di
Giulietto Chiesa
Intervento di Giulietto Chiesa, europarlamentare, all’assemblea organizzata a Roma da ISM-Italia e Forum Palestina
L’intervento di Ilan Pappé sgombra il terreno da molte delle questioni che io volevo proporvi. La mia posizione, la nostra posizione, è quella di persone che vivono lontano dalla Palestina, in altri contesti. Noi non siamo là e dobbiamo chiederci cosa possiamo fare qui.
E prima di tutto capire ciò che è accaduto, e se esso ha o no cambiato il nostro modo di valutare la situazione. Concordo intanto, pienamente, con l’analisi di Pappé.
Gli eventi di Gaza hanno messo di fronte a tutti noi la verità, e cioè che Israele è guidata da un gruppo criminale che non intende rinunciare a un centimetro quadrato di quella che loro chiamano la Galilea. Un gruppo di criminali che hanno l’appoggio – anche qui concordo pienamente con Pappé – della grande maggioranza della popolazione israeliana. Questi sono i punti da cui dobbiamo partire anche noi.
Il massacro di Gaza ha un solo significato: se costoro vincono non ci sarà alcuno stato palestinese, né oggi né domani né mai.
A meno che Israele non sia costretta ad accettarlo sotto una forte pressione internazionale esterna.
Questa ipotesi, tuttavia, è altamente improbabile, per non dire inesistente. Queste, in estrema sintesi, sono le coordinate realistiche del problema. Le élites europee sono state corresponsabili e complici della strategia americana e israeliana (sostanzialmente coincidenti) e non si sposteranno da questa posizione in un periodo di tempo prevedibile.
Lo dico da osservatore ravvicinato dei comportamenti europei a Bruxelles. Israele continuerà dunque a martoriare il popolo palestinese occupandone il territorio, aumentando gli insediamenti, trasformando le zone occupate – come è stato qui descritto crudamente – in una prigione a cielo aperto. E dove la popolazione palestinese sarà costretta a misurare sulla sua pelle il livello di repressione cui sarà sottoposta, in proporzione diretta con la quantità di resistenza che sarà in grado di opporre alla violenza e al sopruso degli occupanti.
E’ il ritratto di una pulizia etnica esercitata in modo sistematico.
Qui Ilan Pappé ci ha detto cose dalle quali è impossibile prescindere e senza le quali non si potrà definire un programma politico di sostegno al popolo palestinese.
Tra queste una mi pare cruciale: non riusciremo ad aprire una breccia nella coscienza collettiva europea se non riusciremo a separare l’idea dell’olocausto dal problema palestinese. Cioè se non riusciremo a smontare la più mostruosa delle manipolazioni sioniste, secondo la quale, per riparare alle colpe dell’olocausto, l’Europa deve consentire a Israele di realizzare la pulizia etnica definitiva della Palestina. E’ questo il nocciolo dell’ideologia sionista dei tempi moderno. Un segno genocidario che concede alle vittime di allora di diventare carnefici con la benedizione del mondo occidentale.
Possiamo accettare una tale mostruosa equazione, che getta su un popolo intero le conseguenze di una responsabilità alla quale è stato comunque estraneo, ma che scarica su noi europei la responsabilità di accettare un secondo olocausto, questa volta contemporaneo, di dimensioni minori solo perché i palestinesi sono meno degli ebrei di allora.
Io ricordo spesso l’aforisma di Hans Magnum Enzensberger, uno scrittore tedesco: «ai tempi del fascismo noi non sapevamo di vivere ai tempi del fascismo».
Temo proprio che stia accadendo esattamente la stessa cosa. Ai tempi di Gaza, dello sterminio di un popolo, che avviene sotto i nostri occhi, noi non sapevamo di stare ai tempi del fascismo.
O meglio noi che siamo qui lo sappiamo. Fuori da qui sono in pochi a saperlo, soverchiati da messaggi mediatici falsificati. Ma forse anche noi abbiamo capito solo alcune cose, mentre altre, più profonde e più inquietanti, ancora ci sfuggono.
Ecco io credo che molti di noi non abbiamo ancora ben compreso che anche noi, qui, siamo in pericolo. E che la nostra solidarietà con il popolo palestinese è in realtà anche una forma di autodifesa. Ecco il punto fondamentale, per giungere al quale si richiede un salto intellettuale.
