Flash. Sorrisi. E strette di mano. E due promesse più solenni delle altre. Quella di andare d’amore e d’accordo. E quella di non cedere – mai e poi mai – alle sirene del protezionismo. Tradotto: di favorire – sempre e comunque – il commercio tra i quattro angoli del globo. Peccato per le belle parole. Ma i primi ministri di mezzo mondo – dopo il summit del G20 che li aveva portati tutti ad aprile a Londra – non devono averla raccontata tutta giusta. Perchè sta accadendo (quasi esattamente) il contrario. La crisi economica – la peggiore dal 1929 ad oggi – continua a mordere con ferocia. E i nodi stanno venendo – pericolosamente – al pettine.
I segnali li avranno avvertiti in pochi. Perchè sui media italioti sono stati relegati, al solito, nelle pagine dell’economia (cioè, di norma, da pagina 20 in avanti, lontano dagli occhi del grande pubblico che si ferma a prime pagine e titoloni). E perchè il mondo della politica – dal nostrano Berlusconi; all’americano Obama – si è ormai converito al mantra dell’ottimismo. Ma i numeri parlano – spietatamente – chiaro. Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e Banca mondiale hanno lamentato a chiare lettere che – in barba ai dogmi del libero commercio – in molti Paesi si lavora alacremente per stoppare le importazioni.
E proprio questa settimana: il giornalista di Repubblica, Maurizio Ricci – citando proprio i dati di Wto e Banca Mondiale – scriveva che:
dall’ottobre 2008 si sono registrate 89 misure di restrizione del commercio in vari paesi e 23 solo da quando, ad inizio aprile, i Paesi del G20 hanno ribadito il loro impegno al libero commercio
Un impegno, spiegava sempre Ricci sulle colonne del suo quotidiano, che era stato preso:
per evitare la spirale delle guerre commerciali della Grande depressione
Il risultato della spinta sull’acceleratore del protezionismo – e soprattutto, diremmo noi, della crisi finanziaria e quindi dell’assenza di pecunia – si riassume in una vera e propria caduta libera. Questa:
(via Voxeu.org)
Un grafico che mostra – alla faccia dell’ottimismo – che il volume dei commerci mondiali sta frenando ancor più velocemente che nel 1929. E che fa pendant con altri due numerini usciti sulle pagine del Financial Times di questa settimana. La Cina – esportatore fortissimo e, secondo Martin Wolf, capo editorialista del Financial Times, il Paese con la miglior bilancia commerciale al mondo – ha visto le sue esportazioni franare del 26,4% a maggio (rispetto a un anno prima). E la Germania – che, sempre secondo Martin Wolf, segue a ruota la Cina nei Paesi con la miglior bilancia commerciale – ha subito un crollo del suo export (sempre a maggio e sempre rispetto a dodici mesi prima) pari al 28,4%. Il peggiore – per il Paese di Angela Merkel – di sempre. Cioè dal 1950, anno di grazia in cui si cominciò a fare questa statistiche.
Fin qui i fatti. Ora le opinioni. Tutti si concentrano sui segnali di ripresa. O sugli scricchiolii che potrebbero preludere a una catastrofe. E nessuno sembra accorgersi del quadro di insieme. Questi numeri – e il ritorno sulla scena di forme moderne di dazi e gabelle sull’import – raccontano già e di per sè che la globalizzazione – quel fenomeno ritenuto fino a pochi mesi fa come ineluttabile e inarrestabile – sta conoscendo una poderosa battuta di arresto. Con esiti assolutamente imprevedibili. Perchè la globalizzazione – così come l’abbiamo conosciuta dalla caduta del muro di Berlino ad oggi – potrà piacere o non piacere. Ma era il perno attorno a cui ruotava il (nostro) mondo.
A proposito di ruotare. Si dice che sono i soldi a far girare il mondo. Ma è proprio sui soldi – anzi su una moneta in particolare, il dollaro – che i primi ministri che si erano riuniti a Londra paiono, oggi come oggi, non andare per nulla d’amore e per nulla d’accordo.
Breve riassunto – per chi se le fosse perse – delle puntate precedenti.
