di
Federico Povoleri
Era una serata di fine estate del 1997, il 9 ottobre per l’esattezza, e vivevamo in un mondo senza complottisti; non c’era ancora bisogno di questa categoria e nessuno l’aveva inventata. I dizionari della lingua italiana erano (e lo sono tutt’ora) all’oscuro di questo termine, ma la nostra grammatica conosceva bene parole come “strage di stato” e “strategia del terrore”.
Ustica, Bologna, Italicus, Piazza Fontana, Aldo Moro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… E’ lungo l’elenco di quelli che la TV, prudentemente, chiamava “misteri italiani”.
Certo, ufficialmente i responsabili erano la mafia, le brigate rosse, quelle nere etc. etc. etc. ma erano ben pochi gli italiani che ci credevano; molti sapevano, la maggior parte intuiva che la verità stesse altrove, e ne potevi parlare a cena con gli amici, in pizzeria, o in qualsiasi altro posto; non erano argomenti tabù, e quasi tutti concordavano sulle realtà che si celano dietro alle versioni ufficiali.
Non c’erano molti dubbi. I fiumi di sangue versati da giornalisti, testimoni e gente innocente stavano sotto gli occhi di tutti, …
… come sigillo di garanzia per quei pensieri; ecco perchè la Tv non osava ancora rivolgersi al suo pubblico, al popolo italiano, dicendogli: “Siete degli imbecilli, visionari, antisemiti, antiamericani… Complottisti”. Sarebbe stato troppo; quel popolo avrebbe riversato la sua rabbia verso quel mezzo che invece, in modo invisibile e senza sollevare troppa polvere, stava adempiendo così bene e da molti anni al suo compito di indottrinamento. Perchè rischiare di vanificare tutto il lavoro fatto?
Era un’epoca in cui i mediocri cercavano sempre di uscire allo scoperto e far caciara, esattamente come oggi, ma era anche un’epoca in cui alcuni riuscivano ancora a vergognarsi di non sapere; Internet era ancora sconosciuto alla maggioranza, e in quella serata di ottobre accaddero molte cose. La TV di stato era probabilmente in difficoltà: un varietà di grande successo calamitava l’attenzione del pubblico sulle reti private, e non c’erano batterie armate per contrastare l’attacco frontale all’audience. Questa volta erano stati presi in contropiede, e a quel punto era probabilmente meglio trasmettere qualcosa per tappare un buco in prima serata, piuttosto che sprecare le cartucce migliori, ormai del tutto inutili, contro il successo garantito della concorrenza.
“Culi, tette, ricchi premi e cotillon ce li teniamo, e ci inventeremo qualcosa quando combatteremo la prossima battaglia”, devono aver pensato nelle alte sfere della RAI.
Accadde così che, con i peggiori auspici di ascolto, un perfetto sconosciuto andò in onda in prima serata con uno spettacolo teatrale – che in Italia significa “cultura”, quindi noia – in diretta dalla diga del Vajont. Non soltanto la rete rivale con il suo varietà, ma anche tutta una serie di eventi avevano già deciso in anticipo il funerale di quel programma: era caduto il governo, era stato annunciato il nobel a Dario Fo, insomma, le occasioni di distrazione per non sciropparsi una serata “dedicata alla memoria” erano tante, ghiotte, e per tutti i palati.
Quella sera Marco Paolini, con il suo teatro, raccontò la vera – e fino a quel momento praticamente sconosciuta – vicenda del Vajont, facendo scoprire a milioni di italiani che la storia così come l’avevano imparata, letta e conosciuta, era una balla gigantesca. Paolini dimostrò quali danni può fare un giornalismo che non racconta la verità, ma che radica le sue menzogne nella memoria collettiva soltanto perchè, se abbastanza influente, può arrivare a tutti e tacitare le più deboli voci contrarie.
Marco Paolini raccontò il Vajont con una preparazione e con una mole di documentazione impressionanti, al punto che nessuno si trovò nella posizione di poter opporre una qualche critica o risatina di scherno senza rischiare il linciaggio. Paolini creò più suspense e attenzione di un blockbuster di Hollywood. Il successo inatteso e imprevedibile della trasmissione fece il resto. Uno share del 15,75%, pari a 3.515.000 spettatori, mise una pietra sopra a chi avesse osato alzare la voce. I complottisti non esistevano ancora, e di conseguenza nessuno potè dare del “complottista” a Marco Paolini, nella speranza di sminuirlo davanti all’opinione pubblica che invece era tutta con lui. E così, non potendo fare altro, gli diedero un premio: l’Oscar della televisione.
La RAI fu subissata da una tale quantità di richieste che dovette replicare il programma poco tempo dopo, per tutti quelli che non l’avevano visto ma ne avevano sentito parlare.
Oggi siamo nel 2010, e molte cose sono cambiate. C’è stato l’11 settembre 2001, e questa volta è stata talmente grossa che bisognava inventarsi qualcosa perchè la gente stessa rifiutasse i suoi simili. Per far credere che esistesse una categoria di persone dal pensiero deviato, con la quale è meglio non mischiarsi, serviva uno spauracchio, un titolo infamante; e ci si inventò i “complottisti”.
Sono meccanismi che funzionano sempre e poi iniziano a vivere di vita propria; basta qualche imbecille che cominci a sentirsi orgoglioso di essere “complottista” – di essere cioè un personaggio inventato – basta che l’associazione di tale parola sia costruita in modo da suscitare immagini negative, in quella parte che vuole sentirsi sana, responsabile e ragionevole, e il gioco è fatto.
Chissà cosa sarebbe successo se lo spettacolo di Paolini fosse andato in onda dopo l’11 settembre 2001? Possiamo immaginare i titoli dei giornali: “Marco Paolini, un complottista in prima serata, indecente”; “Una puntata speciale di Superquark per raccontare come la forza della natura, imprevedile, ha provocato la tragedia del Vajont”.
Avremmo visto il ministero della verità correre ai ripari per riportare la storia alla condizione in cui era prima di quel pericoloso incidente di percorso.
Ma è molto meglio ricordare alcune parole che Marco Paolini pronunciò in un’intervista a Miriam Giovanzana (Terre di Mezzo – 1/12/1997):
“Ho letto il libro di Tina Merlin “Sulla pelle viva” e mi sono vergognato di non conoscere, di non sapere…”
“Non volevo correre il rischio di dimenticare ancora, e per non dimenticare dovevo, usando il mio lavoro, raccontare…”
“E’ questa la fatica del Vajont: non si tratta solamente di dominare le emozioni: è che puoi farne quello che vuoi di quei fatti li, della verità. Perchè sai che tanto nessuno o quasi potrà metterti in discussione. Le fonti? Le fonti ci sono… E’ stata pubblicata l’intera istruttoria…”
“Mi dava conforto fare il Vajont, così toccava anche ad altri sopportarne il peso, la vergogna…”
“Su una materia così vasta, così complessa, sarebbe fin troppo facile giocare sporco: lo scrupolo di verificare quello che stai dicendo sta tutto a te, è una responsabilità micidiale…”
Le persone delegate a raccontarci il nostro tempo sono i conduttori di TalkShow. Tv e memoria sembrano antitetici quando si incontrano producono revival.”
Federico Povoleri (Musicband)
Marco Paolini VAJONT: 1a parte – 2a parte