Noi parliamo di solidarietà e di giustizia con e per il popolo di Palestina, ma in realtà dovremmo renderci conto che stiamo cercando di salvare noi stessi. Perché quello che sta accadendo in Palestina – e non è retorica, è l’analisi politica, cruda e fredda – è la guerra contro di noi.
I dirigenti sionisti israeliani non sono così stupidi da pensare di poter cancellare in tempi brevi il popolo della Palestina. Non sono così stupidi, non lo sono mai stati. Dal 1948 in avanti hanno dimostrato di avere una precisa strategia. Una strategia che, con lievi variazioni, non hanno mai sostanzialmente abbandonato. Sanno, i dirigenti israeliani, che godono dell’appoggio della gran parte della loro popolazione, che c’è un limite oltre il quale nemmeno la schiera degli amici occidentali, nemmeno l’Europa, è in grado di seguirli in "condizioni normali". In "condizioni normali" – cioè le attuali condizioni, gli attuali rapporti di forza politici – hanno dovuto fermarsi a Gaza, perché andare oltre avrebbe significato mettere a repentaglio le loro relazioni privilegiate con il resto del mondo occidentale, perdere il contatto. Sottolineo l’espressione : in condizioni normali.
Non è possibile realizzare la pulizia etnica totale della Palestina, in condizioni normali. In condizioni normali si può procedere solo per tappe, infliggendo colpi sempre più duri, ma senza mai poter risolvere il problema degli "scarafaggi da schiacciare", del "formicaio da incendiare", per usare espressioni rivelatrici dei militari israeliani. Per questo hanno fermato il massacro a un certo punto. In condizioni normali significa poter agitare in continuazione, assecondati dal mainstream mondiale, l’idea che sia Israele e la sua esistenza ad essere minacciata. Anche quando apparirebbe evidente, a chiunque non fosse accecato, che non vi è alcuna possibilità di mettere in discussione, realmente , l’esistenza di Israele. Che nessuno è in condizione di minacciare realmente, neanche lo volesse, per quanto lo proclamasse, l’esistenza di Israele.
Anche quando non vi è dubbio alcuno che Israele ha tutto ciò che le occorre per vincere ogni battaglia e ogni guerra. Non solo la superiorità bellica, ma anche quella politico-diplomatica, ma anche quella informativa.
Il trucco consiste dunque nel continuare a gridare di essere le vittime, anche quando si è ormai da tempo diventati carnefici. E lo si può fare in condizioni normali, come quelle che abbiamo vissuto e viviamo. in condizioni in cui l’opinione pubblica mondiale pensa che con Israele si possa parlare di negoziati e di una soluzione pacifica. Ma poiché l’obiettivo sionista è la conquista totale del territorio della Palestina, e poiché questo significa la pulizia etnica finale di quel territorio, e poiché questa è impossibile senza un genocidio, è evidente che i dirigenti israeliani hanno in mente un’ipotesi non "normale".
Se essi pensano – lo pensano anche se non lo dicono pubblicamente, almeno non negli ultimi tempi – che "nemmeno un centimetro di terra sarà lasciato ai palestinesi", al "formicaio palestinese", agli "scarafaggi palestinesi", allora restano due ipotesi materialmente percorribili: pulizia etnica totale, oppure sottomissione totale dei rimanenti, umiliazione, rinuncia, bantustanizzazione del popolo palestinese.
Ma il genocidio è inaccettabile per l’opinione pubblica occidentale, dunque resta l’ipotesi transitoria "dell’apartheid in versione araba". L’esempio sudafricano citato da Pappé è perfettamente attinente. Esso non prevede alcuno stato palestinese realmente indipendente. Prevede l’umiliazione finale del popolo palestinese; in primo luogo la sua divisione (cosa già ottenuta); la estensione degl’insediamenti; il proseguimento sine die dell’occupazione, con l’acquiescenza in primo luogo dei leader palestinesi che hanno già accettato la sconfitta e si sono fatti comprare, in secondo luogo dei regimi arabi reazionari, e, in terzo luogo dell’Europa. Degli Stati Uniti non parlo perché essi sono i principali alleati di questa politica. Con Obama non ci saranno qui cambiamenti: la nomina della signora Hillary Clinton a segretario di stato dice già tutto ciò che occorre per prevedere quale sarà la politica di Obama nel Medio Oriente e in Palestina. È una linea che mette nel conto, per un certo periodo di tempo, anche lungo, una situazione di occupazione sempre più feroce, con assassinii mirati, risposte terroristiche, liquidazioni settoriali dei capi di Hamas, con l’uso di azioni e risposte terroristiche disperate o organizzate, o provocate, o stimolate. Tutte le varianti sono buone e, del resto, sono già state sperimentate se è vero, com’è vero che Hamas è nate da una costola del Mossad, costruita con soldi del Mossad per creare divisione e per impedire ad Arafat di proseguire una politica di raccolta dei consensi attorno all’ipotesi di pace in cambio di territori.
