di
Fulvio Grimaldi
Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.
(Golda Meir, Premier israeliano, 1969)
Israele doveva sfruttare la repressione delle dimostrazioni in Cina (nei giorni di Tienanmen) quando l’attenzione del mondo era concentrata su quel paese, per procedere all’espulsione di massa degli arabi dai territori.
(Benyamin Netanyahu, favorito candidato premier per le elezioni israeliani del 10/2/09)
La parola a Ilan Pappe
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La sera stessa venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aeree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e, infine, collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di far ritorno… Questo progetto definitivo dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene… l’obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina…
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano e la sua sistematica attuazione fu un caso lampante di un’operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità.
Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala… Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna dalla terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata e ancora oggi non è riconosciuta come un fatto storico e tanto meno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente, sia moralmente.
La pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerati criminali da portare davanti a tribunali speciali…
Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani,
(Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Editore)
Breve nota storica
Il lavoro di Ilan Pappe, uno dei “Nuovi Storici” israeliani, costretto a lasciare la cattedra di Haifa e a trasferirsi all’Università di Exeter, è esploso come una bomba in un’opinione pubblica israeliana e mondiale, fino allora in massima parte intossicata ed accecata dalla propaganda di regime israeliana e dei governi e media a tale regime allineati.
La citazione riportata si riferisce al peccato d’origine, pervicamente ignorato o occultato, nella storia del confronto arabo-israeliano e della questione palestinese. Un’invasione-occupazione sostituita, al meglio, dalla mistificazione della “contesta di due popoli per la stessa terra” e, al peggio, dalla “guerra della democrazia contro il terrorismo”.
Ma il 1948 non fu che l’inizio di una della più terribili storie di persecuzione e liquidazione, svoltasi nella totale impunità dei responsabili e nella complicità della sedicente “comunità internazionale”. L’ONU, nel 1947, aveva indebitamente spartito la Palestina concedendo alla minoranza di invasori (europei, asiatici e statunitensi e in minima parte mediorientali e africani) ben il 52% del territorio. Già pochi mesi dopo, espulsa oltre metà della popolazione autoctona, Israele si era impadronita con la forza complessivamente del 78%. Nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, Israele si prese il resto della Palestina che iniziò a colonizzare con propri insediamenti, popolati oggi da oltre mezzo milione di coloni a dominio degli ultimi frammenti separati di presenza palestinese. Nel 1978 e nel 1982 Israele, per accaparrarsi oltre a tutte le acque palestinesi anche quelle del Litani in Libano, invase ripetutamente il paese vicino uccidendo migliaia di civili e compiendo, con Ariel Sharon e i suoi alleati falangisti, la strage dei 3000 civili a Sabra e Shatila. Dal Libano, le truppe israeliane furono cacciate dai combattenti di Hezbollah nel 2000. Una seconda invasione, nel 2006, ebbe lo steso risultato. Pagando la propria resistenza con l’uccisione di oltre 1.300 concittadini libanesi, Hezbollah e i suoi alleati respinsero l’attacco nel giro di poco più di un mese.
Gaza, sgomberata da Sharon dei suoi 6000 coloni per poter meglio disporre militarmente della Striscia, viene assaltata il 27 dicembre 2008 dopo un blocco di 18 mesi che aveva ridotto il milione e mezzo di abitanti alla fame, al collasso economico, alla neutralizzazione di tutte le strutture vitali. Nello stesso periodo assassinii mirati e bombardamenti provocano la morte di centinaia di civili e dirigenti. Proseguono anche le incursioni, le distruzioni, le uccisioni e gli arresti in Cisgiordania dove la polizia del presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) da man forte all’occupante. 11.000 sono nel 2009 i palestinesi detenuti e spesso torturati (come denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali) nelle carceri israeliane, perlopiù senza processo e senza imputazioni. A Gaza, una tregua di tre mesi, stabilita nell’autunno 2008 sotto auspici internazionali, viene violata unilateralmente da Israele con la continuazione del blocco (atto di guerra per la Convenzione di Ginevra) e con un’incursione il 4 novembre che provoca la morte di sei cittadini palestinesi. Solo a questo punto Hamas, il legittimo governo della Palestina occupata e, in quanto occupata, autorizzata dalla Carta delle Nazioni Unite a resistere con tutti i mezzi, risponde con i razzi artigianali Kassam. L’impari scambio di ostilità risulta in 3 vittime israeliane e in quasi 7000 abitanti di Gaza uccisi o feriti. Quasi all’unanimità governi, forze politiche “democratiche” e media, confortati dal consenso del quisling palestinese Abu Mazen, le cui milizie sono addestrate, finanziate e armate dagli Usa, attribuiscono ad Hamas l’intera responsabilità della crisi e del successivo genocidio.
Intanto cinque milioni di palestinesi in esilio attendono il ritorno alle loro case sancito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. 8 milioni di palestinesi chiedono, dopo sessant’anni, che le leggi universali del diritto umanitario e dell’autodeterminazione dei popoli valgano anche per loro. Forse il martirio di Gaza ha avvicinato quel momento. Contro ogni aspettativa israeliana, l’enormità dei crimini perpetrati, che si proponevano come modello per il dominio sui deboli in tutto il mondo, può rappresentare una svolta storica nello scontro tra verità e menzogna, tra ragione e torto, tra giustizia e ingiustizia, tra passato e futuro. In Palestina e non solo.
Di questo e altro si parlerà nel mio prossimo libro "Gaza: di Resistenza si vince" (Malatempora Edizioni).