di
Simone Santini
Salutato dai media occidentali come un grande segnale di apertura e pacificazione, il video-messaggio lanciato dal presidente statunitense Barack Obama all’Iran in occasione del capodanno persiano sembra aprire una nuova stagione nei rapporti internazionali. Ma molteplici segnali indicano una soluzione opposta. L’Amministrazione americana, infatti, potrebbe aver deciso: sarà guerra per l’Iran.
Per spiegare questa drastica e preoccupante ipotesi, è necessario fare riferimento alla attuale situazione geopolitica. Se non interverranno forze esterne, nel termine di pochi anni la SCO (Organizzazione di Shangai per la Cooperazione) determinerà il consolidarsi di un blocco asiatico tale da provocare la fine dell’egemonia statunitense. Dell’organizzazione fanno ora parte Cina, Russia ed un gruppo di paesi centro-asiatici già parti integranti dell’Unione Sovietica. A giugno si discuterà dell’ingresso dell’Iran che ha proposto la candidatura per passare dal ruolo di osservatore a quello di membro effettivo.
Specialmente la Cina avrà molto da guadagnare dall’imporsi di una alleanza strategica, economica e militare, con Russia e Iran.
L’impero americano si regge essenzialmente su due pilastri: il potere finanziario del dollaro e l’egemonia tecnologico-militare. La divisa americana è il parametro di riferimento negli scambi commerciali a livello planetario, ogni transazione, e specialmente nel nevralgico settore dell’energia, viene effettuata in dollari. Gli americani possono così stampare banconote a loro piacimento per finanziare i propri consumi senza che l’emissione di moneta abbia nessun corrispettivo di valore economico reale. Si tratta di un autentico signoraggio monetario applicato all’intero pianeta, ovvero si scambiano foglietti di carta verde (senza nessun valore intrinseco) contro merci, creando una enorme bolla speculativa fondata sul debito. La globalizzazione degli ultimi anni è stato questo: la Cina produceva beni reali e pagava in dollari le materie prime; gli Stati Uniti compravano a debito le merci prodotte pagandole in dollari (che loro stessi stampavano).
Il risultato è che il deficit pubblico americano è andato fuori controllo, e i maggiori creditori sono proprio Cina, Giappone, i paesi produttori di petrolio arabi. Ora, nella congiuntura di crisi i nodi vengono al pettine drammaticamente: il presidente cinese Hu Jintao ha cominciato a chiedersi, pubblicamente, ciò che da anni si sussurra. Gli Stati Uniti sono in grado di onorare il proprio debito?
La domanda potrebbe altresì porsi in questo modo: i creditori avranno mai la forza di costringere gli americani ad onorare il debito, ovvero porli di fronte alla scelta tra il ridimensionamento drastico del loro potere o la bancarotta? La risposta è evidente. Finché l’egemonia militare sarà nelle mani di Washington, nessun paese avrà tale forza.
Ma un’alleanza Cina-Russia-Iran potrebbe creare tali presupposti. Sul piano militare Russia e Cina non sono singolarmente in grado di fare fronte agli Stati Uniti, ma in un contesto di difesa strutturata potrebbero già oggi essere un boccone indigesto da affrontare, tanto più che il divario sarebbe destinato ad assottigliarsi nel futuro. Sul piano economico il meccanismo è ancora più evidente. All’interno della SCO la Cina avrebbe i più grandi detentori di riserve di gas e petrolio al mondo, Russia, Iran e Kazakistan, e tramite loro un accesso indipendente dagli Stati Uniti al bacino del Mar Caspio, il nuovo Eldorado energetico. A quel punto nulla impedirebbe a questi paesi di dotarsi di una moneta autonoma dal dollaro per i loro scambi commerciali. Sarebbe lo sganciarsi dell’area più produttiva al mondo dall’influenza del dollaro e la fine dell’Impero americano.
Gli Stati Uniti hanno ancora del tempo per scongiurare questo scenario. L’occupazione militare dell’Asia centrale cominciata dall’11 settembre aveva evidentemente questo scopo strategico ultimo, il controllo dell’ Heartland e delle sue risorse energetiche per mettere sotto tutela lo sviluppo economico della Cina ed imporle il controllo.
L’Iran rimaneva l’ultimo ed essenziale pezzo del mosaico ma il risorgere della Russia aveva determinato una spaccatura nella strategia imperiale negli ultimi due anni dell’Amministrazione Bush, spaccatura che si è riproposta nell’Amministrazione Obama. Continuare la strategia neo-con che portava alla collisione con l’Iran, come propugnato ora dalla fazione filo-sionista del Dipartimento di Stato con Hillary Clinton, o al contrario dialogare con Teheran e rivolgere la propria determinazione verso la Russia come voluto dal confermato ministro della Difesa Robert Gates esponente di un’area nazional-conservatrice?
