DI

JEAN-MICHEL VERNOCHET
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La crisi greca del budget, diventata crisi dell’euro, non è la conseguenza fatale di un’autoregolamentazione dei mercati, ma di un attacco deliberato. Per Jean-Michel Vernochet, essa fa parte di una guerra economica condotta, dopo Washington e Londra, secondo gli stessi principi delle attuali guerre militari: ricorso alla teoria dei giochi e strategia del caos costruttore. La posta in gioco è costringere gli europei ad integrarsi in un blocco atlantico, vale a dire in un Impero, all’interno del quale pagheranno automaticamente per il deficit budgetario anglosassone, tramite il mezzo indiretto di un euro dollarizzato. Un primo passo in questo senso è già stato fatto con l’accordo siglato tra l’Unione Europea e il FMI, che concede al Fondo Mondiale una particolare tutela sulla politica economica dell’UE.
L’attacco finanziario lanciato contro la Grecia, a causa del suo debito sovrano e della sua potenziale insolvibilità, si è presto rivelato essere, nei fatti, un’offensiva contro l’Euro, che ha molto poco a che fare con le tare e i deficit strutturali dell’economia ellenica in sé. Dei “vizi”, del resto largamente condivisi dalla maggior parte dei paesi postindustriali, che hanno preso la pessima abitudine di vivere al di sopra dei propri mezzi, e a credito: da qui un’inflazione galoppante del debito, una “bolla” come un’altra destinata infine a esplodere.
Nella foto: Il direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominic Strauss-Kahn e il cancelliere tedesco Angela Merkel. Impossibilitata a ritornare al Deutsch Mark,la Germania ha dovuto acconsentire ad un prestito europeo presso il FMI
Tutto sembra indicare che dietro la brutalità dell’attacco e al di là della corsa al saccheggio delle economie si profilino altri obiettivi, chiaramente di ordine geopolitico, e a lungo meditati. Poiché in nessun caso gli appetiti degli anonimi predatori finanziari, per quanto acuti possano essere, riescono a spiegare la durata di un’offensiva che, a breve termine, rischia di far saltare in aria la zona euro, l’Unione dei ventisette, e ben altro…
Alla luce del moltiplicarsi delle crisi in questi ultimi due decenni, un’occhiata rapida allo spostamento delle pedine sulla Grande Scacchiera eurasiatica lascia pensare che l’Europa sia attualmente il teatro di una battaglia all’interno di una guerra geoeconomica (guerra in senso pieno e letterale), una battaglia che del resto l’Europa ha potenzialmente già perso.
Difatti, l’adozione di un piano europeo – sotto le pressanti istanze della Casa Bianca, per il riasetto del debito pubblico degli stati membri dell’Unione, non solo non costituisce una panacea, un rimedio durevole alla crisi budgetaria strutturale che affligge ormai tutti gli stati occidentali, ma va nel senso voluto dal mentore statunitense, di una rapida integrazione dell’Unione Europea, preambolo obbligato alla costituzione di un monolitico blocco occidentale.
Un piano europeo che risponde ad una crisi di fiducia, di solvibilità (largamente artificiale all’inizio, ma diventata contagiosa (con effetto valanga), attraverso la ricapitalizzazione degli Stati, come se si trattasse di una semplice crisi di liquidità. Un piano europeo da 750 miliardi di Euro superiore al piano Paulson dall’ammontare di 700 miliardi di dollari, destinato, dopo il fallimento degli istituti finanziari americani del Settembre 2008, a rimetterli in sesto coi fondi pubblici. Una soluzione di cui al momento si vedono gli effetti, in quello che la ricapitalizzazione del settore finanziario ha avuto come conseguenza aberrante, cioè di accrescere pesantemente il debito degli stati al di qua e al di là dell’Atlantico.
In questo modo, la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha innescato la recessione, vale a dire, ha chiuso la valvola al meccanismo economico, e di conseguenza prosciugato le risorse fiscali degli stati, rendendo ancora più difficile la gestione di un debito ormai considerevole. Ora l’Unione Europea sta per aggiungere debito al debito con qualcosa come 750 miliardi euro che graveranno ancor più sui budgets nazionali (il tasso medio di indebitamento della zona euro ammonta attualmente a 78%), questo in vista di un ipotetico “ristabilire la fiducia dei mercati”.
Per far questo, l’Europa si è appena posta – volontariamente – sotto la cappa del Fondo Monetario internazionale, che gli accorderà prestiti dell’ordine di 250 miliardi di euro, FMI, che fino ad oggi aveva mostrato piuttosto la tendenza a sostenere le vacillanti economie del terzo mondo, a colpi di manganello assestati in mezzo a quei piani detti di aggiustamento strutturale. È dunque un’entità sovranazionale dalla vocazione “mondialista” che in un certo senso darà la benedizione, ovvero supervisionerà più o meno direttamente le strutture di governance economica di cui l’Europa sicuramente si doterà, se la zona euro nel frattempo non si disloca spontaneamente.
