Da Pechino a Goteborg, la strada non è certo corta. Ma i manager della casa automobilistica cinese Geely l’hanno macinata tutta. E alla fine sono (quasi) riusciti a mettere le mani su uno dei gioielli dell’industria svedese: le famose station wagon (o “famigliari”) targate Volvo. Volvo che appartiene all’americana Ford. E che appunto dovrebbe passare alla scuderia Geely. Il condizionale è ancora d’obbligo perchè – al momento – c’è solo un accordo preliminare. Ma si sa già il prezzo: tra gli 1,8 e i 2 miliardi di dollari, secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Financial Times.
L’accordo tra Geely e Ford è stato siglato l’antivigilia di Natale. Ed è finito sommerso dalle solite cronache al sapore di panettone. Del resto: babbi natale, presepi viventi e “messaggi(ni) d’amore (e di odio)” dei politici italioti – anche in quest’anno di disgrazia (economicamente parlando) – reclamavano il loro spazio. E così è stato. Tiggì e giornali tricolori hanno dedicato alla prima casa automobilistica europea finita in mani cinesi giusto poche righe o qualche secondo di video. Ma l’accordo Geely-Ford non è un caso isolato. E dovrebbe dare da riflettere.
Ad ottobre un’altra società di Pechino, la Sichuang Tengzong ha comprato da General Motors gli imponenti fuoristrada Hummer (quelli, per capirci, che sembrano carri armati; la Sichuang Tengzong li avrebbe pagati, sempre secondo indiscrezioni pubblicate dal Financial Times, circa 150 milioni di dollari). Mentre a metà dicembre la Beijing auto – altra casa automobilistica cinese – ha spogliato, a suon di dollari, la Saab dei suoi brevetti (acquistandoli per poco meno di 300 milioni di dollari). Uno shopping imponente. Ma più che giustificato. Fino a dodici mesi fa, il mercato automobilistico numero uno al mondo – quello, per parlare piatto piatto, dove si vendevano più quattroruote – erano gli Stati Uniti. Ma – secondo le stime della società di marketing J.D. Power Associates (pubblicate, lunedì scorso, dal quotidiano “La Stampa”) – la musica ora è cambiata. Tra gennaio e dicembre 2009, a Pechino e dintorni si sarebbero vendute 12,7 milioni di automobili. Negli Usa solo 10,4 milioni.
Un sorpasso storico.
Dirà qualcuno di voi: ma come? E la classica immagine delle fiumane di cinesi in bicicletta? Per carità: le fiumane di bici e motorini ci sono ancora. Ma quella icona della Cina pare avviata sul viale del tramonto. Perchè i numeri parlano chiaro. E fotografano un Paese in piena febbre da motorizzazione di massa. Come – per certi versi – l’Italia degli anni Cinquanta. Dove i ladri di biciclette – e relative dueruote – ancora abbondavano. Ma erano destinati col tempo a scomparire.
Epperò: va da sè che produrre e vendere milioni di automobili non basta. Che ci vuole anche il carburante per farle camminare. E anche su questo fronte, la Cina ha lavorato e sta lavorando tanto.
Sempre quest’anno Pechino ha messo a segno tre autentici colpacci con altrettanti vicini di casa. Colpaccio numero uno: ad inizio dicembre, il presidente cinese Hu Jintao ha inaugurato il primo tratto del gasdotto che dovrebbe collegare il Turkmenistan – pezzo d’Asia ignoto ai più, ma che è il quinto produttore di metano al mondo – con la parte più a Ovest della Cina. Un “tubo” che sarà lungo 1.800 chilometri e trasporterà – a pieno regime – qualcosa come 40 miliardi di metri cubi di gas all’anno (tanto per avere un termine di paragone: il fabbisogno di metano dell’Italia si aggira attorno agli 8 miliardi di metri cubi, sempre ogni dodici mesi). E poi: colpaccio numero due: lo scorso 21 dicembre, la China national petroleum corp ha stretto un accordo con il Myanmar (ovvero l’ex Birmania) per costruire un oleodotto, lungo altri 771 chilometri, e capace di trasportare 12 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. Infine: colpaccio numero tre: quest’anno la Cina ha concesso un prestito da 25 miliardi di dollari alla Russia di Vladimir Putin. E in cambio ha chiesto petrolio. Petrolio che in futuro scorrerà a fiumi. Anche grazie a un altro oleodotto – e tre – che collegherà la Siberia con i porti russi sull’oceano pacifico. Capacità a pieno regime: 1,6 milioni di barili al giorno. Vale a dire – secondo il Financial Times – un terzo di tutto il petrolio attualmente prodotto e esportato dalla Russia.
E poi – ovvio – c’è il Medio Oriente. China national Offshore Oil company – una delle prime compagnia petrolifere cinesi – lo scorso giugno ha chiuso un accordo con l’emirato arabo del Qatar. L’intesa garantirà alla Cina un approvvigionamento di due milioni di tonnellate di gas liquido all’anno, per 25 anni. Un ottimo affare che val la pena ricordare a titolo di esempio. Ma che non rende a pieno le dimensioni dello sforzo messo in campo dall’ex celeste impero per dar vita a rapporti sempre più stretti con i signori arabi dell’oro nero. Secondo il Financial Times: nell’ultimo decennio, i commerci tra il Medio Oriente e l’Asia fabbrica del mondo si sono moltiplicati per sei. Valevano 110 miliardi di dollari nel 2001. Sono arrivati a quota 600 miliardi di dollari nel 2008.
Boom dell’auto, dunque. E richiesta altrettanto boom di petrolio e affini.