Una scelta risultava necessaria perché gli Stati Uniti non sono attualmente in grado di fronteggiare contemporaneamente due scenari di crisi: una rinascente guerra fredda con la Russia ed una possibile guerra calda con l’Iran. L’azione doveva essere diretta a disarticolare il nascente triangolo Mosca-Teheran-Pechino puntando sulla sua divisione. La tentazione di far transitare l’Iran nel campo occidentale è stata reale, ma ora i giochi sembrano fatti. Si troverà l’accordo con Mosca, si mostrerà il volto duro all’Iran.
Zbigniew Brzezinski, uno degli strateghi americani della guerra fredda (fu lui da consigliere per la sicurezza dell’Amministrazione Carter, 1976-80, ad organizzare la trappola afgana in cui caddero i sovietici), in una recente intervista al Corriere della Sera (del 21 marzo 2009, pag. 3) ha dato una lezione di diplomazia indicando due diversi modi per portare a termine una trattativa diplomatica. La prima, con l’intenzione di farla fallire, è quella di fare annunci roboanti che celino richieste inaccettabili alla controparte. La seconda è realmente propositiva, molto più difficile, ed in quel caso è necessario armarsi di tempo, pazienza e soprattutto disponibilità a concessioni.
Il messaggio di Obama all’Iran ha esattamente le caratteristiche della prima ipotesi. In un video di quattro minuti ci si può limitare, come è stato, a fare dichiarazioni di principio e buona volontà ma senza determinare significativi mutamenti di scenario. Ed infatti l’embargo contro Teheran rimane, e rimangono i diktat di interrompere il programma nucleare ed il sostegno al terrorismo (ovvero il supporto di Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina). La risposta della guida spirituale e massimo leader iraniano, Alì Khamenei, è stata infatti quella che gli stessi americani si aspettavano e volevano. Gli iraniani chiedono fatti concludenti, non parole. Per il sistema mediatico occidentale, però, il risultato è stato ottenuto. Obama avrebbe dato una grande apertura di credito agli ayatollah, un grande segnale di distensione accolto con freddezza.
Anche sul piano interno iraniano il messaggio non va nella direzione di favorire il dialogo, quanto piuttosto nell’arroccamento delle posizioni dell’attuale leadership. Il presidente Ahmadinejad in vista delle elezioni di giugno potrà spiegare agli elettori che la posizione di fermezza ha dato il risultato di costringere gli americani ad una apertura. Perché cambiare strategia ora con l’elezione di un moderato?
Da non sottovalutare poi l’effetto determinato dal presidente di Israele Shimon Peres, che accodandosi al messaggio di Obama ha espresso amicizia al popolo iraniano invitandolo allo stesso tempo a cambiare il proprio governo. Presso una opinione pubblica fortemente nazionalista e anti-israeliana, il messaggio di Peres assomiglia più al video di Osama bin Laden, che durante la campagna elettorale americana del 2004 invitava a non rieleggere Bush, che ad un vero tentativo di pacificazione.
Ben diversa da quella con l’Iran appare la trattativa intavolata dagli Stati Uniti con Mosca, ovvero una trattativa vera e propria. In vista del primo incontro tra Barack Obama e Dimitri Medvedev che si terrà a Londra il 1 aprile (ai margini della riunione del G-20), la diplomazia americana ha deciso di inviare in Russia i prìncipi della sua diplomazia per determinare l’agenda dell’incontro, o come spesso accade in questi casi, discutere o ratificare accordi che poi vengono pubblicamente suggellati dai rispettivi leaders.
La delegazione americana è ai massimi livelli e bi-partisan, anzi con molti esponenti di area repubblicana, a testimonianza del fatto che quando sono in gioco gli interessi nazionali, la leadership americana si muova con assoluta unità di intenti. Alcuni nomi, in particolare, dicono quale sia la posta in gioco.
Partecipano Henry Kissinger, il decano della diplomazia a stelle e strisce, uomo di riferimento delle lobbies ebraiche e George Schultz, già Segretario di Stato nell’amministrazione Reagan, indicato da analisti come Lyndon La Rouche quale uomo di riferimento della finanza anglosassone, e segnatamente britannica, negli Stati Uniti. Questo gruppo era stato preceduto da un incontro ai massimi livelli al Cremlino avuto dal generale Brent Scowcroft, già consigliere alla sicurezza nell’amministrazione Bush sr. ed indicato come l’ideologo dei cosiddetti "generali ribelli", ovvero esponenti delle forze armate che avevano contrastato al Pentagono Donald Rumsfeld fino ad ottenerne l’allontanamento e la sostituzione con Robert Gates.
Questa fazione militare si è strenuamente opposta, finora, all’intervento bellico in Iran. Addirittura, durante le ultime settimane del suo mandato, George Bush jr. aveva rivelato alla stampa che dietro pressione di Gates gli americani avevano bloccato la scorsa estate un blitz aereo israeliano contro le installazioni nucleari iraniane, ciò che avrebbe innescato un conflitto.
