DI CARLO BERTANI
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 “Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine.”
“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.”
Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno
A volte, si deve meditare sui sostantivi e sugli aggettivi, senza temere di perder troppo tempo. E’ il caso di un articolo comparso su Comedonchisciotte qualche tempo fa – Ma che bella provincia! – a firma di Pasquino Potenza. Pseudonimo o vero nome? Nel secondo caso, quasi un sotterraneo ossimoro, giacché i Pasquini furono sempre le voci dei deboli.
Il termine “panciafichista”, riportato da Pasquino Potenza e che non ascoltavo da tempo, ha subito associato nella mia mente un breve pensiero del defunto Gianni Baget Bozzo, il quale – alla fondazione del Popolo della Libertà – pontificava:
“Il Popolo della Libertà sarà un partito nazional-popolare. Il movimento di Berlusconi è nato con un appello rivolto al popolo. Ma il popolo non colto. La sinistra ha il monopolio della cultura in Italia e il premier ha in mano il popolo povero contro quello grasso.”

Già, il popolo “povero”. Questa sì che è una vera elucubrazione da sacrestia, ma la concediamo, visti gli orizzonti del “profeta” che l’ha espressa. Quel “povero” – per Baget Bozzo – non è da intendere in senso economico – e chi è più ricco degli evasori fiscali che santificano san Silvio? – bensì culturale. D’altro canto, Baget Bozzo precisava: “non colto”.
Potremmo considerare in questa analisi anche l’attuale scontro interno al PdL – non dimentichiamo che il creatore del neologismo fu Mussolini, ma il termine fu coniato, all’epoca, come spregiativo d’inconcludente pacifismo – ma sarebbe limitativo, poiché il linguaggio è per sua essenza intrinseca in divenire: giammai indica – con lo stesso termine – la medesima situazione od emozione, visto che ogni tempo colora con diversi accenti il substrato che i termini stessi tentano d’interpretare. Un rapporto dialettico nel quale è piacevole sguazzare senza, però, correre il rischio di perdersi: potremmo concludere, “un sensato pudding di parole”.
Inoltre – per la pochezza della singolar tenzone, tutta interna ad un sistema politico marcescente – ci sembrerebbe d’usare la teoria dell’analisi infinitesimale per misurare le aree sottese delle Uova di Pasqua: de minimis non curat praetor.
In realtà, l’impeto panciafichista italiano è iniziato ancor prima di Berlusconi – almeno del Berlusconi politico – e nulla o poco ha avuto a che fare con il pacifismo. Una re-interpretazione del termine mussoliniano potrebbe, oggi, partire dalla scissione dei termini che compongono il (quasi) neologismo, ossia pancia e fica, al posto degli originali pancia e fichi.
L’albero di fichi era, almeno fino alla metà del Novecento, considerato gran fonte di piacere, giacché pochi frutti nostrani generano una tale attrazione per la gola: in principio furono pane e fichi poi, col progredire del reddito, fichi e prosciutto.
Oggi, nessuno più stempera la propria esistenza cullandosi nel nirvana della scorpacciata di fichi – alla quale sacrificare onore e morale – mentre sul femminino del gustoso frutto…beh…qui c’è trippa per gatti…
Ci siamo spesso chiesti quale valore sia sopra tutti nell’idilliaco nirvana italiota e, pur munendoci della lanterna di Diogene, soltanto la scorpacciata pantagruelica (La Grande Abbuffata di Ferreri? Eravamo nel 1973…) sembra reggere, mentre il necessario contrappasso altro non può circostanziarsi che nell’adire, con solerzia e fissità d’intenti, alla tumida rosa.
L’overdose di pasta allo scoglio e di crostacei arrostiti sulle braci, oppure il maialetto arrosto impastato di Nero d’Avola richiede, necessariamente, l’apoteosi energetico/riproduttiva da consumarsi tra fresche coltri in un letto, solleticate dalla rovente brezza d’Agosto. E non c’è niente di male.
Sarebbe sin troppo facile stabilire delle consecutio temporali, nelle quali l’epicureismo sfrenato diverrebbe necessario prodromo per nottate da trascorrere, placati gli amorosi sensi, alla tastiera o con la tavolozza in mano. Ristabiliremmo, in qualche modo, un equilibro classicista, da cenacolo settecentesco: invece, così non è.
La commedia si trasforma in dramma quando interviene l’evirazione dell’effetto, ossia quando leggi non scritte e canoni mai ammessi – la morale cristiana qualcosa c’entra, ma non è il perno della metamorfosi – vengono repentinamente negate, rimosse, dimenticate. Evirate, appunto.