Ogni tipo di provocazioni sarà tentato, come è avvenuto con successo in passato, per scompaginare la resistenza palestinese. Si potrà fare anche perché il mainstream mediatico, composto in gran parte di servi imbecilli del potere, cadrà in tutte le trappole, le amplificherà, le giustificherà. Basti l’esempio, assai significativo, della notizia diffusa da Hezbollah proprio nei giorni dell’attacco contro Gaza. Notizia che rivelava il ritrovamento – appunto da parte dei servizi di Hezbollah – di una postazione di missili telecomandati a distanza, che avrebbero dovuto partire dal Libano del Sud e andare a schiantarsi su case israeliane. Non era stato certamente hezbollah a piazzarli, visto che li ha scoperti. E allora chi ce li aveva messi? E come avrebbe reagito, per esempio il Corriere della Sera alla notizia di questo attacco? Avrebbe parlato di un’azione terroristica, proditoria, organizzata da Hezbollah per creare un secondo fronte in Libano, destinato a indebolire l’offensiva israeliana contro Hamas, eccetera eccetera. E l’aviazione israeliana, che non ha problemi di carburante, e di bombe, sarebbe quindi partita immediatamente per bombardare i villaggi del Libano. Ecco come si organizza la guerra e, prima della guerra, la disinformazione.
Ci saranno provocazioni di ogni genere, questo dobbiamo saperlo. Anche per una questione di consenso dell’opinione pubblica interna, che deve essere mantenuta in uno stato di paura permanente. Tutto questo è ovvio ormai anche se disumano e mostruoso. Ma tutto questo, vorrei sottolinearlo, e spero di essere ben capito, tutto questo è ancora politically correct, cioè comprensibile ai politici occidentali, all’opinione pubblica occidentale che, tutto compreso, lo considerano accettabile, come hanno considerato accettabile per tutti questi anni, l’occupazione della Palestina. Hillary Clinton, ripeto, ha già dichiarato che è pronta ad accettare questa logica. Questa è l’unica pace che Israele riesce a concepire e che può spiegare a tutto il resto del mondo.
Ma attenzione a non fermarsi a questo punto. Perché c’è un risvolto che non è affatto politicamente corretto, la cui mostruosità ancora sfugge persino a molti di noi, sicuramente a una parte della sinistra in Italia e a una larga parte, purtroppo devo dirlo, della sinistra europea, avendo partecipato ai dibattiti del gruppo socialista al parlamento europeo, avendo riscontrato che una metà del gruppo socialista è più o meno apertamente filo-israeliano. Del resto non aderiscono forse all’Internazionale Socialista Shimon Peres e Ehud Barak, quest’ultimo ministro della difesa del governo Olmert? Allora dobbiamo fare un altro passaggio concettuale, che ci aiuti a penetrare all’interno dell’ideologia sionista più estrema.
Ho parlato fino ad ora di una strategia israeliana "limitata", strategia di conquista in "condizioni normali", cioè psicologicamente accettabili da parte dell’opinione pubblica occidentale. Ma che cosa accadrebbe se improvvisamente le condizioni diventassero "anormali"? E che cosa significano condizioni internazionali anormali? Pongo la questione in altra forma. Chi pensa che i dirigenti israeliani possano accettare, un giorno qualsiasi, di perdere il monopolio assoluto della forza di cui dispongono, monopolio che hanno ottenuto in dono da Washington da molti anni? Qualcuno di noi pensa realisticamente che questa ipotesi sia possibile? Chi lo pensasse commetterebbe un errore fatale. Israele non accetterà mai di perdere il monopolio della forza militare atomica. Perché perdere quest’arma di ricatto potrebbe mettere Israele nella necessità di trattare. Perché loro hanno già calcolato anche l’eventualità di perdere l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Perché hanno perfino previsto che l’Europa potrebbe "tradirli". Quella stessa Europa che essi disprezzano e odiano perché è in Europa che l’olocausto si è realizzato. Ecco perché il Libano del 2006, Gaza del 2008 non sono episodi chiusi in sé, per quanto mostruosi. Sono stati descritti come rappresaglie, ma sono mosse di una strategia ben precisa di carattere internazionale che avrà il suo apice con l’attacco all’Iran.