Strutture integrative reclamate a gran voce da Paul Volcker, direttore alla Casa Bianca del Consiglio per la ripresa (degli Stati Uniti), che dopo Londra rampogna energicamente i dirigenti europei, pretendendo il rilancio dell’euro di cui statunitensi e inglesi hanno assolutamente bisogno per mantenere a galla le loro economie.
Notiamo, tra parentesi, che è davvero con la morte nel cuore che la cancelliera tedesca si è rassegnata a sottoscrivere questo prodigioso piano di sostegno ai paesi in difficoltà della zona euro, mentre il suo omologo francese la minacciava di ritornare al franco se lei non avesse ottemperato. Ma, se è vero che “la formica non presta volentieri”, il ritorno al Deutsch Mark equivarrebbe a firmare l’atto di morte dell’economia tedesca, la cui moneta troppo forte non gli permetterebbe più in tal caso di esportare la propria produzione industriale, punto cardine della sua economia. Un mezzo di ricatto sufficiente ad obbligare Berlino volens nolens, costringendola con la forza, a passare sotto le forche caudine allestite dall’amministrazione Obama.
Diktat statunitensi che conducono ad una trappola già pronta: i capitali presi in prestito sui mercati o prestati dal FMI per il salvataggio dei “PIIGS” minacciati di cessazione di pagamento, devono appoggiarsi a strutture che garantiscano la solvibilità a termine dell’euro! Moneta la cui solidità non potrà che essere assicurata da queste istituzioni federali, di cui Jacques Attali si è reso infaticabile promotore sui nostri media reclamando “la creazione di un’Agenzia europea del Tesoro, immediatamente autorizzata a prendere prestiti in nome dell’Unione, e di un Fondo budgetario europeo, che abbia mandato immediato di controllo sulle spese di budget dei paesi il cui debito superi l’80% del PIL”.
In fin dei conti, si tratta, né più né meno, di imporre la messa sotto tutela economica degli stati con il pretesto di salvare la zona euro destinata – a quanto pare – a un ineluttabile fallimento… dal momento che l’abbandono della moneta unica è un infrangibile tabù che niente può scalfire.
Certi progetti, che già prevedono che i budgets degli stati della zona euro siano interamente controllati da un triumvirato composto dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca Centrale Europea e dall’Eurogruppo. A questo punto cosa ne è della volontà popolare e del parlamento di Strasburgo?
Niente vieta di denunciare il sofisma o il paralogismo che costituisce questa equazione tra integrazione economica e ritorno di fiducia sui mercati. Prima di tutto perché i mercati dovrebbero, loro e solo loro, imporre le proprie leggi? E inoltre non sarebbe ormai tempo di rimettere in discussione il capitalismo azionario, anonimo e versatile, capace di rovinare a piacimento, o per calcolo, intere nazioni?
La governance economica europea da questo punto di vista non è la panacea, come l’inondazione di titoli non è la soluzione dell’attuale crisi. Il super-indebitamento indotto dal “piano” è senza ombra di dubbio una falsa soluzione imposta dall’esterno, e avente come finalità di incatenarci, noi europei, sempre di più al mercato dei capitali e alla loro indicibile dittatura.
L’idea della governance deriva dallo stesso modo di procedere, dal momento che essa rappresenta letteralmente un non-senso, in quanto ignora tutti i differenziali societari che contribuiscono a vari livelli nella costruzione europea: tipi o modelli di crescita, regimi fiscali e sociali et caetera. Un’idea che non è nemmeno tale, in quanto sostanzialmente ideologica… un progetto dietro il quale sono in agguato dei secondi fini completamente estranei alla prosperità economica e al benessere dei popoli dell’Unione.
Certi si sono accorti che la crisi non era che il mezzo ed il pretesto per instaurare precipitosamente un duro sistema federale a dispetto della volontà popolare, cui il Trattato di Lisbona è stato imposto nel modo più subdolo possibile. Una crisi che è e che resta – teniamo ben presente il concetto – artificiale, fabbricata, in poche parole il contrario di una “fatalità” inerente a quello che sarebbe un percorso autonomo e disincarnato dei mercati, animati da una “mano invisibile”. Un processo ritenuto “meccanico” ma che, pur essendo anonimo, non vede per questo meno coinvolti i grandi manipolatori di denaro e altri architetti che fanno il bello e il cattivo tempo in Borsa.
