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Gianluca Freda

“Le istituzioni finanziarie devono fare la loro parte nella distribuzione più equa degli oneri fiscali, almeno temporaneamente, per il periodo necessario a far riprendere quota all’economia e a stabilizzare la situazione finanziaria. La tassa imposta alle banche è necessaria, giusta ed efficace ed è utile agli interessi del paese e delle persone in condizioni particolarmente difficili”.

A pronunciare queste eretiche parole è il Primo Ministro ungherese Viktor Orban, leader del partito Fidesz, il “rinnegato” che giovedì scorso ha osato far approvare dal Parlamento magiaro una legge che impone alle banche ungheresi, alle compagnie assicurative e ad altri istituti finanziari una folle tassa sugli attivi (dello 0,45% per le banche e del 5,2% per le compagnie assicurative), destinata a durare per almeno tre anni a partire dalla fine del 2009. Il provvedimento, stando alle dichiarazioni di Orban, dovrebbe servire a contenere il deficit ungherese entro il 3,8% del PIL. Tristemente, la legislazione è stata pure approvata con una maggioranza che, se non stessimo parlando dell’Ungheria, potremmo definire bulgara: 301 voti favorevoli contro 12 contrari. Pressoché unanime, com’è comprensibile, lo sdegno che l’iniziativa ha suscitato presso i creditori internazionali dell’Ungheria, le istituzioni europee e il Fondo Monetario Internazionale. “Questo è populismo!”, si sono lagnati all’unisono i tapini defraudati. “Così si blocca la crescita del paese! Si mina la fiducia degli investitori! E poi, sul lungo periodo, è una misura che si rivelerà poco utile al contenimento del deficit”. Sante parole. Un paese, come è noto, non è composto dai suoi cittadini, dalle loro esigenze, dalle loro iniziative commerciali e culturali, ma solo ed esclusivamente dai suoi operatori finanziari, astro sfolgorante intorno al quale deve ruotare e di fronte al quale deve essere pronta ad annullarsi ogni residua velleità nazionale. Quando uno Stato ha problemi di budget, come è di lapalissiana evidenza, l’unica misura possibile è quella di smantellare scuole e ospedali, tagliare i finanziamenti alle forze di sicurezza, ridurre gli stipendi dei dipendenti pubblici, fare il deserto delle strutture di assistenza, in modo che gli operatori finanziari e le società da essi controllate possano sostituirsi alle attività pubbliche così rase al suolo o acquistare ciò che ne resta per un boccon di pane, ricavandone enormi profitti con poca spesa. Ad assicurarsi che tutto si svolga secondo queste regole è il FMI, esattore e cane da guardia delle istituzioni finanziarie, che minaccia ritorsioni economiche e sospensioni di prestiti ogni volta che un paese prova a smarcarsi da questo meccanismo suicida. E’ il metodo sperimentato con successo in Italia dopo la stagione di Mani Pulite, che spazzò via la vecchia classe politica legata alla concezione pubblica della fornitura dei servizi per sostituirla con un branco di avvoltoi ammaestrati che diroccarono e svendettero a prezzi di liquidazione quasi ogni struttura che garantisse sicurezza e autonomia alla nazione. Per essere più certe che il marchingegno funzioni, sono le stesse banche centrali a creare i problemi di budget che metteranno in moto lo smantellamento e la svendita, vendendo agli stati il denaro di cui hanno bisogno in cambio dell’emissione di titoli del debito pubblico gravati da interesse, che produrranno di anno in anno un indebitamento esponenziale.

Si tratta di una strategia di comprovata efficienza, i cui capisaldi nessun governo sano di mente si sognerebbe di mettere in discussione.

Ogni tanto, però, salta fuori dal cappello un primo ministro un po’ folle come Orban che ha l’ardire di chiedere alle banche la restituzione di una piccola frazione del maltolto e di rispondere in malo modo al FMI, invitandolo a cavarsi fuori dai maro dalle questioni di politica nazionale. All’Ungheria era stato imposto dal FMI l’obiettivo del 3,8% del rapporto deficit/PIL entro la fine di quest’anno. Detto fatto, il governo ha deciso di tassare le banche per raggiungere tale obiettivo senza affamare e straziare ulteriormente i cittadini, già provati da cinque lunghi anni di austerity.

“Il nostro accordo non diceva nulla sui metodi che avremmo dovuto adottare per raggiungere questo obiettivo”, ha detto Orban in un incontro con una schiumante Angela Merkel. “La scelta degli strumenti e dei tempi della loro applicazione attiene alla nostra esclusiva responsabilità nazionale. […] Con queste misure, l’Ungheria avrà entro la fine dell’anno un deficit non superiore al 3,8%. E con questo il nostro rapporto con il FMI è concluso. Da quel momento in poi, non dovremo più confrontarci con il FMI, ma con l’Unione Europea”.

Ah ah ah!

Deridetelo tutti, schiavi!

Scelta degli strumenti? Responsabilità nazionale? Chiudere i rapporti con il FMI? Ma cosa dice questo pazzo?