Analisi frettolose hanno spesso imputato all’Italia degli ultimi decenni uno sfrenato concedersi all’estetica: molti autori si sono cimentati nella critica allo scivolamento, al concedersi troppo alle sirene estetiche. Solo oggi – quando il processo è giunto ad estremi che ne portano alla luce le evidenze più tragicomiche – possiamo comprendere che d’estetismo s’è trattato, non d’estetica. Poiché l’estetica – pur navigando sulla sua rotta, senza curarsi d’altro – qualche “conto” con l’etica l’ha dovuto fare.
Non tiriamo in ballo il dibattito classico sui rapporti fra etica ed estetica, proprio poiché classici e dunque non appropriati a definire quadri nei quali è il processo stesso di definizione e tratteggio dei fenomeni ad essere carente: torneremmo agli integrali ed alle Uova di Pasqua.
Negheremo dunque scientemente quel rapporto – indagato niente di meno che da Kant (anche se, personalmente, preferiamo l’approccio dialettico illuminista) – poiché trascendente rispetto all’orizzonte del panciafichista. In altre parole, resteremo “bassi”, anche se non potremo adagiarci del tutto nell’alcova dei panciafichisti, maschi e femmine.
Dovremo anzitutto sgombrare l’assurda convinzione – spesso veicolata da pessimo femminismo – che esista un paritetico “panciafallismo”: non ci sentiamo di sostenere questa tesi.
A nostro avviso, è senz’altro più pratico – pur ammettendo, in via puramente teorica, che il ribaltamento speculare del termine sia possibile – considerare il panciafichismo moderno composto da una parte attiva e passiva. In altre parole – pur concedendo una naturale differenza fra colmatore e colmata – sul piano ideale il riferimento al fenomeno è lo stesso.
Di cosa si nutre il panciafichista?
Frettolosamente ri-definito come istinto animalesco – l’avvicinarsi all’albero delle “fiche” per placare l’appetito, questa volta esistenziale – il panciafichismo nega in sé proprio l’aspetto esistenziale: non ne è travolto né fiaccato e neppure corrotto (accoppiando, al termine, le “rotte maledette” dell’esistenzialismo, da Rimbaud a Kerouac). Semplicemente, lo rimuove.
Se, per il panciafichista “classico”, la fase istintuale poteva rappresentare una dedizione, quasi una soluzione esistenziale, per quello post, post, post…moderno, non rappresenta nemmeno più la negazione, bensì una sorta di fanciullesca ed inconsapevole atarassia, raggiunta e coltivata senza un contributo personale, completamente passiva.
La chiave di volta per ricomporre gli attributi del fenomeno passa necessariamente, per prima cosa, nel differire l’estetica dall’estetismo. Il quale ne è, ovviamente, soltanto la diafana ombra che conduce al famoso barattolo con “merda d’artista”.
Sarebbe però già eccessivo codificare nell’estetismo classico il mondo dell’arte che ci circonda, poiché anche il livello dell’arte auto-referenziale è drammaticamente basso. Madonna e Lady Gaga fanno ancora parte dell’estetismo, oppure scadono nel popolare edonismo?
Domandandoci quale fenomeno – fra quelli che ci circondano – sia più facilmente riferibile all’estetismo, ci salta agli occhi quello pubblicitario.
L’uomo medievale non osservava, nell’intera vita, più di un centinaio d’icone: quasi tutte a carattere sacro, e soltanto la nobiltà aveva “accesso” alla raffigurazione mondana, quasi sempre – però – incasellata nel Mito del classicismo.
La pubblicità cartacea, che fino alla metà del ‘900 resse il campo, era poca cosa se raffrontata con la potenza espressiva del nascente mezzo radiofonico e, soprattutto, con le migliaia di personalissime Gestalt della lettura.
Originariamente, il termine “pubblicità” significava “rendere pubblico” un evento, ed era quello che a grandi linee faceva l’ingenua pubblicità della TV in bianco e nero.
In quel panorama, s’inserì un messaggio pubblicitario popolare il quale, invece di differenziarsi dalla morale vigente e dal comunissimo tran tran della vita di tutti i giorni, lo sottolineava con esempi che “legavano” i nuovi consumi all’esistente. Ma, non si teneva in conto l’esigenza inestinguibile all’espansione dei consumi, l’unico vero obiettivo del post, post, post…moderno capitalismo.
Ecco, allora, con l’esaurirsi delle spinte propulsive nate dalla ricostruzione postbellica, ma anche dal crollo del sostanziale equilibrio fra l’incremento di produzione ed i consumi durato fino alla metà degli anni ‘70, che l’esigenza pubblicitaria deve, necessariamente, diventare violenta, poiché deve oltrepassare le naturali difese dello spettatore/consumatore ed obbligarlo a ritenere inconcepibile privarsi dell’oggetto.
