Titolo originale:
Islanda. Un referendum per non pagare i debiti
Di Anna Bono
collaboratori@ragionpolitica.it
pubblicato su: RagionPolitica
A dover fare i conti con il debito estero e con le sue scadenze non sono soltanto i paesi del cosiddetto Sud del mondo. All’estremo nord dell’Europa, l’Islanda, in bancarotta, ha contratto un debito di ben 5,7 miliardi di dollari con la Gran Bretagna e l’Olanda: a tanto ammonta il denaro sborsato a partire dal 2008 da questi due stati per risarcire i rispettivi cittadini – in tutto circa 400.000 risparmiatori – danneggiati dal fallimento della Icesave, una banca islandese on line travolta dal collasso finanziario dell’istituto di credito Landsbanki di Reykjavik.
In questi giorni il presidente islandese Olafur Grimsson avrebbe dovuto firmare la legge che consentirebbe di attingere ai fondi pubblici per restituire il denaro anticipato da Amsterdam e Londra, già approvata a dicembre dal Parlamento con 33 voti a favore e 30 contrari. Ma nel frattempo sono nati dei comitati che hanno organizzato vivaci manifestazioni di protesta e, per bloccare il provvedimento, è stata presentata una petizione al governo, sottoscritta in poco tempo da 60.000 persone pari a circa un quarto della popolazione dell’isola. «Non pagheremo noi gli errori delle banche», è lo slogan dei comitati: calcolato sul numero degli abitanti, il debito equivale a 12.000 euro per persona.
Così il 5 gennaio Grimsson ha deciso di non firmare la legge e di esercitare il proprio diritto di veto: «Il mio compito è garantire che la volontà del paese sia rispettata – ha annunciato – perciò ho deciso di sottoporre al giudizio del popolo la legge indicendo un referendum come previsto dalla costituzione». Benché il primo ministro Johanna Sigurdardottir disapprovi la decisione del presidente e assicuri l’impegno del governo a onorare i propri obblighi internazionali, se al referendum vinceranno i «no» si creerà una situazione complicata e imbarazzante che potrebbe compromettere la credibilità dell’Islanda e la sua possibilità di entrare nell’Unione europea. L’economia dell’isola, fondata sulle attività finanziarie e sulla pesca, verrebbe indebolita ulteriormente con conseguenze davvero gravi. «Devono pagare» è il laconico commento del ministro delle finanze britannico, Lord Myners, e del ministro dell’economica olandese, Wouter Bos.
In effetti, c’è da domandarsi perché. L’Unione europea e i singoli paesi che la compongono non fanno che cancellare i debiti esteri di stati peraltro incredibilmente ricchi di risorse naturali e, a differenza dell’Islanda, benedetti da climi che consentono due e persino tre raccolti all’anno. I governi creditori riversano quindi sui propri connazionali l’onore dei capitali persi e a quegli stessi stati concedono nuovi crediti rinnovando alle loro leadership politiche, economiche e finanziarie una fiducia che da decenni si dimostra assai poco meritata.
Tutto questo succede senza che i cittadini danneggiati si risentano. L’opinione pubblica europea è anzi in gran parte favorevole, convinta dalle continue campagne organizzate da associazioni e movimenti che chiedono la totale cancellazione dei debiti sostenendo essere un’ingiustizia e una malvagità esigerne il pagamento: si accrescono le difficoltà in cui già versano delle popolazioni prive di colpe – spiegano – e se ne rendono più incerte le prospettive di sviluppo economico e sociale.
La domanda, solo in apparenza provocatoria, è quindi: perché due pesi e due misure? Perché si condonano volentieri i debiti di nazioni come la Mauritania, il Ciad e la Repubblica Democratica del Congo e non quelli dell’Islanda? Se poi si considera la volontà degli abitanti degli stati indebitati, non è neanche detto che siano d’accordo.
Nell’ormai lontano 1996, ad esempio, il parroco di un villaggio dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo) informava i membri del suo Consiglio parrocchiale che dalla capitale Kinshasa era arrivato un documento da firmare per chiedere alle nazioni ricche di annullare il debito estero di quelle povere; anche il Papa – spiegò loro – stava intercedendo presso i governi creditori. Ma, con sua grande meraviglia, nessuno di essi volle firmare: «Se chiediamo l’annullamento di questo debito e l’otteniamo – spiegarono dopo averci pensato un po’ su – le nazioni del Nord continueranno a inviarci aiuti che continueranno senza dubbio ad aumentare la ricchezza dei nostri capi e noi non vedremo nulla». Decisero, invece, di scrivere ai paesi ricchi chiedendo loro di aiutare lo Zaire a cambiare i suoi leader. In Italia la loro lettera fu pubblicata nel gennaio del 1997 sulla rivista Mondo e Missione. Finora nessuno li ha ascoltati.