di Pino Cabras
Megachip
Dall’inferno delle torture di Guantanamo a una corte civile di New York, con la proposta di giustiziarli. Questo si prepara ora per Khalid Sheikh Mohammed, il famoso KSM, e altri quattro presunti ideatori dell’11 settembre. Dovrebbe essere l’ora della memoria. Ma per gran parte dei media è l’ora dell’amnesia. Cosa sappiamo di questo KSM?
Cosa conosciamo di questa icona occulta passata per una quantità di torture tali da sconvolgere qualsiasi identità? Se non siete Vittorio Zucconi e non vi bevete la solita brodaglia di propaganda e omissioni che fa comodo al potere, ripiegate in un angolo quasi tutti i giornali e preparatevi a sentirne delle belle.
Tanto per cominciare, guardiamo agli esordi della militanza islamista di KSM. Questo scarmigliato jihadista arabo è un tipico prodotto di una lunga fase politica in cui i fanatici della sua risma venivano ampiamente strumentalizzati in operazioni di terrorismo di Stato. Khalid Sheikh Mohammed è stato a lungo nei Fratelli Musulmani (un’organizzazione infiltrata in profondità dai servizi segreti britannici e statunitensi) e in rapporti molto stretti con l’ISI pakistano, un altro servizio segreto da sempre ben addentro a tutti i segmenti delle attività terroristiche, e da sempre ricco di legami funzionali con le strategie USA. Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica «Limes», il 31 dicembre 2007 nel commentare a caldo su «l’Unità» l’attentato in cui morì Benazir Bhutto, fece una considerazione che potremmo estendere ad altri crimini firmati al-Qā‘ida: «c’è una compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, dove la contiguità è talmente forte da rendere abbastanza difficile capire chi effettivamente poi ha dato l’ordine».
Il fratello di KSM, Zahid, ha lavorato per la Mercy International, un’importante organizzazione caritativa islamica capeggiata da uno dei signori della guerra in Afghanistan, Abdul Rasul Sayyaf, che il «Los Angeles Times» definisce il «destinatario preferito di denaro proveniente dai governi saudita e americano». Come tutta la grande manovalanza islamista di questi anni, anche per KSM una palestra fondamentale sono state le guerre jugoslave degli anni novanta. Durante le operazioni NATO in Bosnia KSM scorrazzava liberamente tra i tagliagole di quelle parti, mentre bin Laden otteneva perfino un passaporto diplomatico bosniaco.
C’è da chiedersi, vista la povertà delle informazioni e l’annosa segretezza che ha circondato la sua opaca detenzione, se l’individuo arrestato in Pakistan e accusato di essere un islamista del Kuwait sia la stessa persona che ora sarà portata a New York.
A quel Khalid Sheikh Mohammed che si trovava a piede libero nel 2002 venne attribuita la personale rivendicazione di un’attività propedeutica ai fatti dell’11/9. Frasi di uno sbruffone, legato a chissà quali mestatori, e ben poco precise.
L’individuo che nel 2003 ha riconosciuto di chiamarsi Khalid Sheikh Mohammed e che si è autoaccusato di una trentina di attentati e di progetti di attentati sparsi per il mondo, era reduce da 183 sedute di tortura con la tecnica del waterboarding (annegamento simulato) nel solo mese di marzo di quell’anno. Per figurarci la cosa: in media sei volte al giorno per un mese, ogni quattro ore, questo soggetto provava l’estrema esperienza di essere lì lì per annegare.
Come stupirsi che il misterioso KSM inghiottito dal gulag caraibico abbia confessato, dopo cotanto supplizio, di aver fatto «tutto quello di cui è accusata al-Qā‘ida, dalla A alla Z»? Ha perfino confessato di aver progettato un attentato a un grattacielo che in realtà non esiste, a Seattle. Nella lista delle sue pseudo-imprese c’è l’attentato al WTC di New York del 1993, la strage in una discoteca di Bali, la decapitazione del giornalista Daniel Pearl, e naturalmente gli attentati dell’11 settembre 2001. Il coordinamento logistico dell’operazione più grandiosa della storia del terrorismo avveniva a distanza – secondo questa versione – e si affidava sul campo a un gruppo di ragazzetti indisciplinati e malaccorti, islamisti disposti a sacrificare niente meno che la propria vita per un intransigente ideale jihadista, ma inspiegabilmente dediti al noleggio delle escort con ritmi debosciati da premier italiano. Con la differenza – rispetto al satiro di Villa Certosa – che i giornali tendono a non illuminare queste biografie, le quali renderebbero inverosimili le versioni che hanno fin qui accreditato.
Sinora non è stato possibile, per gli avvocati e i giudici militari, interrogare KSM in pubblico. Non si sa cosa possa dire fuori da una gabbia. Vedremo perché questa cosa arriva a preoccupare qualche importante personalità.