La nuova esigenza, smaccatamente violenta, trova nell’estetica un limite verso il quale mostra insofferenza: per colpire e distruggere la soggettività critica. Il canone estetico diventa un gravoso fardello, e lo incenerisce.
Dovremmo, per chiarezza, soffermarci a soppesare con attenzione i tempi del processo: millenni con quasi nulli messaggi iconici, mezzo secolo di radio e giornali, qualche lustro di pacata intromissione pubblicitaria, tre decadi almeno di violento e forzoso scardinamento di tutti i canoni. A fronte, la mente umana che ha ben altri tempi d’adattamento.
Se confrontiamo la tendenza al risparmio fra i Paesi che sono giunti prima a questo scenario (le nazioni degli Angli, soprattutto), con quelli che hanno ritardato il processo di un paio di decadi, scopriremo che l’aumento della pressione pubblicitaria – non il reddito! non la produttività! non la produzione! – è colui che erode il risparmio.
Qui, s’inserisce un aggravio di follia tutto italiano: il gran reggente del processo mediatico/pubblicitario sgomita al punto di salire, ad uno ad uno, gli scalini del potere giungendo alla vetta, dove trova le chiavi dello scrigno delle meraviglie, quello che consente di regolare la velocità del processo!
Non vorrei che qualcuno, poco attento o frettoloso, confondesse questo concetto con il più comune conflitto d’interesse: di ben altro si tratta!
Osserviamo come, in pochi decenni, è avvenuta la completa distruzione della sfera erotica: la produzione pornografica ha appiattito ogni rappresentazione dell’eros ad un processo sempre uguale – tette, bocca, lato A, lato B, conclusioni – nel quale la soggettività dell’uomo e della donna, le loro identità, sono racchiuse e “corrette” all’interno di un copione. La povera Dita Von Teese viene confinata nell’universo del “burlesque”: forse perché si prende burla dello sciacquone erotico confezionato nei garage della periferia di Praga?
Le danzatrici indiane e del Sud-Est asiatico profondono oceani del più schietto erotismo, ma noi abbiamo smarrito il canone – ossia il nostro “apparato ricettore” – per goderne le grazie.
E il calcio?
L’ultimo interprete del grande canone estetico del calcio è stato Diego Armando Maradona: dotato per grazia divina di un estro incomprimibile, nella famosissima discesa e goal contro l’Inghilterra frantumò la prigione nella quale quel bellissimo gioco è oramai imprigionato. Fu un atto glorioso, ma irripetibile per chi non è stato spruzzato con il nettare degli Dei: il canone sportivo odierno prevede un atletismo esasperato, proprio per distruggere al primo mostrarsi quelle capacità divine.
Potremmo dilungarci, ma il senso è chiaro: distruggendo ogni canone estetico, la piatta uniformità che ne deriva consente ai più degenerati piazzisti di paccottiglia umana d’imperversare. Fu un caso che Chirac – uomo appartenente per tradizione alla destra europea – proibì l’etere francese alle TV commerciali del Biscione, definendo il loro padrone un “vendeur de soupe”?
Non si tratta, oramai, d’argomenti o d’espressione artistica, bensì di format e di linguaggio: nella polemica fra Antonio Ricci e Nicola Lagioia, chi scrive si schiera apertamente e senza nessun dubbio dalla parte di Nicola Lagioia. La tristezza, che la vicenda emana, deve tenere soprattutto in conto che Antonio Ricci è persona di grande intelligenza: l’importanza del linguaggio e della scenografia sa benissimo cosa significano, e quanto siano dirompenti per lo spettatore.
Giunti a questo punto, possiamo far rientrare in scena il nostro abulico panciafichista: è dunque colpevole?
Privato, da parte di un efficientissimo sistema di comunicazione, di tutti gli elementi atti a discernere l’oro dall’ottone – giacché l’assenza di canoni estetici non consente critica – naviga a vista premendo tasti del telecomando, ricevendo soltanto un rumore di fondo eterogeneo nei contenuti ma spietatamente omogeneo nella prassi e nei modelli esposti: tempi, linguaggio, musiche…il cosiddetto “format”.
Lentamente, anno dopo anno, quel ritmo lo ipnotizzerà come un malefico mantra: gli orientali se ne intendono più di noi sul potere della parola, del suono e della concentrazione visiva su un oggetto. Difatti, lo yantra è il corrispondente grafico del mantra.
Come può “smontare” un così perfido inganno?
Semplicemente, da solo, non è in grado di farlo: le generazioni “televisionizzate” sono, semplicemente, perdute. Non a caso, l’astensionismo consapevole è soprattutto appannaggio dei giovani, le persone sotto i 35 anni, la generazione di Internet: una timida speranza.