In tutti i casi sopra citati i sionisti hanno messo nel conto che si difenderanno da soli. Mai sentita la storia di "muoia sansone con tutti i filistei" ? Chi ha messo in cima ai suoi pensieri, ad ogni costo, la "terra promessa", chi la ritiene un dono divino, anzi un ordine divino. Chi interpreta questo ordine come proveniente dal dio degli eserciti, potrebbe essere pronto ad affrontare Armageddon. Noi siamo di fronte a un gruppo di persone che, lasciato a se stesso, andrà fino in fondo, mosso da una ideologia fanatica, razzista, genocidaria. Ecco cosa intendo per "situazione anormale": quando dal ragionamento politico si viene scaraventati fuori e si entra nell’invettiva religiosa, qualcuno si colloca "dalla parte di dio". Avverrà quando Israele scatenerà l’attacco contro l’Iran.
Affermo questo perché non penso che l’Israele prigioniera del sionismo, cioè del fanatismo, rinuncerà al monopolio della forza. Ora anche qui i casi principali sono due: o Barack Obama avvia una politica di dialogo reale con Teheran, per esempio abbandonando esplicitamente e chiaramente l’opzione militare, offrendo all’Iran una sviluppo controllato dell’energia atomica a usi pacifici, proponendo un Medio Oriente libero dalle atomiche (probabilità molto bassa, per non dire inesistente), oppure Tel Aviv metterà in atto (da sola o con Washington, anche tirandola per i capelli con un’azione di sorpresa) un’offensiva per liquidare il potenziale armamento atomico e missilistico iraniano.
E questo momento avverrà presto, perché secondo i calcoli dei servizi segreti israeliani, l’Iran si doterà della bomba, come loro dicono, in uno spazio di tempo abbastanza veloce, due o tre anni. Cioè nel corso del primo mandato del presidente Obama.
Questo è quello che intendo per "situazione anormale". Pochi in occidente se ne rendono conto, e, per questo, saranno colti di sorpresa. Eppure è a questo che si sta andando. Perché fermare l’Iran si può fare in uno dei due modi sopra descritto. Obama può prendere l’aereo e andare a Teheran a dire ai dirigenti iraniani che l’America ha rinunciato all’uso della forza nei loro confronti e propone una intesa per la gestione comune internazionale del programma nucleare iraniano? Se non può farlo, resterebbe solo l’opzione del bombardamento. Ma il pericolo per la pace mondiale ci sarebbe anche se lo facesse perché vorrebbe dire che Israele ha perduto l’appoggio incondizionato di Washington e deve prepararsi a trattare con i palestinesi. Cioè a rinunciare al dono del Dio di tutti gli eserciti.
Ricordo a voi che nei giorni che hanno preceduto immediatamente l’attacco di Gaza, il governo israeliano ha chiesto il permesso agli Stati Uniti di bombardare l’Iran, e lo ha chiesto con tre domande molto precise. La risposta del presidente Bush, che ha avuto paura, è stata “no”. Le richieste erano tre: dateci bombe ad alta penetrazione; dateci la possibilità di rifornire i nostri aerei in volo perché tornino alle basi di partenza senza toccare terra; dateci il permesso di passaggio dei nostri aerei sul territorio iracheno Il portavoce di Bush ha risposto in modo singolare: «abbiamo risposto no alla prima domanda, no alla seconda domanda, e alla terza abbiamo risposto no no no». Ma le domande sono state fatte, il che vuol dire che sono pronti. Anzi vuol dire che sono pronti loro, ma che sanno perfettamente che è pronta anche l’America, perché in caso di attacco all’Iran incomincerà la guerra di vaste proporzioni.
