di
Maurizio Donato
Nel corso di una intervista realizzata per conto di ABC news, è stato chiesto al Presidente Obama che cosa ne pensasse dell’opinione di molti economisti secondo cui gettare risorse in banche praticamente fallite è un errore. Perché non nazionalizzarle? chiede Terry Moran.
La risposta di Obama: «Guardi, è interessante quest’argomento. In effetti abbiamo l’esempio di due paesi che hanno conosciuto grandi crisi finanziarie nell’ultimo decennio: uno era il Giappone, che non è nemmeno riuscito a conoscere con esattezza l’ampiezza e la scala dei problemi del suo sistema bancario, che hanno causato il cosiddetto “decennio perduto”». C’è stata una specie di ripresa quando il governo di Tokyo ha pompato moneta nel sistema, ma non è accaduto nulla dal punto di vista della crescita.
«In Svezia, al contrario, dove si è presentato un problema analogo, il governo ha nazionalizzato le banche, eliminato le attività finanziarie tossiche, rivenduto le banche, e in un paio di anni queste si sono riprese. Sicché si potrebbe pensare: hanno fatto bene, è un buon modello, ma – vede – il problema è che la Svezia ha qualcosa come cinque banche,» ride Obama, «noi [gli Usa] ne abbiamo migliaia,» la dimensione del mercato è diversa e poi c’è una tradizione differente in questo paese.
Onestà intellettuale e riconoscimento dell’impotenza. La crisi, o meglio il virtuale fallimento del sistema finanziario nordamericano, non ha equivalenti o precedenti nella storia del capitalismo. E ammissioni parimenti significative vengono dal nuovo segretario al Tesoro dell’amministrazione, Tim Geithner, che ha commentato con queste parole il ‘nuovo’ Financial Stability Plan.
«I governi e le banche centrali ovunque nel mondo hanno perseguito politiche che – col senno di poi – hanno determinato un aumento enorme del credito, fatto schizzare in alto i prezzi delle case e i mercati finanziari sfidando la gravità. Gli investitori e le banche hanno preso rischi che non conoscevano, le persone, gli uomini di affari e i governi hanno preso a prestito al di là dei propri mezzi, le ricompense che sono andate ai dirigenti degli istituti finanziari sono andate oltre ogni realistico apprezzamento del rischio. Ci sono state sistematiche mancanze nei meccanismi di controllo nel sistema da parte dei consigli di amministrazione, delle agenzie di rating e degli organismi governativi di regolamentazione. Il nostro [degli Usa] sistema finanziario ha operato senza vincoli sufficienti per limitare il rischio, e tutto questo ha prodotto la peggiore crisi economica da generazioni.»
Il discorso – tipicamente ‘Obamiano’ – di Geithner continua su questa lunghezza d’onda prima di presentare il piano di salvataggio del sistema bancario, e si conclude significativamente affermando che tale piano costerà molto, comporterà rischi e prenderà tempo; il piano potrebbe essere modificato, ed è possibile che saranno tentate cose ‘we’ve never tried before’.
Come meravigliarsi se il giorno dopo queste parole la borsa di New York ha reagito negativamente? Sostanzialmente – e rimandando a un’altra occasione un commento più approfondito su entrambi i versanti del piano anticrisi, quello fiscale e quello monetario – abbiamo un Presidente degli Usa che dichiara di stare seguendo la strada sbagliata (o quanto meno inutile, ma è lo stesso) perché non è possibile prendere in considerazione lo strumento delle nazionalizzazioni, e un Segretario al Tesoro che dichiara che tutti hanno sbagliato tutto, dai governi alle banche centrali alle istituzioni finanziarie.
In queste condizioni, in cui la politica si dichiara esplicitamente impotente nei confronti di meccanismi evidentemente sistemici, quali effetti strutturali e di lungo periodo potrà avere una politica di spesa pubblica e di tagli fiscali che si presenta come la più imponente mai realizzata da un governo come quello Usa? Durante l’anno di (dis)grazia 2008 negli Usa sono andati persi tre milioni di posti di lavoro; solo durante lo scorso mese di gennaio (2009) ne sono stati distrutti altri seicentomila. Ma che cosa sta succedendo?
Limitandoci al settore finanziario Usa, e riprendendo ancora una volta le dichiarazioni ufficiali del Segretario al Tesoro, la crisi riguarda la fiducia, il capitale, il credito, i consumi e la domanda. Ma perché l’economia non riparte? Perché – dice Geithner – le banche e le altre istituzioni finanziarie, anziché fornire credito alle imprese e ai consumatori, tengono i fondi fermi, contribuendo e probabilmente accelerando la recessione. Ma perché, occorrerebbe continuare a chiedersi – e Geithner non lo fa, almeno in questa occasione – le banche si mantengono liquide come non mai, anziché impiegare i propri depositi? La risposta che usualmente si dà è che non si fidano l’una dell’altra; detto in maniera più chiara, i bilanci delle maggiori banche sono palesemente falsi, ma bisognerebbe spingersi ancora un po’ più avanti nell’analisi e domandarsi se davvero esiste una grande richiesta non soddisfatta (parliamo delle imprese, diverso è il caso delle famiglie dei lavoratori) o se per caso il credito viene negato anche perché non si intravedono grandi opportunità di profitto e questo riporta la questione al suo cuore, la crisi come sovrapproduzione, sovrabbondanza di capitale nella sua forma di capitale monetario, di merce, di impianti, di capitale variabile in eccesso rispetto alle possibilità di profitto.
Se quest’analisi è corretta, allora non solo i piani di stimolo fiscale sono un palliativo temporaneo e insufficiente, per di più se finanziato con i soldi dei lavoratori, ma soprattutto non si capisce perché il settore pubblico dovrebbe comprare i titoli tossici, salvare e contribuire a ricapitalizzare banche fallite magari “incentivandole” a impiegare risorse in attività rivolte ad ottenere profitti incerti e insufficienti. Se per nazionalizzazione si intende l’utilizzo di risorse pubbliche per coprire le perdite, salvo poi restituire le banche risanate al settore privato, è davvero un caso di “socialismo per ricchi” che costituisce l’esatto contrario di quanto il buon senso e un’ottica anche solo vagamente redistributiva suggerisce, e cioè sostenere il lavoro, e non il capitale.
Si potrebbe cogliere l’opportunità della crisi per rimettere in discussione proprio l’obiettivo del profitto come motore dell’economia, ma forse è ancora troppo presto. Tra qualche mese, quando sarà chiaro che nessuna delle manovre si è rivelata efficace, se ne potrebbe riparlare, ma la situazione potrebbe essere diversa.
Fonte: www.megachip.info