Nessun giornale in questi giorni ha voluto ricordare che recentemente Devlin Barrett, dell’Associated Press, ha raccontato come KSM «ha confessato di aver mentito profusamente agli agenti che lo torturavano per estorcergli la verità sulle sue attività eversive.» Cosa emerge? «”Mi invento delle storie”, ha detto Mohammed nel 2007, durante una delle udienze del tribunale militare a Guantánamo Bay. In un inglese stentato, ha descritto l’interrogatorio in cui gli è stata chiesta l’ubicazione del leader di al-Qa‘ida, Osama bin Laden.
“L’agente mi ha chiesto ‘Dov’è?’, ed io: ‘non lo so’», racconta Mohammed. “Poi ha ricominciato a torturarmi. Allora gli ho detto: ‘Sì, si trova in questa zona…’ oppure ‘Sì, quel tizio fa parte di al-Qa‘ida’, anche se non avevo idea di chi fosse. Se rispondevo negativamente, riprendevano con le torture.”»
Le trascrizioni di queste deposizioni sono state rese pubbliche per effetto di una causa civile, con la quale la American Civil Liberties Union ha cercato testi e informazioni sulle condizioni di detenzione riservate agli imputati per terrorismo. Queste deposizioni basterebbero da sole a obbligare il giornalismo serio a dire: “Alt, fermi tutti, vediamoci chiaro in questa faccenda”. Qualcuno ci ha provato, anche se con la paura di trarre tutte le conclusioni che ci sarebbe da trarre.
Un best seller del giornalista del «New York Times» Philip Shenon “OMISSIS – Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre”, fa notare come la situazione apparisse insostenibile finanche alla Commissione d’inchiesta sull’11/9. Persino uno dei co-presidenti della Commissione, Hamilton, ha denunciato che la Commissione era fuorviata da “informazioni non attendibili”, e che le si impediva l’accesso a documenti essenziali all’indagine, inclusi i verbali degl’interrogatori di Khalid Sheikh Mohammed (KSM). Scrive Hamilton: «Noi (…) non avemmo alcun modo di valutare la credibilità dell’informazione del detenuto. Come potevamo affermare se un tale di nome Khalid Sheikh Mohammed (…) ci stava dicendo la verità?». Una confessione estorta con la tortura non avrebbe alcuna validità dinnanzi a un vero tribunale militare americano, di quelli ancora legati allo stato di diritto, non certo paragonabili alle commissioni militari speciali nate con la Guerra al Terrorismo, vere aberrazioni giuridiche che Obama non riesce a sciogliere. Figuriamoci cosa può accadere in un tribunale civile.
La cosa preoccupa anche il leader dei parlamentari repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, John Boehner: «La possibilità che Khalid Sheik Mohammed e i suoi co-ispiratori possano essere dichiarati ‘non colpevoli’ a causa di alcuni tecnicismi legali a soli pochi isolati da Ground Zero dovrebbe dar riflettere un momento ogni americano».
Boehner in sostanza rimprovera l’amministrazione Obama di voler giudicare KSM e soci con i mezzi ordinari dello stato di diritto anziché con il sistema speciale edificato da Bush e Cheney. Le conseguenze di un simile ragionamento sono pericolosissime: se un governo definisce un tizio colpevole, non serve processarlo. Le garanzie sono soltanto «tecnicismi legali» pericolosi.
Tra le tante questioni che Barack Obama non riesce ad affrontare se non con annunci proiettati in un futuro sempre meno definito, c’è tutta l’eredità dell’amministrazione precedente in materia di guerre, compressione dei diritti civili, terrorismo, alterazioni della costituzione materiale. Obama non riesce a scalfire nulla perché non è in grado di affrontare il tabù che fonda la forza d’inerzia che ancora trascina tutto questo enorme apparato: il tabù dell’11 settembre. Non è un caso che la sua amministrazione perda per strada alcuni elementi che hanno provato a stare fuori dal paradigma costituzionale modellato nell’era Bush-Cheney. Il super esperto di economia verde Van Jones ha dovuto lasciare l’incarico di consigliere del presidente perché non ha avuto le spalle abbastanza coperte per poter resistere agli attacchi di chi gli rimproverava di aver sottoscritto una petizione, nel 2004, nella quale si richiedeva al Congresso di investigare sulle eventuali responsabilità di alcuni alti funzionari dell’amministrazione Bush negli attacchi dell’11 settembre 2001.
E ora giunge l’annuncio delle dimissioni del consigliere legale della Casa bianca, Gregory Craig, che aveva la missione di abbattere gli ostacoli giuridici che si frappongono rispetto alla chiusura di Guantanamo e alla rinuncia alla tortura in materia di terrorismo. Mission impossible, evidentemente. Intorno a Craig si è fatta terra bruciata e il ripristino dello stato di diritto è ancora lontano.
Il «chiuderemo Guantanamo» pronunciato da Obama quando entrò in carica basta ancora a soddisfare i suoi entusiasti, sensibili alla sua straordinaria retorica. Ma non basta più a chi concretamente misura l’enorme, stupefacente, inedita distanza fra le parole e i fatti. Una divaricazione che per ora sembra essere fra le più sorprendenti mai viste nella storia recente. Un divario, va aggiunto, ogni giorno più inquietante.