È in quella fase che la situazione sarà anormale, e sarà in quel momento che il popolo palestinese subirà il colpo decisivo senza che nessuno possa reagire. Perché saremo tutti in guerra e avremo altro cui pensare, e l’opinione pubblica europea penserà al petrolio che balzerà in alto, al riscaldamento in pericolo, agli ospedali al buio e ai negozi vuoti. Tutto questo sfugge a quasi tutti, ma fa parte del disegno. Saremmo veramente degli ingenui pensassimo che chi ha mandato gli aerei a bombardare la gente di Gaza, con quella smisurata ferocia, pensi in altri termini. A questo scenario sono preparati. Anche perché c’è del genio in questa follia. E loro hanno sempre ragionato con grande acume e freddezza. Oggi con più freddezza di ieri.
L’America è in crisi, il loro principale protettore è in crisi. E che ne sarebbe di Israele, della sua potenza militare, del suo monopolio della potenza se i suoi protettori si trovassero improvvisamente non a cambiare idea, ma in difficoltà. Che accadrebbe se Israele si trovasse a non avere più gli alleati solidi che ha avuto in questi anni? Ecco perché gridano alla minaccia all’esistenza di Israele: sanno benissimo di non essere minacciati, ma pensano di perdere la protezione e di dover trattare. Quindi si preparano (è da decenni che si sono preparati) a giocare d’anticipo, a organizzare una guerra più grande. Ecco perché affermo che lo Stato d’Israele è diventato il pericolo principale per la pace del mondo, non solo per la sorte del popolo palestinese.
Ritorno dunque al punto di partenza. Bisogna che incominciamo a ragionare in termini di una battaglia politica per modificare non le posizioni di Israele (che può cambiarle solo se costretto dalla comunità internazionale) ma le opinioni della gente europea, italiana in primo luogo. Per fare questo consentitemi una notazione: noi abbiamo le nostre assemblee, le nostre manifestazioni, quando ci riusciamo. Ma guardate che l’intera narrazione di ciò che è avvenuto in questa guerra l’hanno fatta loro. Noi abbiamo denunciato, ma le nostre voci sono piccole e flebili. Paradossalmente sono state più efficaci le immagini mostruose della gente innocente ammazzata che, in un modo o nell’altro, sono giunte nelle case italiane e che hanno parzialmente disinnescato la versione bugiarda che le accompagnava. Amici diamoci una svegliata, tutti insieme! O noi ci dotiamo di una televisione e di una radio nazionale che parli a un milione di persone al giorno, oppure dobbiamo sapere che non potremo difendere i palestinesi né difendere noi stessi. Né oggi, né mai. Quando dico tutti noi, dico tutta l’area della pace, quella che esisteva e che non esiste più, ma che potrebbe esistere di nuovo, se capissimo dove siamo.
Il che, lo ripeto, equivale a prendere atto che il racconto della storia contemporanea lo stanno facendo loro; che noi siamo stati espulsi dalla narrazione, noi non abbiamo modo di parlare a milioni di persone, non abbiamo voce. Quindi la questione dell’informazione deve diventare il punto principale della nostra attenzione. Possiamo farlo? Certo che possiamo farlo. Ma questi strumenti dobbiamo pagarceli di tasca nostra. Non ce li regalerà nessuno. Io, con parecchi altri giornalisti, ho messo insieme un progetto. Andate a vedere su PandoraTV (www.pandoratv.it). Ci consentirebbe di parlare, con pochissimo denaro, a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Cosa aspettiamo!? Ho chiesto: tirate fuori 100 euro a testa. Facciamo questa televisione per due anni Che è il momento cruciale in cui si deciderà tutto. Volete darci una mano? Perché, se non facciamo questo, noi possiamo anche salvarci la coscienza e dire che abbiamo fatto molto, ma non avremo fatto quello che poteva farci vincere, o almeno non faci perdere ancora una volta.
Ricevo decine di mail ogni giorno, di giovani che mi chiedono spiegazioni, chiarimenti, che fanno domande. Quante migliaia ci sono, che pongono le stesse domande e che non mi scrivono? E a queste domande chi risponde?. Siamo noi che dobbiamo andare da loro. Siamo noi che gli dobbiamo proporre la nostra spiegazione. Siamo noi che dobbiamo capire che non c’è più battaglia in questo momento, in questa fase della storia, se noi non capiremo che è sul terreno dell’informazione, della comunicazione, che i gioca la partita. La grande partita per evitare che altri bambini palestinesi siano bruciati, insieme ai nostri, insieme a noi.
Fonte: www.megachip.info