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Michel Bole-Richard – Le Monde
GERUSALEMME – Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri israeliano, non manca certo di sfrontatezza. Di recente ha dichiarato agli Stati Uniti, nel corso di un incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che le colonie non sono "un ostacolo" alla ricerca della pace e che è evidente che si tratta di "una scusa per coloro che vogliono sottrarsi ai negoziati", con riferimento ai palestinesi. Questi ultimi, in effetti, si rifiutano di riprendere le trattative con il governo (israeliano, ndt) uscito dalle urne il 10 febbraio.
I palestinesi motivano questo rifiuto con due ragioni. Esigono che sia interamente congelato il processo di colonizzazione, compreso il proseguimento delle costruzioni. Si tratta di non stabilire sul terreno dei fatti compiuti che impediscano la creazione di uno Stato vitale. L’Autorità palestinese insiste anche sul riconoscimento del principio dei "due Stati per due popoli", senza che quest’ultimo venga sottoposto a una serie di condizioni come quelle che sono state enunciate dal primo ministro Benyamin Netanyahu, nel corso del suo discorso del 14 giugno.
"Protettorato"
A partire dagli accordi di Oslo del settembre 1993, i palestinesi sono impegnati in negoziati per far avanzare la propria causa. Tutto si sarebbe dovuto risolvere nel 1999, ma non fu così. Da allora, vi è stata la Road Map, nel 2003, il piano di pace internazionale per creare una Palestina alla fine del 2005. Nuovo stallo. Il processo di Annapolis del novembre 2007, il cui iniziatore, George Bush, aveva promesso che avrebbe consentito di arrivare entro la fine del 2008 alla realizzazione del sogno palestinese, non è stato più proficuo.
Oggi, "Bibi" – il soprannome di Netanyahu – ha fatto, secondo Nicolas Sarkozy, "un passo avanti importante" ammettendo sotto la pressione americana, dopo decenni di rifiuti, la creazione di uno Stato palestinese. Ma quale Stato palestinese?
Smilitarizzato, senza controllo delle frontiere, del suo spazio aereo né delle risorse, senza la libertà di stringere alleanze. La valle del Giordano resterà sotto controllo israeliano. Le forze di sicurezza manterranno il diritto di intervenire a loro discrezione in uno Stato minore, ma che avrà la sua bandiera, il suo inno nazionale e il suo governo, ha promesso Netanyahu. Cosa che già avviene. Una sorta di "protettorato", come l’ha definito Yasser Abed Rabbo, stretto collaboratore del presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas.
Come se queste restrizioni non fossero sufficienti, "Bibi" ha piazzato dei paletti. Prima di tutto, i palestinesi devono riconoscere Israele in quanto Stato ebraico. Il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte dell’Olp nel 1993 non è più sufficiente. Gli 1,5 milioni di palestinesi di Israele, ossia il 20 per cento della popolazione, deve rinunciare alla sua specificità e piegarsi alla volontà "stauale-religiosa". Non è più questione di transigere sul diritto al ritorno.
Non vi sarà il riconoscimento della responsabilità nell’espulsione e lo sradicamento di 760mila palestinesi nel 1948, né indennizzo né possibilità di reintegrazione. Si esclude totalmente la divisione di Gerusalemme, che resterà per sempre "la capitale unita" d’Israele. Quanto alle colonie, è impossibile smettere di costruire in zona occupata, perché i coloni fanno figli e perciò è necessario fargli posto. Lo spazio vitale per rispondere alla crescita naturale non riguarda invece i palestinesi.
Le carte nelle mani di Barack Obama
Per i palestinesi, "il troppo è troppo". Non se ne parla di ricominciare dei negoziati ad vitam aeternam che non portino a nulla, fintanto che le regole del gioco siano fissate in anticipo. "Sarà necessario attendere mille anni perché i palestinesi accettino tali condizioni", ha ironizzato Saeb Erakat, il principale negoziatore palestinese. Egli ha rappresentato la situazione con quest’altra formula: "(Prima) il processo di pace avanzava al passo di tartaruga. Adesso, Netanyahu ha messo la tartaruga sulla schiena".
Netanyahu ha un bel dire che non si tratta di pre-condizioni, di essere pronto ad avviare immediatamente dei colloqui di pace, che il suo governo è "serio nella [sua] volontà di arrivare a un accordo di pace"; i palestinesi non ci credono più e non sono i soli. "La carta delle colonie contraddice quella della pace", ha sottolineato lo scrittore israeliano David Grossman, convinto "che non vi sarà pace se non ci verrà imposta".
Le carte sono nelle mani di Barack Obama. Tutto dipende dalla pressione che sarà esercitata su Israele perché la pace diventi possibile e la Palestina una realtà. Allo stato di cose attuale, è una missione impossibile tanto sono inaccettabili le precondizioni imposte. Netanyahu ha dovuto tendere la mano ai palestinesi, offrire il dialogo agli Stati arabi, ma non ha mai menzionato l’iniziativa di pace del marzo 2002 da parte dei 22 Stati arabi che prevedeva una normalizzazione delle relazioni con Israele in cambio di un ritorno alle frontiere del 1967 e di un regolamento "equo e condiviso" della questione dei profughi. Ha ignorato Annapolis e la Road Map.
I palestinesi non vogliono più sedersi al tavolo dei negoziati semplicemente per scambiarsi cortesie, come ha detto Abed Rabbo. Vogliono concretezza. Barack Obama li comprende. Resta da farlo capire agli israeliani. Lo scontro non ha ancora avuto inizio.
(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq )