le molte collaborazioni in campo militare, anche quando l’embargo internazionale contro Pretoria non le avrebbe consentite (i missili Gabriel, ad esempio, che armarono le motovedette d’entrambi i Paesi).
Il Sudafrica ha saputo uscire dal suo cul de sac con gran coraggio e lungimiranza: oggi non è certo tranquillo come un cantone svizzero, ma non fa parlare di sé – per massacri – almeno una volta l’anno.
Quella sudafricana è stata un’esperienza creata dal dialogo e dalla reciproca fiducia: riconoscimento che avvenne sia dalla parte dei neri sia da quella boera. Non dimentichiamolo.
Eppure, fu un azzardo che pagò, eccome.
Sull’altro piatto della bilancia, i bianchi sudafricani compresero che la dinamica demografica non li favoriva: non fu soltanto spirito filantropico, ma anche pragmatismo. Che, in ogni modo, funzionò, e potrebbe funzionare anche in Palestina – perché le dinamiche demografiche sono le stesse – se venisse meno l’assurdo principio di uno Stato basato su un’identità etnica e religiosa (peraltro, molto difficile da identificare).
Ci chiediamo se, tramontata ogni ipotesi d’avere due stati che vivono in pace separati, non sia da prendere in considerazione l’ipotesi più semplice, che qualsiasi Stato veramente democratico e moderno dovrebbe sostenere.
Quella di un solo Stato, con pari diritti per tutti e democrazia parlamentare: il sistema meno imperfetto che conosciamo, con tutti i suoi difetti. Una modesta ma concreta base di partenza.
Che ci sarebbe di strano? Non dovrebbe essere la comune prassi di uno Stato che si professa democratico? Non sarebbe una buona occasione anche per i palestinesi, accusati d’essere “refrattari” alla democrazia? Cosa spiazzerebbe di più le leadership integraliste (d’entrambe le parti), bombe e razzi o una proposta che sa di sfida per la democrazia?
L’ipotesi è meno assurda di quel che si pensi, se si riflette sulla alternative.
Israele non potrà mai vincere contro i suoi vicini: sono troppi, e la demografia li avvantaggia. Oramai, i flussi migratori verso Israele sono cessati da tempo.
Può solo perdere o “pareggiare” – mi si passi il paragone calcistico – ma questo “pareggio” è la tragedia alla quale assistiamo, che oggi avvelena di dolore e di rabbia i palestinesi e domani, ad operazione conclusa, ci dirà quante famiglie israeliane piangeranno un loro figlio.
Il sogno della “Grande Israele” è tramontato con il ritiro dal Libano e la mezza sconfitta del 2006: perché continuare in questa assurda tragedia?
Nessun morto nella Shoà ne trarrà vantaggio, e nessun israeliano potrà mai sperare di giungere ad un così completo dominio da scapolare le sue paure ancestrali. Nessun popolo eletto, nessun popolo massacrato.
Fonte: www.carlobertani.it http://carlobertani.blogspot.com/
[1] Il testo completo delle risoluzioni è reperibile in “Libano 2006: il peggiore dei deja vu”, dello stesso autore, facilmente reperibile sul Web.