E torniamo all’assioma originario, ossia al rapporto fra etica ed estetica nel nostro panciafichista: potrebbe, dopo un simile bombardamento, leggere le mille interpretazioni dell’etica presenti nella storia della Filosofia? Così, en passant, da Socrate a Sartre? E’ disumano soltanto il proporlo.
Eppure, la cancellazione di ogni fondato canone estetico conduce ad accettare qualsiasi forma od azione soltanto per il piacere che genera: non si tratta soltanto della volgare pornografia, bensì di tutto ciò che attiene alla violenza in diretta.
Filmati su catastrofi e disastri, esecuzioni, violenze, bombardamenti, assassini…se solo sono in “presa diretta”, scatenano milioni di clic. Perché?
Poiché l’unico obiettivo è valicare un ulteriore limite, osservare l’inguardabile, il terrifico, in una corsa sfrenata nella quale la parvenza assume i contorni della conoscenza. L’estremo inganno.
Il piacere di trionfare e (forse) di sopravvivere – in qualche modo – ad altri diventa il solo faro da seguire, la sola nota da ascoltare. Non è forse, questo, la negazione dell’etica? Dov’è la riflessione oltre il clic? Nella maggior parte dei casi, non avviene e tutto termina quando si cambia sito o filmato: proprio con l’incedere “cingolato” del format.
In fin dei conti, questo modello sta bene a destra come a sinistra perché, in definitiva, è la magia che consente ricchezza ed onori: semmai, i distinguo sono personali, dovuti a crisi di coscienza individuali, a percorsi che nulla hanno a che vedere con la sfera della politica.
Lentamente, anche coloro che riteniamo i nostri aguzzini, vengono accalappiati ed ammaliati dal mondo che loro stessi creano: finiscono per credere veramente d’essere coloro che reggono i destini della polis.
Ma la polis, per essere retta, necessita di valori che segnino il limite…e si torna da capo.
Si potrà anche credere che esistano delle “cabine di regia”, burattinai organizzati, società segrete e via discorrendo…esisteranno per certo, ma sono soltanto ulteriori sovrastrutture di un sistema impazzito che è diventato talmente auto-referenziale da santificare se stesso: una sorta di “estetismo politico”.
L’uomo “unto del Signore”, il banchiere che fa “il lavoro di Dio” sono soltanto le comparse di una rappresentazione che non ha più regia: pianificato un sistema che crea denaro dal denaro stesso, non ci possono essere altre vie che sorvegliare la catena di montaggio, tanto è vero che le banche stanno riprendendo le medesime abitudini truffaldine che avevano prima dei subprime.
Qualcuno lo racconta, altri se ne lamentano, ma nessuno ha il potere di fermare l’ingranaggio di “Tempi moderni”: a ben vedere, Chaplin aveva già compreso tutto.
A margine, possiamo soltanto immaginare gli effetti che la nuova abitudine planetaria, l’incedere senza curarsi dei canoni, può e potrà produrre: schiere di visi anonimi dedite solamente alla percezione, personale ma senza strumenti critici, di qualcosa che possa soddisfare il proprio ego. Un apocalittico gioco a mosca cieca, nel quale ciascuno incede travolgendo il vicino: è il corrispettivo della “polverizzazione sociale” spesso rilevata, con i termini ed i canoni della sociologia, dagli istituti di ricerca.
Qualcuno immagina, con un po’ d’ottimismo, che la religione e la politica possano ancora compiere l’azzardo, la virata che potrà salvarci. La Chiesa Cattolica è oramai troppo secolarizzata e divisa al suo interno: un giorno tenta di mostrare i pericoli dell’assoluta mancanza di canoni, ma il giorno dopo fa carte false con gli omuncoli politici per salvare un principio del proprio canone, senza curarsi delle mutazioni sociali, delle diverse percezioni.
E attacca il relativismo come principale colpevole della decadenza: lo fa in modo strumentale, dimenticando che il relativismo è solo una prassi per indagare ed evolvere dei canoni, etici ed estetici, non per distruggerli.
Sulla politica, su questa politica, meglio il silenzio.
Perciò, ci possiamo soltanto dividere fra panciafichisti consapevoli ed inconsapevoli e – ironia della sorte – non sappiamo, sulla scena, a chi sia toccata la parte migliore.
Forse qualcuno, un panciafichista completamente inconsapevole, oppure un panciafichista più consapevole, una sera – quando premerà sul telecomando per spegnere l’apparecchio – fermerà il mondo.
Magari, il giorno dopo mescoleranno le carte e Dio – o chi per lui – taglierà il mazzo. Ma queste sono soltanto storie che potrebbero raccontare Kafka o il barone di Munchausen: gente che è vissuta protetta dai canoni, etici ed estetici.

Fonte: http://carlobertani.blogspot.com
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2010/04/il-panciafichismo-fra-etica-ed-estetica.html

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