Ma: e la crisi? E la crisi ha colpito durissimo anche Pechino. Che vive di esportazioni. E che, secondo Reuters, ha visto proprio le esportazioni calare – nei primi 11 mesi di quest’anno – di quasi un quinto (il 18,8%). E però c’è un però. Pechino ha cercato – e apparentemente è riuscita – a coprire le perdite del presente con i risparmi del passato.
Per farla breve. Per anni e annorum, gli Stati Uniti hanno comprato container su container di prodotti cinesi (la Cina è da tempo il primo esportatore negli Usa). E così: gli statunitensi spendaccioni si sono ritrovati con un mare di debiti – la somma di debito pubblico e debito privato negli Stati Uniti è pari a oltre il 350% del Pil. Mentre Pechino ha accumulato una valanga di valuta pregiata – per la precisione le riserve cinesi ammontano attualmente a 2.300 miliardi di dollari (cifra che equivale a circa un sesto dell’intero Prodotto interno lordo del Paese più ricco del mondo, cioè sempre gli Usa). Danari che il governo cinese ha finalmente cominciato a spendere. Parte per stimolare il mercato interno (con un piano da poco meno di 600 miliardi di dollari). E parte – appunto – per fare lo shopping di brevetti, aziende e materie prime di cui sopra.
I risultati? Apparentemente davvero niente male.
- Primo: perchè mentre il Pil di Stati Uniti e Europa arrancava, quello cinese – pure nel 2009 – è cresciuto stabilmente del 7-8%.
- Secondo: è notizia di pochi giorni fa che la Cina potrebbe in un futuro non troppo lontano superare (in termini di Pil) il Giappone, diventando così la seconda economia al mondo dopo gli Usa.
- Terzo: Pechino potrebbe diventare pure il Paese leader nella speciale classifica dell’export mondiale, scavalcando gli attuali numeri uno, ovvero la Germania.
Insomma: la Cina sta chiudendo un 2009 non proprio da incorniciare. Ma nemmeno da dimenticare. Anzi. Mentre i dodici mesi che stanno per chiudersi hanno regalato a Giappone, Europa e Stati Uniti non solo una crisi pesantissima (e destinata a passare alla Storia con la “S” maiuscola), ma anche un’altra dura lezione. Non è vero – come voleva la balla diffusa dai media a reti unificate (e dal vago sapore razzista) – che i cinesi siano tutti braccia e niente cervello, e sappiano solo copiare. E non è vero che qualunque cosa accada, le teste pensanti delle aziende – leggi i centri di ricerca e il management – rimarranno sempre e comunque in Occidente.
Perchè – anche se (soprattutto nel Belpaese) se ne saranno accorti in pochi – sono stati propio gli scienziati cinesi i primi a mettere a punto un vaccino contro l’influenza suina. E perchè tra i pochi che se ne sono accorti c’è stata la casa farmaceutica svizzera Novartis, che – a novembre di quest’anno – ha deciso di investire 100 milioni di dollari per aprire un centro di ricerca proprio in Cina. Dove – tra l’altro – lo stipendio di un ricercatore costa pure molto molto meno. Cosa che non dev’essere sfuggita – tornando per un istante al Belpaese – neppure ai manager finlandesi della Nokia. Che hanno annunciato la chiusura del loro centro di ricerca e sviluppo a Milano, per trasferirlo parte a Hangzou (Cina) e parte a Bangalore (India). Con tante grazie, ma nessun arrivederci per i loro dipendenti italiani.
Prima di concludere, un dubbio e un caveat: ma sarà davvero tutt’oro quel che luccica? Probabilmente, no. Perchè non bisogna dimenticare che in Cina non esiste una stampa libera. E che le notizie che arrivano in Occidente – soprattutto quelle sulle performance economiche – sono tutte lette, sottoscritte e approvate dal governo cinese. Dunque: non è da escludere qualche brutta sorpresa. E qualche crac o tonfo imprevisto. Ma i fatti e i numeri che abbiamo a disposizione sono quelli che sono. E – per ora – dicono tutti la stessa cosa: le prime tre economie al mondo – l’effervescente Cina, e gli ammaccati Giappone e Stati Uniti – si affacciano tutti sul Pacifico.
E la cosa – come si diceva al principio – dovrebbe far riflettere noi che viviamo nella vecchia e gloriosa Europa. Ovvero i vertici della Ue a Bruxelles. Così come – nel loro piccolo – gli imprenditori e i politici italioti. Dovrebbe, si diceva. Ma non è stato così. L’anno che sta per chiudersi nel Belpaese è stato vissuto tutto all’insegna dei papi e delle pupe, dei trans e dei marrazzi, e – da ultimo – dei modellini usati come corpi contundenti da psicolabili aspiranti salvatori della democrazia e della Patria.
Così siamo messi. Ed ecco perchè chi scrive – dopo aver passato un anno a raccogliere tutte le notizie qui sopra – si è sentito pure in dovere di metterle in fila. E di confezionarci un post, a mo’ di messaggio in bottiglia. Perchè nessuno – nessuno – della stampa blasonata di questo disastrato Belpaese ha pensato (finora) di fare altrettanto. E di vergare uno straccio di analisi.
Il 2010 per la Cina sarà l’anno della tigre, non solo astrologicamente parlando. Per l’Italia – a giudicare dall’impressionante numero di cassintegrati che prima o poi finiranno a ingrossare le file dei disoccupati – sarà solo un altro giro di boa, verso un futuro più difficile e più incerto. E a giudicare dall’inesistente dibattito pubblico e politico sul nostro futuro, verrebbe da dire che ce lo siamo ampiamente meritati.