La notizia che Scowcroft è uno dei personaggi chiave del dialogo tra Wasghington e Mosca potrebbe indicare un mutamento di scenario all’interno della stessa fazione militare finora pro-iraniana, e che, anzi, l’ex generale divenga una sorta di garante di tale cambiamento di rotta.
Certo è che gli americani stanno cedendo su tutta la linea. In un primo rapporto che questi gruppi di contatto hanno consegnato ad Obama (17 marzo) si legge l’intenzione netta di rivoluzionare i rapporti bilaterali con Mosca. Dopo l’autocritica ("Tutte le precedenti amministrazioni americane non capivano assolutamente la Russia ed hanno spacciato i loro desideri per realtà, sostituendo la propria logica a quella russa"; fonte: Etleboro, 19 marzo), le concessioni: rivedere il piano di scudo missilistico da dislocarsi in Europa orientale (Polonia, Cekia) che tanto aveva allarmato Mosca; stop all’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato, come voluto fortemente anche da alcuni paesi europei come la Francia, appena rientrata nel comando integrato dell’Alleanza atlantica e portatrice di una politica decisamente pro-russa e anti-iraniana; rilanciare il dialogo sul controllo della proliferazione delle armi nucleari e giungere ad un nuovo trattato che sostituisca lo START II; coinvolgere la Russia in un progetto di sicurezza integrato europeo; riconoscere alla Russia uno speciale interesse nell’area dei paesi ex-sovietici (come dire fine delle ingerenze americane in Europa orientale, Caucaso, Repubbliche asiatiche ex sovietiche); appoggio all’ingresso della Russia nell’Organizzazione mondiale del Commercio sganciato da controlli e verifiche sul rispetto dei diritti umani, considerati questione interne.
Un ulteriore segnale di questa dinamica appare altamente significativo. Il vice Segretario di Stato americano Matthew Bryza, partecipando ad un incontro internazionale in Turchia sulle tematiche energetiche, ha dichiarato: "Attualmente, l’amministrazione statunitense non vede con occhio di favore la partecipazione dell’Iran al progetto Nabucco" [fonte: Etleboro, 18 marzo] ovvero al gasdotto costruito dagli americani che attraverso il Caucaso e la Turchia dovrebbe unire l’Asia centrale all’Europa. Al tempo stesso il Nabucco è stato declassato come progetto non prioritario nel bilancio dei fondi della UE: dai 250 milioni previsti si è passati a 50.
Questo significa che gli unici grandi progetti di gasdotti che arriveranno da oriente in Europa saranno quelli russi e del monopolista di stato Gazprom. A nord il North-Stream che attraverso il Baltico arriverà in Germania by-passando Polonia e Paesi baltici; e soprattutto a sud il South-Stream (consorzio Gazprom/Eni) che attraverso il Mar Nero unirà Russia ed Europa meridionale scavalcando l’Ucraina.
Il South-Stream era il concorrente diretto del Nabucco. Ma come ebbe a dire Putin, "è inutile depositare migliaia di kilometri di tubi, se poi non hai il gas da metterci dentro", e mentre i russi il gas da convogliare attraverso il South-Stream ce l’hanno, gli americani avrebbero potuto avere le risorse necessarie solo tramite un accordo politico-commerciale con l’Iran. È chiaro che a Washington ad un tale accordo qualcuno aveva pensato, ma ora non più. E se si accetta che i maggiori paesi europei diverranno dipendenti dal gas russo, significa che evidentemente tale salatissimo sacrificio sarà ampiamente ricompensato da un’altra partita, altrettanto o ancor più cruciale.
Se tutti questi segnali portano verso uno scenario di guerra con l’Iran (si vedrà in che modi e tempi), è possibile immaginare un solo spiraglio di pace. Ovvero che Barack Obama incarni effettivamente ciò che ampie fasce della opinione pubblica mondiale si aspettano (forse troppo ingenuamente) da lui, che egli sia il traghettatore del proprio paese verso un mondo realmente multipolare in cui gli Stati Uniti rappresentino una voce importante ma in mezzo a tante altre: Cina, India, Europa e Russia, America Latina, un nuovo mondo, cioè, in cui gli Stati Uniti possano fare la pace con tutti e contemporaneamente poiché smettono la volontà di essere la superpotenza imperiale.
Ma anche se così fosse, permetteranno mai ad Obama di realizzare tale progetto? Glielo permetterà il potere fondato su quello che Eisenhower chiamava il "complesso militare-industriale"? Glielo permetterà la lobby ebraico-sionista? Glielo permetteranno i padroni del pianeta, il potere finanziario transnazionale?
Fonte: www.clarissa.it