È per questo motivo che gli Stati Uniti usano un linguaggio doppio e a due voci. La voce dei “mercati” e quella del loro presidente che interviene per rimproverare gli europei e per sollecitarli a stabilizzare la loro moneta, per meglio dire le politiche economiche europee indissociabili dalla salute buona o cattiva della loro valuta. Tuttavia, non osate immaginare neppure un attimo che questo assomigli più o meno ad un’ingerenza negli affari dell’Europa continentale. Ce la vedete la Signora Merkel e il Signor Sarkozy che ingiungono alla Casa Bianca di sistemare le cose a Manhattan?
L’altra voce appartiene a quelli che fanno il bello e il cattivo tempo sui mercati… in breve quelli che danno ordini anonimi, inedintificabili per gli stessi governi, come ha pietosamente confessato il ministro francese delle finanze, la Signora Lagarde. Quelli che giocano allo yo-yo con le borse come il gatto gioca con il topo, anticipando alti e bassi che essi stessi hanno provocato.

Per Paul Volcker, direttore alla Casa Bianca del Consiglio per la ripresa economica, gli europei devono accettare una governance economica esterna e portare l’euro a parità con il dollaro.

Questi oligarchi vanno annoverati in primo luogo fra i rappresentanti dell’alta finanza, dei complessi dell’industria militare, dei megagruppi del petrolio e della chimica o della genetica, ma anche fra gli ideologi e i teorici attaccati alla legittimazione del “sistema”, i nuovi chierici (preti) della religione del profitto come nuovo monoteismo, quello del mercato. Ebbene, queste persone seguono un’altra logica.
Infatti, come spiegare l’evidente contraddizione esistente tra le inquietudini espresse dal presidente Obama – che restano legittime, visto che gli Stati Uniti hanno bisogno di un euro forte che penalizzi le esportazioni europee, ma che avvantaggiano le industrie americane; un bonus utile a fronte del deficit abissale (1400 miliardi di dollari) e soprattutto necessario per sostenere lo sforzo delle guerre in corso, Iraq, Afganistan e Pakistan – e il proseguimento della destabilizzazione in profondità delle economie occidentali attraverso reiterati attacchi contro l’euro?
Per quanto voraci, contraddittori, anzi irrazionali, possano essere, gli “operatori” sono coscienti che continuare l’offensiva contro l’euro mette in pericolo il sistema nel suo insieme e rischia di precipitare l’economia mondiale in una nuova fase di caos. Allora perché questa danza sull’orlo dell’abisso? Niente ci farà credere alla balla secondo cui i mercati vivono di vita propria, che sono incontrollabili e che tutto questo sarebbe dovuto ad uno scatto della macchina economica… in sintesi che tutto ciò non sarebbe “colpa di nessuno”, ma la semplice impossibilità a gestire gli attori e gli slittamenti irrazionali dei mercati.
Allora, diciamolo chiaro, il rischio di un crollo sistemico è al centro stesso della partita in corso. I grandi partecipanti, freddi calcolatori, sono chiari adepti della “teoria dei giochi” (di Neumann e Morgenstern), costruzione probabilistica che stava alla base di quella che fu la dissuasione nucleare… chi vince è quello che si spinge più in avanti nella sfida al rialzo letale. Un parallelismo che coincide alla perfezione con quello che stiamo vivendo adesso: destabilizzazione crescente delle economie europee con effetti evidenti oltreatlantico.
Aggiungiamo che il caos finanziario, monetario e economico, al di qua e al di là dell’Atlantico, è una fortuna insperata per coloro, è necessario ripeterlo, che prosperano sui corsi e ricorsi della borsa, provocando e anticipando i momenti di panico e di euforia per sfruttare indifferentemente correnti ascendenti o discendenti sui mercati resi istericamente instabili.
All’inizio del XX secolo, l’economista Werner Sombart teorizzava la “distruzione creatrice” (in seguito ripresa da Joseph Schumpeter). Successivamente, questa idea fece il suo corso grazie, fra l’altro, alla teoria matematica del francese René Thom (detta teoria delle catastrofi). Rivista e corretta da Benoît Mandelbrot, questa si aprirà un varco, attraverso la geometria dei frattali, nei mercati, dando risalto alla teoria del caos tanto in voga.
Nel frattempo, l’economista Friedrich von Havek, uno dei teorici del neoliberismo, ha la pretesa di elevare l’economia liberale a scienza esatta. Così, secondo il suo agiografo Guy Sorman, “il liberalismo converge verso le teorie fisiche, chimiche e biologiche più recenti, in particolare la scienza del caos formalizzata da Ilja Prigonin. Nell`economia di mercato, come nella Natura, l’ordine nasce dal caos: il concatenarsi spontaneo di milioni di decisioni e di informazioni conduce non al disordine, m ad un ordine superiore”… Non potremmo esprimerlo meglio, visto che qui risiede la chiave d’interpretazione della crisi.
