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Simone Santini – da Clarissa.it
A teatro tutti gli attori seguono le indicazioni del regista per raggiungere lo scopo drammaturgico. Ma in quel caso il regista è conosciuto e il fine è evidente. Anche in Iran tutti gli attori sembrano muoversi secondo un copione, ma in questo caso non è chiaro chi diriga la messa in scena e quali siano gli obiettivi ultimi da raggiungere. E’ chiaro solo che l’Iran sta correndo un gravissimo pericolo.
Ahmadinejad ha vinto le elezioni con oltre il 60% dei voti. Una vittoria schiacciante, annunciata, messa in dubbio solo nelle ultime due settimane quando la campagna elettorale aveva vissuti momenti di crudissimo dibattito pubblico, segno di un montante nervosismo che coincideva con una sorta di fervore popolare crescente, soprattutto nella capitale, a sostegno dello sfidante riformista Mir Hussein Moussavi. Il miracolo sembrava poi possibile con i dati dell’affluenza insolitamente alti, cosa che in passato aveva sempre coinciso con la vittoria dei riformisti.
Ma alla fine il paese ha votato come ci si aspettava, così come le pressioni internazionali, il terrorismo interno e le dinamiche politiche avevano spinto a fare. Il polarizzarsi dello scontro tra Ahmadinejad e Moussavi ha avuto il solo risultato di cannibalizzare gli altri due candidati che hanno ottenuto risultati talmente scarsi che il primo turno si è trasformato di fatto in un ballottaggio diretto. Il margine del riconfermato presidente è stato così ampio che oggettivamente è difficile parlare di brogli sostanziali come invece sta facendo lo sconfitto. In un paese grande come l’Iran significherebbe manipolare diversi milioni di voti, ciò che non potrebbe avvenire senza plateali irregolarità. Non è sufficiente oscurare gli sms nella capitale o impedire agli osservatori di entrare in alcuni seggi per spostare milioni di voti da un candidato ad un altro.
Un osservatore esterno potrebbe invece ben vedere come il pathos narrativo sia stato in qualche modo orchestrato in queste ultime settimane in maniera quasi filmica, e lo sbocco in una situazione di estrema tensione ne sia il risultato conseguente.
Gli attentati terroristici di inizio mese hanno dato l’allarme. Gli attacchi dialettici di Ahmadinejad hanno creato un clima di forte contrapposizione con lo schieramento avversario. La piazza, intesa come il ribollire delle rivendicazioni giovanili e femministe, soprattutto nei centri urbani come Teheran, ha cominciato a credere al cambiamento non solo come possibile ma addirittura a portata di mano. Nelle riunioni e manifestazioni dell’opposizione circolavano ormai da giorni come reali le voci di brogli. La dichiarazione di Moussavi che si auto-proclama vincitore, giocando in anticipo sulle comunicazioni ufficiali la notte del voto, è stato l’ultimo colpo di scena prima della doccia fredda.
Il risultato di tutto questo è uno scenario da tumulto sociale, se non addirittura da scontro civile. Un canovaccio riscontrabile negli ultimi anni nella destabilizzazione di molti paesi, che hanno portato a volte ai cosiddetti "regime change" (come nelle rivoluzioni colorate in Serbia, Ucraina, Georgia), o a repressioni violente del potere (come in Asia centrale o Africa).
In Iran il contesto è reso ancora più grave dalla situazione internazionale e dalle minacce di guerra che coinvolgono il paese. Ogni evento è reso per questo ancor più acuto e le ripercussioni più delicate.
Il mondo occidentale ha ormai il suo tiranno, senza se e senza ma: il suo nome è Ahmadinejad.
Le prime reazioni da Israele, dietro il tenore preoccupato, sembrano grida esultanti. Il vice-ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha dichiarato: "Se anche ci fosse stata un’ombra di speranza, la rielezione di Ahmadinejad è giunta a dimostrare una volta di più la crescente minaccia rappresentata dall’Iran, ai cui programmi nucleari bisogna subito far fronte". Esplicito anche il vice-premier di Netanyahu, Silvan Shalom, uno dei leader del maggiore partito al governo, il Likud, secondo cui il risultato delle elezioni presidenziali iraniane "sta esplodendo in faccia a chi pensava che l’Iran fosse pronto a un dialogo con il mondo libero, incluso quello sulla cessazione dei suoi piani nucleari" con chiaro riferimento ad Obama ed alle componenti della sua Amministrazione che stanno cercando un dialogo con Teheran.
Riuscirà il popolo iraniano a tenere i nervi saldi, la mente lucida, il cuore limpido? È solo sull’anima nascosta del popolo persiano su cui si può fare affidamento. La sua leadership, in tutti i suoi settori, ci pare troppo implicata e stretta in meccanismi di potere, interni ed internazionali, che la stanno spingendo là dove si vuole che vada.
Un comandante guerrigliero latino-americano ha detto che l’unico modo che ha il popolo di battere il potere è fare sempre ciò che non ci si aspetta da lui. In Iran, oggi, appare quasi impossibile.