DI

CLAUDIO MOFFA
giustiziagiusta.info/

 

                                                                                                                                                                   

 

 

 

 

 

 

 

 

Interessante e curiosa la storia dell’emendamento D’Alia e relative proteste, al disegno di legge 733 sulle misure di sicurezza recentemente approvato dal Senato. Interessante, perché il senatore D’Alia è un giovane senatore (classe 66) molto presente nel dibattito parlamentare, attento conoscitore, fra l’altro, anche dei gravi problemi internazionali dei nostri tempi, come attestano i suoi voti convinti a favore delle missioni italiane all’estero e la sua visita in Medio Oriente il 5 dicembre scorso. Curiosa, la storia del suo emendamento, perché paradossalmente le critiche che lo hanno investito sono scoppiate in modo virulento proprio nel momento in cui l’iniziale versione – a rischio di palese incostituzionalità – veniva a sua volta emendata e drasticamente corretta.
Basta fare la cronistoria delle tre proposte D’Alia per rendersene conto: al 6 febbraio solo un paio di siti risultano protestare contro l’introduzione da parte del parlamentare UDC, di un nuovo articolo, il 50 bis, titolato “repressione di attività di apologia o incitamento di associazioni criminose o di attività illecite compiuta a mezzo internet”. In breve questa prima richiesta prevedeva al primo comma che “salvo che il fatto costituisca reato, il Ministro dell’interno, quando accerta che alcuno, in via telematica sulla rete internet, compie attività di apologia o di incitamento di associazioni criminose in generale, di associazioni mafiose, di associazioni eversive e terroristiche, ovvero ancora attività di apologia o di incitamento della violenza in genere e della violenza sessuale, della discriminazione o dell’odio etnico, nazionale, razziale o religioso, dispone con proprio decreto l’interruzione dell’attività indicata, ordinando ai fornitori di servizi di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”.
L’incostituzionalità di questo primo emendamento D’Alia ci sembra evidente: è il potere esecutivo a decidere sia pure provvisoriamente, se un tal fatto sia o non sia reato; è sempre il potere esecutivo a decretare, su suo personale accertamento in quanto capo del Dicastero dell’Interno, l’interruzione dell’attività presunta criminale da parte dei “fornitori dei servizi di connettività”. Inoltre, la puntigliosa lista dei reati sotto osservazione – un minestrone ibrido di reati per fatti di violenza e di altri, veri o presunti, di opinione – sembrerebbe pericolosa ai sensi dell’art. 21 della Costituzione.
Ma questa era appunto, la prima versione, su cui si è registrato un silenzio assordante da parte del mondo di internet e politico. Passano pochi giorni e la seconda e terza versione dello stesso 50 bis proposto da D’Alia, sono invece differenti: per esse infatti, nel rispetto della classica separazione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione, il ministro dell’Interno “può” intervenire solo “quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali” e solo “in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria”.
E’ dunque la magistratura che opportunamente decide dell’esistenza o meno di indizi-notizie di reato, e il potere del ministro sembrerebbe in qualche modo essere una sorta di doppione di quello a disposizione, tramite decreto d’urgenza, dell’autorità giudiziaria. Inoltre nella seconda versione è prevista esplicitamente la possibilità di ricorso contro l’eventuale decreto ministeriale e scompaiono altri passi inquietanti: viene depennata innanzitutto la puntigliosa lista, e si parla giustamente solo di “delitti di apologia di reato previsti dal codice penale” con ciò stesso rinviando alle eventuali ambiguità del nostro codice (basti pensare alla vecchia legge Mancino) per quel che riguarda i reati di opinione; non si parla più di “segnalazione di soggetti privati o pubblici” come fonte di “accertamento” dei reati, ma solo della “polizia postale e delle comunicazioni” che così fungerebbe da filtro obbligatorio rispetto alle pressioni sul ceto politico da parte di più o meno noti e potenti gruppi di ‘opinione pubblica’ sostenuti e talvolta creati dai grandi mass media; non si prevede poi, la sanzione fino a 50mila euro per l’ “autore” dello scritto ancora sotto indagini, ma solo la sanzione per i “fornitori di servizi di connettività” che ne permettono la diffusione in rete; infine nella versione definitiva approvata dal Senato viene eliminata anche, a vantaggio di altri Dicasteri, la discrezionalità primaria del Ministero dell’interno nella definizione dei “requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio”.
Certo neppure con queste correzioni possono svanire i legittimi allarmi dal punto di vista della libertà di opinione che aleggiano da tempo attorno ad internet. Ma non si capisce perché proprio nel momento in cui sono stati depennati i superpoteri del Ministro dell’interno, si è scatenata la campagna di una parte almeno del centrosinistra contro D’Alia, che peraltro non appartiene neppure al PdL, ma all’UDC: ecco così che L’Espresso intervista pochi giorni fa il senatore siciliano e gli fa dire qualcosa che nel testo approvato non c’è – e cioè che l’emendamento prevede l’oscuramento di tutto il sito responsabile della pubblicazione di articoli sotto indagine. Ed ecco che Di Pietro sul suo blog parla di bavaglio ad Internet, e paragona l’Italia alla Birmania e alla Cina. E’ un po’ troppo, soprattutto da parte di chi ai tempi di Tangentopoli voleva sbattere in galera più o meno tutto il Parlamento italiano, col sostegno del solito giornalismo “progressista”.
In effetti, i problemi di Internet e della difesa della libertà di espressione in rete, sono altri e sono sintetizzabili in tre punti chiave che questo 50 bis – emendamento particolare a una legge particolare dedicata alla questione sicurezza – non affronta: primo, non si può continuare a dire no a tutto, di fronte allo scempio dei video su gratuite scene di sadismo e di violenze di gruppo, e di fronte a certi “dibattiti” in cui i soliti ignoti nascosti da un inaccettabile anonimato diffamano con una violenza verbale che potrebbe persino configurarsi come una vera e propria forma di violenza intimidatoria, chi la pensa diversamente da loro. Secondo, quel che va abolito è appunto l’anonimato sui blog, e quel che va richiesta è la responsabilizzazione del gestore del sito, magari abbassando l’età dei “direttori” delle decine migliaia di blog ormai esistenti nel nostro paese per non ledere le libertà di espressione delle generazioni più giovani.
Terzo e soprattutto, va stabilito un confine netto fra i veri reati e quelli, spesso presunti, di opinione: qui si annida il vero rischio totalitario che minaccia internet. E ci piacerebbe molto che al momento opportuno, Di Pietro prendesse posizione verso queste tendenze illiberali della nostra epoca, che di certo sono ben radicate e forti, purtroppo, anche nello. schieramento a cui egli appartiene.
Claudio Moffa
Fonte: www.giustiziagiusta.info/
Link: http://www.giustiziagiusta.info/index.php?option=com_content&task=view&id=2873&Itemid=1
16.02.2009
VEDI ANCHE: EMENDAMENTO D’ALIA E’ CENSURA WEB