- Lo scorso 13 marzo, il premier cinese, Wen Jiabao, ha fatto una prima dichiarazione choc. Dicendo urbi et orbi che temeva che gli Stati Uniti non avrebbero “onorato” i loro debiti.
- Neppure dieci giorni dopo, il 24 marzo, il numero uno della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan ha fatto una proposta altrettanto choc. Cambiare la moneta di riferimento – tecnicamente detta di “riserva” – del mondo. Sostituendo il dollaro con special drawing rights (Sdr) emessi dal Fondo monetario internazionale (e “collegati” a tutte le monete delle principali economie del mondo).
E dopo il summit del G20 ad aprile? E dopo il summit – caso strano – la musica non è cambiata:
- Lo scorso primo giugno, il ministro del Tesoro americano, Timothy Geithner ha tenuto una conferenza all’università di Pechino. Terminata col botto. Quando Geithner ha detto che gli investimenti cinesi in america erano al sicuro, la platea gli è scoppiata a ridere in faccia.
- Una vera e proprio umiliazione, ma non l’unica. Quello stesso giorno da Berlino, il premier tedesco Angela Merkel ha criticato aspramente la politica monetaria (ed economica) della banca centrale americana.
Perchè tanto accanimento contro il dollaro, negli ultimi quattro mesi? Perchè gli Stati Uniti – per mantenere il loro ruolo di superpotenza e il tenore di vita in stile american way of life – hanno accumulato una valanga di debito (che tra pubblico e privato, ammontava a febbraio e secondo i calcoli del vicedirettore del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, al 350% del Pil). Debito (privato) che hanno spacciato in giro con titoli tossici (quelli famosi dei mutui subprime). E debito pubblico che hanno piazzato in giro, sotto forma di titoli di Stato. A chi?
(Fonte: Il Sole 24 ore)
Naturale che la Cina – e la Russia – siano preoccupate. Anche perchè le casse degli Stati Uniti sono talmente vuote, che non restano che due opzioni. Come ha scritto brutalmente l’economista William Buiter – oggi – sul suo blog ospitato dall’edizione elettronica del Financial Times: se gli Usa non correggono alla svelta il tiro,
il Paese andrà dritto verso la costruzione di un debito pubblico che dovrà essere risolto o a colpi di inflazione o con un default dello Stato
Entrambe le soluzioni per i creditori degli Usa sarebbero un’autentica beffa. Il default, per ovvie ragioni. L’inflazione perchè – distruggendo il valore della moneta (e quindi del debito) – distruggerebbe anche il valore dei titoli di Stato e degli interessi che pagano. Risultato: chi ha prestato danaro agli States ai tempi delle vacche grasse, ora non se ne sta con le mani in mano. E minaccia di mollare dollaro e Stati Uniti al loro destino. Ovvero e per capirci:
- Solo questa settimana: Brasile, Cina e Russia hanno annunciato l’intenzione di comprare – al posto dei soliti titoli di Stato americani – bond emessi dal Fondo monetario internazionale non in dollari, ma in quegli special drawing rights (sostanzialmente una moneta ancora senza nome) cari ai cinesi.
Una pessima notizia per gli Usa. Che – val la pena ricordarlo – solo quest’anno per far fronte ai piani di salvataggio delle banche e a piani di stimolo vari dovranno emettere titoli di Stato per 2.000 miliardi di dollari. Dollari che nessuno per ora sa dove si andranno a trovare.
Fin qui i fatti su quella che assomiglia sempre di più a una specie di “battaglia del dollaro”. E ora – per finire – di nuovo le opinioni. Molti guardano alla prossima banca o azienda che fallirà. Ma quelli sono solo i pezzi di una partita a questo punto più ampia. Una partita che – dopo che gli Stati hanno deciso di intervenire (con piani di salvataggio vari) – è diventata anche e soprattutto politica.
Il punto non è se e quando la crisi finirà. Il nodo è il debito e chi lo debba pagare. E – se questa partita verrà portata fino in fondo; se non si troverà un accordo e continuerà il braccio di ferro – siamo destinati ad assistere a dei veri e propri fuochi.
Speriamo solo artificiali.