di

Alessandro Cisilin – Megachip

 islam
Non è un pamphlet e non strilla, “ L’Islam immaginato” del sociologo Marco Bruno. È un lavoro scientifico, nel metodo e nel linguaggio, benché di facile lettura. Nondimeno è dirompente.
Lo sapevamo un po’ già della demonizzazione del mondo musulmano operata dopo l’11 settembre dai media “cattivi”, interessati a contribuire alla globale strategia della tensione a tutela della civiltà (occidentale, opulenta e cristiana). Il testo, edito da Guerini, ci fa capire qualcos’altro: che i contenuti di quella distorsione dell’Islam sono diventati dati incontestati col fattivo contributo della sedicente stampa progressista.
Il mondo è la mia rappresentazione, scriveva Schopenhauer, ma due secoli fa non c’era la televisione. E allora oggi Bruno spiega invece che “la nostra comprensione della realtà è mediaticamente assistita”. In altre parole “i media supportano un naturale sforzo di categorizzazione e conferimento di senso” alle cose, alle persone, ai comportamenti privati e ai fenomeni storici. Alla faccia dei prezzolati giornalisti televisivi che ancora spiegano, ad esempio, la scarsa irrilevanza dello schermo nella costruzione degli orientamenti politici degli italiani.anti islam
E il “senso” e la “categorizzazione” mediatica del mondo
musulmano sono stati negli ultimi anni edificati attraverso una serie piuttosto estesa di stereotipi tra loro correlati.
Quelli di un Islam sinonimo di islamismo, ovvero di un credo religioso uniforme e confuso col progetto fanatico di alcuni movimenti armati.
Una fede intimamente “altra” rispetto all’identità europea, con i suoi correlati di antimoderna irrazionalità, di oppressione delle donne e di possibilità di violenza, addirittura di guerra.
Una religione strutturalmente minacciosa, dunque, da distinguere da una categoria di “Islam moderato”, come se quello “normale” fosse per definizione “estremista”.
Come se esso non facesse già parte, da secoli, dell’identità europea. E come se, guardando viceversa noi stessi dall’esterno, si valutasse l’essenza del cristianesimo (e delle culture dei paesi a maggioranza cristiana) nell’attività del Ku Klux Klan, nelle discriminazioni femminili tuttora perpetuate da varie organizzazioni confessionali (e famiglie), o ancora nei riferimenti biblici a un mondo da costruire attraverso la supremazia delle armi e alla giustizia dell’“occhio per occhio”.
borghezio
La ricerca di Bruno esamina il caso italiano, che è un caso limite, col suo panorama mediatico articolato intorno ai monopoli del presidente del Consiglio. Ed è un presidente del Consiglio che si è orgogliosamente eretto a supremo suddito dell’amministrazione Bush, quella che coniò la teoria dello “scontro di civiltà” con il mondo musulmano, ben prima dell’11 settembre. Nulla di strano dunque che l’Italia abbia conquistato un ruolo senza pari nella costruzione mediatica del mostro-Islam.
La sorpresa è che a quella catena di stereotipi abbiano aderito, senza resistenza alcuna, anche i giornalisti e gli intellettuali cosiddetti “progressisti” o “moderati”. Proponendo risposte “tolleranti” nei confronti dei musulmani ma al contempo allineandosi al presupposto di etichette buie e allarmistiche. Per trarre alcuni esempi da Bruno: “Mamma li turchi”, con il volto di una donna col velo e con un sopracciglio a forma di sciabola, non è stata la copertina di un giornale di destra, bensì de L’Espresso, che all’indomani dell’attacco alle Due Torri è stato capace di un’altra, con l’immagine di un musulmano e il titolo “Lui ti odia. E tu?”.
O ancora, il quesito posto in apertura a un supplemento del borghese e laico Corriere: “E tu sei ancora amico dell’amico musulmano?”.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Ma non serve. Il concetto è abbondantemente passato. Il “problema Islam” esiste, è un truismo indiscutibile, con tanto di convegni e dibattiti estesi nei circoli “di sinistra”, con l’imperativo: “non possiamo non porcelo”, seppur ricercando risposte improntate all’accoglienza e all’integrazione.
E se qualcuno prova a obiettare: “siamo sicuri che il problema c’è?” o a chiedere quale sia, viene solitamente seppellito da sguardi di commiserazione o tutt’al più da risposte che fanno leva su almeno una parte degli stereotipi suddetti. Più o meno quel che accade in queste settimane quando si tenta di argomentare, cifre del Viminale alla mano, che l’“emergenza sicurezza” o l’“emergenza rumeni” non sussiste.
demonizing
Naturalmente, alla catena di stereotipi si oppone qualche meritevole inchiesta giornalista capace di far effettiva luce sulla realtà dell’Islam. Si tratta tuttavia di spazi sporadici, confinati ai margini dei palinsesti e dei giornali. Che non solo non raggiungono il grande pubblico, ma neppure gli addetti ai lavori. Col risultato che questi ultimi perpetuano acriticamente la “routine” descritta da Bruno.
Quella routine è strutturale al “meccanismo interno” dei media generalisti attraverso l’assiduo, e a tratti inevitabile, ricorso alla semplificazione, che però nel caso dell’Islam è una semplificazione degradante. Amplificata soprattutto da quel potente contenitore di “categorie culturali uniche”, come ha definito nei giorni scorsi la tv il trionfante conduttore di Sanremo.
C’è molto altro in questo testo che probabilmente, nell’era della globalizzazione e delle società dell’immigrazione, dovrebbe entrare nella biblioteca di ogni addetto ai lavori a maggior titolo di pesanti quanto inutili manuali.
Sempreché il giornalista non voglia continuare a svilirsi nel ruolo di servo acritico degli “imprenditori politici della paura”. Non li chiama così qualche ideologo scatenato. È una definizione comunemente adottata da Bruno e da altri studiosi.

Fonte: www.megachip.info
mailto: acisilin@yahoo.it