La storia, talvolta, si ripete. Correva l’anno di grazia 1988, e l’allora amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti vergò – sulle pagine del mensile Capital, bibbia del Capitalismo patinato de’ noantri – un articolo che era, nel senso letterale del termine, tutto un programma. Scriveva Romiti che all’appuntamento con il Mercato unico europeo ancora da venire, l’Italia si doveva presentare con tutte le carte in regola. Liberandosi dalla corruzione e dalla concussione. Dodici anni dopo – nel 2000 – anche Romiti, come tanti manager e imprenditori finiti sotto la lente di Mani Pulite, venne condannato – definitivamente – dalla Corte di Cassazione. Per falso in bilancio, frode fiscale e finanziamento illecito ai partiti. Marco Travaglio, allora semplice cronista giudiziario, riassunse così, sulle pagine di Repubblica, la trama del processo: la teoria della difesa era che Romiti non sapesse dei fondi neri e delle tangenti targate Fiat; i giudici, purtroppo per Romiti, furono di tutt’altro avviso. Cose che capitano.
E ieri, appunto, è capitato che l’ex presidente di Confindustria e attuale presidente Fiat dei giorni nostri – ovvero l’uomo dal naso e dal cognome extralarge, insomma Luca Cordero di Montezemolo – sia tornato sull’argomento. Per dire nuovamente basta alla piaga della corruzione. E tuonare contro i soliti politici furbacchioni e irresponsabili: “La politica ha la precisa responsabilità di non aver introdotto le riforme adeguate per far funzionare bene la macchina dello Stato”, ha detto il presidente Fiat. Va da sé che Montezemolo non avrà una coscienza netta; ce l’avrà nettissima. Eppure, un po’ più di prudenza e soprattutto un po’ più di autocritica – come nel caso del Romiti che fu -, non ci sarebbe stata male.
Perché, sì, certo: la politica – dal senatore all’ultimo dei consiglieri comunali dalle mani lunghe – avrà pure le sue colpe. Anzi: a giudicare dagli scandali che hanno ormai cadenza bimestrale, se non mensile, di colpe ne ha un sacco e una sporta. Ma se politici e politicanti sono lupi, anche imprese e imprenditori tricolori – non solo Fiat – forse non si sono comportati sempre e solo da agnelli. Per dire: ieri Montezemolo ha lanciato le sue bordate, mentre era a una inaugurazione all’università Luiss di Roma. E al suo fianco c’era anche la regina degli imprenditori: la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Che non ha mancato di dire la sua contro le bustarelle: “Come imprenditori dobbiamo fare molto anche nel rispetto della legalità, nella lotta alla corruzione: la scelta della legalità è l’unico modo per avere l’economia che continua a crescere”.
Bellissime parole e ottimi propositi. Che però facevano e fanno un tantinello a pugni con un piccolo dettaglio di cronaca giudiziaria. Emma è amministratore delegato dell’azienda fondata dal babbo Steno. Ossia quella Marcegaglia spa – leader nella produzione di tubi e acciaio, con sede a Mantova – che un paio di annetti fa ha patteggiato una pena pecuniaria da 500mila euro. Motivo? Secondo il Corriere della Sera, una tangente da 1 milione e 158mila euro versata, nel 2003, al manager Enipower Lorenzo Marzocchi, per un appalto di caldaie da 127 milioni di euro. Una tangente che – sempre stando al Corriere – al fratello del presidente di Confindustria, Antonio Marcegaglia, è costata anche una pena di 11 mesi (patteggiati, ma sospesi). Oltre – come è facile immaginare – a un certo imbarazzo.
