di
Massimo Mazzucco
E’ disponibile su Arcoiris TV un documentario di circa 3 ore sulla vita e sulla morte di Ernesto Guevara de la Serna, l’intellettuale rivoluzionario argentino passato alla storia come Che Guevara.
E’ un documentario eccezionale, nel senso più letterale del termine, per più di un motivo. Si tratta prima di tutto di un inedito, uscito miracolosamente dagli scaffali di una sala di montaggio in forma chiaramente incompleta. La pellicola dai colori sbiaditi mostra ovunque il “macinamento” implacabile della moviola, mentre le giunte brutali, i salti di quadro, e il fuori-sincrono quasi costante confermano che si tratti di una copia-lavoro che non ha mai raggiunto la fase di finalizzazione.
(Vai alla II e III parte)
Ma in un certo senso, questo aspetto “crudo” e irrisolto del materiale filmico, girato nel 1973, rappresenta la perfetta metafora del suo contenuto, una “revoluciòn” latinoamericana che non ha mai visto la luce del giorno.
Girato da Roberto Savio, ex-regista della Rai, il documentario è l’unico lavoro conosciuto che raccolga le testimonianze dirette di tutti coloro che furono in qualche modo coinvolti nella cattura ed uccisione di Guevara, avvenuta nel 1967. Naturalmente, l’importanza di queste testimonianze non si limita alla dettagliata ricostruzione dell’evento specifico, ma sta nella lettura complessiva che risulta proprio da questo insieme di testimonianze.
Ci si rende conto infatti che nella “piccola” storia di 50 guerriglieri sperduti sulle Ande boliviane …
… si riflette la storia di un intero continente, della sua oppressione e dei suoi frustrati aneliti di libertà.
Il meccanismo che si è mosso intorno a Che Guevara, e che ha portato alla sua cattura ed uccisione, ha replicato nel particolare ciò che avviene in tutto il Sudamerica, a livello macroscopico, da cento anni a questa parte.
Stiamo parlando prima di tutto dell’ingerenza continua, asfissiante e onnipresente degli Stati Uniti in tutto ciò che riguarda le faccende interne dei vari stati sudamericani. Ingerenza che naturalmente viene espletata sotto l’egida della più classica ipocrisia di facciata: quando si tratta di capire chi abbia deciso l’eliminazione fisica di Guevara, l’uomo della CIA risponde che “furono decisioni prese dall’Alto Comando della sovrana Repubblica di Bolivia”. Quando invece si tratta di vantarsi per la sconfitta della rivoluzione, agli stessi uomini CIA piace pensare che “senza il loro aiuto difficilmente i boliviani ce l’avrebbero fatta” .
La stessa ipocrisia viene replicata a livello locale, operativo: il maggiore Shelton, l’americano incaricato dell’addestramento dei contras boliviani, non riesce a nascondere che “fu proprio il battaglione che da noi aveva ricevuto il massimo dei punteggi a condurre in porto l’operazione contro Guevara”, ma subito sottolinea che loro (i militari USA) “hanno l’ordine di non allontanarsi più di cento chilometri dalla loro caserma, per cui quello che accade sulle montagne è completamente fuori dal loro controllo”.
Come se a quei tempi la radio non esistesse ancora.
Fu infatti via radio che arrivò l’ordine di eliminare Guevara, dopo una travagliata riunione ad altissimo livello che ebbe luogo a La Paz. Una volta catturato il leader rivoluzionario, infatti, bisognava decidere se tenerlo vivo oppure ucciderlo. La sua morte avrebbe sicuramente significato – come poi è avvenuto – la nascita di un mito internazionale, destinato a durare per decenni, ma metterlo in prigione avrebbe probabilmente creato una serie di problemi immediati non da poco. Il caso Debray, ricordato dai vari intervistati, è significativo.
