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I segni della crisi economica mondiale cominciano a farsi evidenti anche in Russia, dopo anni di crescita e relativa stabilità dovuta all’elevato prezzo di gas e petrolio.

Crollati i profitti facili derivanti dalla bolla energetica, adesso il Cremlino è costretto a ricorrere alle proprie riserve finanziarie per fronteggiare un’emergenza che rischia di travolgere il settore industriale russo, e con esso decine di migliaia di lavoratori: iniezioni massicce di dollari (il rublo si è svalutato del 30 percento in meno di un anno, rispetto al biglietto verde) per soccorrere oligarchi e magnati dell’acciaio indebitati onde evitare che questi attivino un pericoloso effetto domino: più persone licenziate uguale più instabilità per il regime putiniano.

Nuove elezioni‘. Solo a gennaio, la disoccupazione è aumentata di 330 mila unità, raggiungendo i 6,1 milioni di persone. Di queste, solo 1,8 possiedono i requisiti per poter accedere al sussidio. La previsione di crescita dell’economia russa è dell’uno per cento quest’anno, dopo anni in cui l’Orso è stato ben avvezzo e ben corroborato dalla pioggia di liquidità del petrolio a 140 dollari al barile. L’inflazione ha raggiunto il 13 percento, e lo stipendio medio che a settembre era di 20 mila rubli (550 euro), al cambio attuale vale 386 euro. Così, nelle piazze cominciano a radunarsi i manifestanti: due giorni fa, a Mosca riecheggiavano cori familiari alle orecchie dei lavoratori russi fino al ‘99, prima cioè che Putin prendesse le redini del potere rimuovendo il brutto ricordo degli sperperi eltsiniani e della svendita delle grandi compagnie di Stato. Trecentocinquanta persone si sono radunate due giorni fa nel centro della capitale, aizzati da uno dei leader dell’opposizione, Michail Kasyanov, che ha parlato di una crisi “non solo finanziaria, o economica, ma di sistema”, invocando nuove elezioni entro sei mesi.

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Contraccolpi. Nonostante il governo liquidi le critiche considerandole mere ‘farneticazioni di un opposizione radicale e marginale’, lo stesso Medvedev ha ammesso di “lavorare a passo troppo lento, inaccettabilmente lento, per una crisi”. I manifestanti esibivano cartelloni color arancione, in ricordo della Rivoluzione ucraina che ha portato un governo filo-occidentale al potere. Ma anche nel Paese confinante spirano venti di crisi. Il deterioramento della salute finanziaria di alcuni istituti di credito, in Ucraina come in altri Paesi dell’ex cortina di ferro, incombe come una spada di Damocle sulle loro case madri in occidente. Il tema è stato discusso ieri a Berlino dai ministri delle Finanze. I ricavi delle banche più esposte nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale hanno perso tra il 10 ed il 25 per cento in borsa. In Repubblica Ceca, in Romania ed in Croazia la maggior parte del sistema creditizio appartiene infatti a istituti ‘occidentali’. E il crollo della borsa di New York della settimana scorsa è stato provocato proprio dagli oscillanti mercati dell’Est Europa. Gli Stati Uniti risentiranno di tali ripercussioni soprattutto sul mercato delle obbligazioni. Secondo Kenneth Rogoff, professore all’università di Harvard ed ex capo economista al Fondo monetario internazionale, “i mercati creditizi sono ormai strettamente interconnessi, e la crisi dell’Europa orientale è destinata a incidere pesantemente sulle obbligazioni Usa”. Secondo altri, Paesi come Polonia e Ungheria, che nel tentativo di emulare il libero mercato dopo il crollo del Muro hanno chiesto pesanti prestiti, stanno adesso segnando il passo: tali governi sono costretti a tagliare la spesa pubblica e ridurre i servizi sociali, perchè nessuno, oggi come oggi, è più disposto a prestargli un quattrino.

[FONTE: peacereporter.net]