E per carità: i guai giudiziari della Marcegaglia spa e di Fiat saranno solo il frutto di sfortunati equivoci. O errori di percorso, se così si può dire. Epperò: da che mondo è mondo, laddove c’è un corrotto, c’è anche un corruttore. E se politici e pubblici funzionari prendono quattrini sottobanco, è perchè qualcuno, quei soldi, glieli dà. E non sempre obtorto collo. Anzi. Prendiamo l’ultima pietra dello scandalo: l’inchiesta della Procura di Firenze sulle magagne della Protezione civile, guidata da Guido Bertolaso. Anche qui, ovvio, nel mirino dei magistrati sono finiti – oltre a Bertolaso – una ridda di pubblici funzionari. Ma, anche qui, ci sono di mezzo pure degli imprenditori. Come quel Diego Anemone, che ora si trova in carcere; e che, secondo i pm, avrebbe elargito “favori e altre utilità”. Ma non per mera generosità. Bensì per aggiudicarsi fior di appalti (secondo la ricostruzione del solito “Corriere della Sera”: lo stadio del tennis a Roma e il nuovo museo di Tor Vergata, l’ aeroporto di Perugia, e tre lotti a La Maddalena); e incassare fior di milioni di euro. Per la gioia sua. E per disgrazia degli imprenditori onesti che in questi anni hanno avuto meno “fortuna” nell’accaparrarsi le commesse dello Stato. E che – se le accuse della Procura si riveleranno fondate – avranno qualche ragione in più per lamentarsi. E qualche ragione in meno per credere alla libera concorrenza e al lavoro duro come chiave del successo.
Perchè la tangente, questo è. Un modo facile di arricchirsi, per i politici manolesta. Ma anche una scorciatoia per arrivare al successo o continuare ad avere successo negli affari, per gli imprenditori senza scrupoli. E un’umiliazione per chi, invece, si ostina a lavorare in modo onesto. E a non versare stecche, anche se potrebbe farlo.
Di più. Da Tangentopoli allo scandalo Protezione civile, passando per Bancopoli, i rapporti opachi tra politica e mondo degli affari hanno riempito – negli ultimi 15 anni – le pagine dei giornali e le carte dei tribunali. Mentre il costo della corruzione per le casse dello Stato – secondo i calcoli della Corte dei conti – è arrivato alla stratosferica cifra di 60 miliardi di euro. All’anno. Ma a proposito di danari scippati ai cittadini e di comode scorciatoie per arricchirsi: che dire dei crac clamorosi e della infinita teoria di bond carta straccia del decennio appena concluso? Che dire dei 35mila risparmiatori vittima del crac Cirio-Del Monte (anno di grazia 2002)? E dei 145mila coinvolti nel crac Parmalat (sempre 2002)? E dei 6.500 del crac Giacomelli (anno di grazia 2003)? E delle vittime, meno note, dei fallimenti di aziende come Finmek (altri 13.850 risparmiatori coinvolti) e Finmation (25.000 persone) dell’anno 2004? O ancora e venendo ai giorni nostri: che dire della “truffa colossale” di cui si sarebbe macchiato, tra gli altri, il fondatore di Fastweb, Silvio Scaglia (tra i 1.000 uomini più ricchi del mondo e tredicesimo Paperone d’Italia); truffa che avrebbe sottratto al fisco ben 365 milioni di euro? Colpa anche in questo caso solo della solita malapolitica? O molto c’entrava e c’entra anche l’avidità e la furbizia di alcuni ex campioni dell’imprenditoria nostrana?
Domanda: tutto questo per concludere – secondo un collaudato refrain berlusconiano (e prim’ancora craxiano) – che tanto è tutto un magna-magna; che non c’è niente da fare; che chi ha avuto, ha avuto; e chi ha dato, ha dato? Risposta: assolutamente, no. Al contrario. Tutto questo per dire che una questione morale, nel Belpaese, esiste da tanto, anzi troppo tempo. Che riguarda i politici, ma forse un tantinello anche gli imprenditori. Che ciascuno dovrebbe prendersi la sua quota di responsabilità. E che chi ha sbagliato, deve rispondere personalmente. E va sanzionato. Anche da Confindustria. Che benissimo ha fatto – per esempio – a minacciare di espulsione gli imprenditori che pagano il pizzo alla mafia. Ma che ancor meglio farebbe a stabilire che il manager o l’impresa dalla mazzetta facile vada cacciato dalle sue fila. E a chiedere l’esclusione dagli appalti pubblici per le aziende che si macchiano di corruzione. Sarebbe un gesto forse solo simbolico. Ma sarebbe appunto un gesto, un’azione; non solo belle parole. Se Confindustria, insomma, ha voglia di fare qualcosa di concreto, bene. Se no, che si taccia. Ché di chiacchiere e di professionisti dello scaricabarile, questo Paese ne ha già abbastanza.