Toccò così ad un giovane sergente dell’esercito boliviano entrare nella piccola scuola del villaggio di La Higuera, dove avevano legato Guevara, per ucciderlo. Guevara lo guardò, capì immediatamente, e gli disse: “Prendi bene la mira, codardo, e non sbagliare il colpo. Ricordati che stai uccidendo un uomo”. Nessuno fino ad oggi conosceva con certezza il nome di quel sergente, mentre la versione ufficiale dava Guevara “morto per emorragia interna e dissanguamento da ferite multiple, dovuto alla mancanza di una pronta assistenza sanitaria”.
Gli autori del documentario sono riusciti ad identificare il sergente, che rispondeva al nome di Mario Teràn, e nonostante questi fosse dato ufficialmente per morto due anni dopo, lo hanno anche rintracciato e intervistato.
Il segmento, da solo, vale tutto il film.
Più in generale, emerge dal documentario come la fine della guerriglia sia stata ottenuta grazie alla “collaborazione attiva” del pueblo. Già sapevamo, dal diario di Guevara, che “la rivoluzione sembra destinata a fallire per mancanza di appoggio popolare”. Oggi possiamo confermare che in tutta la Bolivia regnava il terrore assoluto, dovuto alle continue minacce e pressioni da parte dei militari contro chiunque fosse anche solo sospettato di aver aiutato i guerriglieri.
A riprova di questa devastante schiavitù psicologica sta il fatto che, a distanza di sei anni dagli eventi, nessun abitante del paesino in cui Guevara fu catturato ha voluto parlare di fronte alle telecamere. Nemmeno per dire che lo aveva visto da lontano. Soltanto un dottore ha parlato, ma a condizione che l’intervista avvenisse a molti chilometri di distanza dal paese.
Uno dei momenti più significativi del film è quando il contadino che ricevette 5.000 pesos per denunciare la presenza di Guevara in paese riceve la stessa identica somma dagli autori del documentario, per essersi fatto intervistare.
Mentre conta lentamente quei 5.000 pesos piovuti dal nulla, sembra porsi tutte le domande che la gente del sudamerica si è mai posta nella sua vita: chi comanda davvero? A chi devo obbedire? A chi mi conviene credere? Cosa devo fare, pur di riuscire a mettere in tavola un pezzo di pane per i miei figli?
E soprattutto si domanda: sarò mai libero davvero?
Il documentario infatti è girato in un momento storico molto particolare, dopo che Salvador Allende fu deposto ed ucciso, in Cile, dal golpe guidato da Augusto Pinochet. Noi conosciamo già, per altri percorsi, la pesante ingerenza degli Stati Uniti nella distruzione del primo progetto reale di socialismo in sudamerica. Quella che forse non conoscevamo è l’opinione di Allende su Che Guevara.
Questo breve spezzone, di raro interesse storico, sintetizza al meglio l’argomento di fondo che corre per tutto il documentario: il ruolo effettivo dei partiti progressisti, intesi come “organizzazioni che vogliono realizzare pacificamente il cambiamento politico”, rispetto ai rivoluzionari che invece credono sia necessaria la lotta armata. Sullo sfondo di un panorama politico internazionale che cambiava rapidamente (primo accordo russo-americano sul disarmo atomico, con conseguente dissociazione da parte di Mosca delle attività di guerriglia sostentate da Cuba) è doppiamente triste vedere sia Allende che il segretario del partito comunista boliviano sostenere, più o meno fra le righe, che “Guevara aveva torto, e noi abbiamo ragione”.
Avevano torto tutti, a quanto pare, nel senso che le forze dell’imperialismo americano hanno dimostrato, nel corso degli ultimi 40 anni, di essere tranquillamente in grado sia di (far) soffocare nel sangue qualunque rivolta popolare, sia di rallentare a tempo indeterminato quel tipo di crescita civile e culturale, nelle popolazioni locali, che è l’unica via per arrivare in modo stabile alla realizzazione di una società più giusta e progredita.
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