Il ritornello è noto. E pure un po’ logoro. Marco Travaglio, per esempio, lo ripete spesso: se fossimo in America, i politici pescati con le mani nella marmellata si dimetterebbero al volo. Beppe Grillo, invece, ha cantato la stessa solfa qualche settimana fa a proposito di certi “prenditori” nostrani: negli Stati Uniti, Tanzi si sarebbe beccato 25 anni di galera. Mentre Michele Santoro, ex maoista ed ex penna di “Servire il popolo”, ci ha messo la classica ciliegina sulla torta. In occasione del terremoto in Abruzzo, pure lui, dagli schermi di RaiDue, ha rispolverato lo stesso refrain: fossimo in America, anzi in California, i soccorsi li avrebbero organizzati meglio. Parole che hanno dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la caduta del muro ha sgretolato anche le certezze dei comunisti che furono. Ma non certi luoghi comuni sull’esistenza di una sorta di paradiso a stelle e strisce.
Eppure: se fossimo in America, forse ieri avremmo letto il New York Times. E ci avremmo trovato ben poco da stare allegri o di cui essere orgogliosi. E infatti, a quanto pare: il ministero del Tesoro del governo Obama ha inviato al Congresso, ovvero al Parlamento americano, una bozza di legge nuova di zecca. Materia: banche e istituzioni finanziarie colabrodo. Obiettivo: dare più poteri al governo per iniettare quattrini (dei contribuenti) nelle banche e nelle istituzioni finanziarie di cui sopra. Unico neo: la copia elettronica della legge in questione recava, stranamente, l’impronta dei computer dello studio legale Polk&Wardwell. Che sempre, stranamente, rappresenta molte banche e lobby di quell’industria finanziaria che dall’inizio della crisi dei mutui subprime ad oggi ha già succhiato trilioni (cioè migliaia di miliardi di dollari) dalle tasche dei soliti contribuenti americani poverazzi. Ma davvero, davvero? Oh-yeah.
Ma il bello – o il brutto – è che se fossimo in America, leggendo ieri il New York Times, non ci saremmo neppure stupiti più di tanto. Anzi: avremmo avuto l’impressione di un mezzo déjà vu.
Da bravi cittadini informati, infatti, ci sarebbero venute in mente le gesta di un signore chiamato Henry Paulson Jr. Che fino a pochi anni fa era amministratore delegato di una delle più grosse banche americane, la Goldman Sachs. E che poi – nel 2006 e per coincidenza – è diventato ministro del Tesoro dell’allora presidente Bush. Perchè ce lo saremmo dovuti ricordare? Perchè, guardacaso: Paulson – sempre per coincidenza e nel pieno della crisi dei mutui subprime (ad autunno 2008) – aveva pensato bene di mettere a punto una legge chiamata Tarp (sigla che sta per Trouble asset relief program). Materia: le solite banche e istituzioni colabrodo. Obiettivo: prendere 700 miliardi di dollari dei soliti contribuenti poverazzi e darli in mano a banche e istituzioni finanziarie di cui sopra. Unico neo: i contribuenti poverazzi per ora non hanno tratto grandi benefici da questo investimento. Ma, per esempio: Goldman Sachs – l’ex banca dell’ex ministro – sì. Perchè si è beccata 10 dei 700 miliardi di cui sopra. Più altri quattrini, sempre provenienti dalle tasche dei soliti contribuenti, ma passati attraverso le casse del gruppo assicurativo American international group. Esattamente i danari che aveva bisogno per evitare il fallimento. O la nazionalizzazione.
Risultato: fossimo in America, avremmo come l’impressione che banche e banchieri siano riusciti, per ora, nell’impresa di cadere in piedi. Ma con aiutini non proprio disinteressati e a spese degli altri. E per certo: sentiremmo l’odore sgradevole di quello che in italiano si chiama conflitto di interessi. Anzi, quella puzza la sentiremmo da un bel pezzo. Addirittura: fin dai tempi dell’amministrazione Clinton (quella, per la cronaca, di Clinton Bill, non di Clinton Hillary). Cioè dai lontani anni Novanta.
Allora: ministro del Tesoro era il signor Robert Edward Rubin. Che prima di diventare ministro, per coincidenza aveva passato anni e annorum (poco meno di 30) a lavorare per la solita Goldman Sachs (sì, proprio quella di Mr. Paulson, ministro di Bush). E guardacaso: pure Rubin, una volta al governo, si era subito impegnato proprio per mandare in pensione una leggiuzza chiamata Glass-Steagal Act, che era in vigore dai tempi della Grande depressione. Materia: le solite banche e istituzioni finanziarie, al tempo (apparentemente) un po’ meno colabrodo. Premessa: il vecchio Glass-Steagal act era stato pensato per evitare fallimenti di banche a catena come nel ‘29 e dintorni. Obiettivo: con le nuove regole, invece, si voleva dare all’Alta Finanza un’impronta un po’ più moderna. Qualunque cosa questo volesse dire.