Alla fine degli anni Novanta, i neoconservatori adepti di Leo Strauss hanno portato al parossismo logico il nuovo dogma del disordine superiore, tessendo le lodi del caos costruttore quale legittimazione a priori di tutte le guerre di conquista del XXI secolo. Da questo punto di vista ciascuno può vedere il caos all’opera nel Greater Middle East così come lo può vedere all’opera oggi in Europa.
Scommettiamo che il nuovo ordine regionale che i grandi agenti del caos intendono far scaturire dalla crisi attuale, sarà un’Europa unificata, centralizzata e federale, posta sotto la cappa degli Stati Uniti per il tramite indiretto della Riserva Federale americana, di cui la Banca Centrale Europea non sarà più che una succursale, e sotto lo sguardo vigile del FMI, rappresentante o emanazione di un potere mondiale emergente, sovra-territoriale e tentacolare.
Si comprende abbastanza alla svelta che la deificazione del mercato, associata all’idea di un “caos costruttore”, completata da un uso intensivo di una teoria dei giochi e manipolata dagli adepti della demolizione, costituisce un ibrido abbastanza incongruo da colpirci.
Si impone dunque una constatazione: la cognizione che il “caos” (intenzionale) è a tutt’oggi una forma di governo, di trasformazione della società e di conquista senza colpo ferire. Una versione dura del divide et impera, a costo di far perire le nazioni, e con esse i popoli.
Il gioco vale la candela, se alla fine l’Europa si trova messa in ginocchio. La Grecia – certamente una delle parti deboli della zona euro, ma non tanto peggio di Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo – è stata fino a questo momento una specie di elettrone libero, che contrastava una piena integrazione dei Balcani nel meccanismo geostrategico statunitense.
Come conclusione provvisoria, possiamo dire che se l’Unione Europea, con l’occasione della crisi avanza a passi forzati verso una governance federale, sarà raggiunta la tappa di un percorso che conduce verso l’attribuzione di un potere pressoché discrezionale alla Commissione Europea, composta per la maggior parte da tecnocrati non eletti e reclutati per un’alleanza atlantica inossidabile. Evidentemente questo significherà la cancellazione degli stati-nazione europei. De facto, più niente si opporrà all’integrazione dell’Europa in un blocco transatlantico. Successivamente, la fusione fra euro e dollaro suggellerà l’unione del Vecchio Mondo con il Nuovo Mondo. Non si tratta chiaramente di pure speculazioni, ma di una semplice proiezione di tendenze strutturali visibilmente all’opera nel quadro unico di un processo di redistribuzione o ricomposizione geopolitica della carta mondiale. Si potrebbe dire altresì che se la zona euro non scoppia, la sorte dei popoli europei sembra definitivamente segnata, vale a dire incatenata per il meglio e il peggio al “destino manifesto” degli Stati Uniti. Questo indipendentemente da una riforma del sistema economico mondiale.
I finanzieri vi lasceranno forse ugualmente qualche penna, se la comunità internazionale si metterà d’accordo per frenare i loro appetiti, regolamentando i mercati, tuttavia i promotori del caos costruttore avranno partita vinta, creando le condizioni per nuovi disordini.
Poiché il “peggio”, spesso evocato in Francia da uomini influenti, quali Bernard Kouchner e Jacques Attali, è quanto di meno probabile vi sia, allorché i governanti, con le spalle al muro, sono costretti a prendere la direzione obbligata in avanti. Quando in Kuwait nel 1991, in Iraq nel 2003, tra le finalità appena nascoste della guerra si trovavano all’ordine del giorno il rilancio del motore economico tramite i cantieri previsti per la ricostruzione… Questo per non menzionare altri interessi più evidenti e più immediati, quali le energie fossili, la vendita d’armi e tutti gli affari che ne sono derivati.
Quali che siano gli accordi sull’arricchimento dell’uranio a scopo medico, stipulati tra Turchia e Iran, quali che siano le contrarietà diplomatiche che i riavvicinamenti tra alleati e nemici degli Stati Uniti causano in seno al Dipartimento di Stato, basta rileggersi le fiabe di La Fontaine, per sapere che la retorica del lupo ha sempre la meglio su quella dell’agnello! Aspettiamoci, nel contesto attuale di estrema fragilità dell’economia mondiale, un’uscita dalla crisi attraverso la dolorosa porta del caos distruttore.

Jean Michel Vernochet (ex-giornalista del Figaro Magazine e professore alla Scuola Superiore di Giornalismo (SJ-Parigi). Ultima opera pubblicata: Europe, chronique d’une mort annoncée , Éditions de l’Infini, 2009)
Fonte: www.voltairenet.org/
Link: http://www.voltairenet.org/article165451.html
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SASHA CORSINI