Ebbene, in questo caso i “nei”, cioè i difettuzzi della nuova leggiuzza, si sono rivelati due. Primo neo: l’abolizione del Glass-Steagal Act è da tempo sul banco degli imputati, come causa della crisi finanziaria che si sta abbattendo da mesi sull’economia mondiale, perchè avrebbe lasciato mani troppo libere a certi giochi di prestigio di banchieri e finanzieri. Secondo neo: le nuove regole sostenute da Rubin permisero la fusione tra due grosse banche: Citicorp e Travelers. Che diedero vita, nel 1998, a un nuovo gigante del credito a stelle strisce, chiamato Citigroup. Che – di lì a poco e per le solite coincidenze del destino – avrebbe scelto un presidente d’eccezione. Indovinate un po’? Sì, proprio lui: l’ex ministro del Tesoro, Robert Edward Rubin.
E non è finita qui. Perchè oggi Barack Obama, che per puro caso tra i finanziatori della sua campagna elettorale aveva alcuni dei più bei nomi di Wall Street, ha scelto per la squadra di governo alcuni pezzi pregiati della fu amministrazione Clinton. Pezzi evidentemente da novanta. E di cui proprio non si poteva fare a meno.
Come l’attuale capo dei consiglieri in materia economica della Casa Bianca: ovvero Mr. Lawrence H. Summers. Che dal 1995 al 1998, in piena “era (Bill) Clinton”, è stato il numero due del Rubin di cui sopra al ministero del Tesoro. Poi: nel 1999 è diventato ministro del Tesoro al posto di Rubin. E quindi e sempre nel 1999, ha completato di gran carriera il lavoro di Rubin, facendo abolire il Glass-Steagal Act. E spianando la strada al suo ex capo. Che così diventò presidente di Citigroup. Che dire? Destini che si incrociano. E solite coincidenze della vita. E sicuramente è solo un’altra coincidenza, quella raccontata sempre dal New York Times, lo scorso 6 aprile: prima di tornare alle dipendenze della Casa Bianca, Summers ha lavorato per due anni (dal 2006 al 2008) per un grosso fondo di investimento di Wall Street. Un lavoro part-time. Che gli ha fruttato – per certo molto meritatamente – 5,2 milioni di dollari. Lavorando solo un giorno a settimana. Miracoli, è proprio il caso di dirlo, dell’Alta Finanza.
Ma non è certo un miracolo che – a fare il ministro del Tesoro del governo Obama – sia finito un altro volto non proprio nuovo della politica a stelle e strisce: Timothy Geithner. Che durante gli anni dell’amministrazione Clinton lavorò sempre al ministero del Tesoro guidato dai soliti Rubin&Summers. Per poi finire, nel 2003 – anche su pressione di Rubin&Summers (come potete leggere sempre su NyTimes) – sulla poltrona di presidente della Federal Reserve di New York. Poltrona dalla quale, in teoria, aveva il compito di vigilare su alcune delle principali banche del Paese. Tra cui, per ennesima coincidenza di un destino davvero strabico, anche quella Citigroup del suo ex capo, Robert Edward Rubin.
Inutile dire che Geithner – nel ruolo di controllore delle banche newyorchesi – avrà per certo dato il meglio di sè. Ma che la famosa crisi dei mutui subprime, stranamente, è scoppiata comunque. E proprio a Wall Street, cioè a New York. Ma in compenso e, verrebbe da dire, come da copione: Geithner da ministro del Tesoro ha subito messo mano all’ennesima leggiuzza controversa, chiamata questa volta Ppip (ovvero il Public-private investment program) Materia: ça va sans dire, banche e istituzioni finanziarie. Missione (quasi) impossibile: ridarre valore ai titoli tossici che hanno causato la crisi. Unico neo: secondo il premio nobel per l’Economia, Paul Krugman, si tratta di “cash for trash”. Cioè di danaro buono dei contribuenti (circa 1 trilione di dollari) in cambio di spazzatura (i famosi titoli tossici).
Insomma: se fossimo in America, avremmo già visto con i nostri occhi i primi cento giorni della nuova amministrazione Obama. Qualche Bernard Madoff rischiare la galera. Ma anche cinque milioni di disoccupati nell’ultimo anno. Molti grandi manager di grandi banche che si sono ritirati carichi di buonuscite milionarie. E altri, la maggior parte, semplicemente rimasti al loro posto. Come quel Vikram Pandit, che oggi sta al posto di Rubin alla guida di Citigroup. E che a marzo voleva spendere – alla faccia dei contribuenti americani che hanno salvato anche la sua banca (con la bellezza di 45 miliardi di dollari) – 10 milioni di dollari per l’arredamento del suo nuovo studio.
E allora? E allora, magari, la penseremmo non come i Grillo, i Travaglio e i Santoro. Ma come Simon Johnson. Che non è un pericoloso sovversivo. Ma un ex economista capo del Fondo monetario internazionale. E che poco tempo fa, sulle colonne del mensile The Atlantic, ha scritto nero su bianco che l’America e il suo governo sembrano ostaggio di una specie di “oligarchia” di banchieri e operatori di Borsa. Tipo “Repubblica delle Banane”, insomma. Ma in doppiopetto.
Ma appunto e purtroppo, non siamo in America. Siamo in Italia. E di queste oligarchie e di questi conflitti di interessi a stelle e strisce, qui si parla poco o non si parla affatto. Forse perchè anche i nostri opinionisti più brillanti hanno visto troppi film dei cowboy e degli indiani. E hanno fatto un po’ di confusione. Scambiando i buoni per i cattivi. Cose che capitano. Soprattutto quando si vive ai confini dell’Impero.
Fonte: www.bamboccioni-alla-riscossa.org