Il poveretto è convinto di poter agire nell’interesse della nazione senza pagare dazio agli organi di controllo internazionali, che utilizzano le attività finanziarie e i ricatti economici come un randello per tenere in riga i paesi europei sotto l’occhio vigile delle strategie geopolitiche statunitensi. Il governo ungherese ha perfino osato approvare un provvedimento che pone un tetto all’entità dei salari dei dipendenti pubblici, compreso quello dei dirigenti della Banca Nazionale d’Ungheria e del Consiglio per le Politiche Monetarie, facendo inviperire il governatore della banca centrale, Andras Simor, che si è visto tagliare del 75% la principesca retribuzione di 8 milioni di fiorini mensili (circa 27.000 euro, 40 volte il salario medio di un lavoratore ungherese) ed ha iniziato per questo ad urlare alla lesa indipendenza dell’istituzione bancaria. Anziché infierire su chi produce ricchezza materiale per il paese, come fanno tutti i governi perbene, il governo ungherese ha ridotto di 9 punti (dal 19 al 10%) la tassazione per le aziende con un fatturato annuo inferiore ai 500 milioni di fiorini (1,7 milioni di euro), per di più con effetto retroattivo al 1° luglio. Si è spinto fino al punto di vietare i mutui in valuta straniera (euro e franchi svizzeri) che facevano concorrenza ai mutui in valuta nazionale, creavano un’impennata del debito verso l’estero e incrementavano l’esposizione del mercato immobiliare interno all’alea dei rapporti di cambio valutario.

Tutto questo ha l’aspetto inquietante di qualcosa di cui in Europa non si sentiva più da tempo né l’odore né il sapore: sovranità nazionale! Politiche elaborate nell’interesse della crescita del paese anziché per compiacere i potentati bancari internazionali! Deficit ripianati sottraendo risorse alle improduttive e velenose attività finanziarie anziché ai servizi e alla ricchezza reale della nazione. Di questo passo il governo ungherese potrebbe prima o poi mettersi in testa, che so, di progettare una propria politica del lavoro, adottare programmi pensionistici potenziati, perfino stampare esso stesso moneta anziché prenderla a prestito dalla banca centrale! E facendo questo, potrebbe fungere da esempio per altri paesi della prigione monetaria europea, che pretenderebbero di adottare gli stessi sistemi! Dove andremo a finire, signora mia?

Per questo motivo, i secondini del carcere comunitario sono corsi immediatamente ai ripari. Dapprima hanno scatenato le opportune campagne di stampa antiungheresi sugli appositi organi d’informazione economica del regime, facendo strepitare ad insigni editorialisti apocalittiche previsioni su crolli degli investimenti e blocco della crescita (crescita di che??). La BCE si è mostrata fortemente risentita per la temerarietà con cui le decisioni sul tetto ai salari dei banchieri sono state prese senza prima attendere il suo ponderato parere, che sarebbe stato ovviamente del tutto spassionato e scevro da qualsivoglia sospetto di connivenza con gli omologhi della BNU. Andras Simor, disponendosi eroicamente al martirio, ha minacciato le proprie dimissioni da governatore della BNU, prospettiva dinanzi alla quale il governo di Orban non ha palesato eccessiva disperazione. Il capo dell’austriaca Raiffeisenzentralbank (RZB), Walter Rothensteiner (chissà perché tutti i banchieri hanno cognomi così?), ha avvertito a denti stretti che “l’Ungheria sta giocando col fuoco”, sottolineando il proprio disappunto nei confronti di un paese così folle da tassare i propri istituti bancari anziché tappare le loro falle con il denaro dei cittadini. Come si può fare una cosa così brutta? Perché gli ungheresi non prendono esempio dall’Austria, che nel solo 2009 ha regalato alle sue banche 6 miliardi di euro per colmare i loro crateri di bilancio e naturalmente non ha intenzione di fermarsi qui? Rothensteiner ha “consigliato” alle banche ungheresi di recuperare il denaro della tassazione imponendo ai loro clienti costi di gestione più alti e altri oneri vari ed eventuali. Gli ha fatto eco Wilibald Cernko, amministratore delegato di Bank Austria, minacciando tra i 5.000 e i 10.000 licenziamenti nel settore della finanza austriaca. Il FMI, per bocca del suo direttore Strass Khan, ha minacciato di congelare il prestito di oltre 20 miliardi di euro con cui si proponeva di “aiutare” la nazione magiara a ripianare i propri debiti, in cambio della prona accettazione dei regolamenti comunitari – che equivalgono, come noi tutti dovremmo ormai aver capito, ad una completa e definitiva rinuncia ad ogni forma di sovranità nazionale. Alla fine, non riuscendo ad ottenere alcuna marcia indietro, il FMI e l’UE hanno diramato un comunicato stampa in cui notificavano all’universo mondo di aver rotto ogni trattativa col governo di Budapest poiché quest’ultimo avrebbe rinunciato a rispettare i programmi d’austerità promessi negli accordi. Cosa non vera, come si è visto, dato che le misure adottate dal governo Orban potrebbero risanare i deficit di bilancio molto più efficacemente di qualunque forma di prestito a strozzo offerta dal FMI.

Chissà se questo accerchiamento riuscirà a far desistere il governo ungherese dai propri più che auspicabili propositi? Va tenuto presente che l’Ungheria è fra i paesi dell’ex oltrecortina quello che tradizionalmente destina le più ampie risorse all’investimento nel settore pubblico e nei servizi, e questo non solo per il suo passato socialista, ma perché i governi, dovendo tenere a freno la disoccupazione e la destabilizzazione economica esplose dopo l’apertura al capitalismo, hanno ritenuto opportuno potenziare la domanda interna con appropriati interventi dello stato e sopperire con il lavoro nelle amministrazioni pubbliche all’assenza di livelli occupazionali accettabili nel privato. Le misure “lacrime e sangue” che i governi hanno dovuto imporre negli ultimi cinque anni per entrare di diritto nell’esclusivo club europeo sono dunque non solo malviste dagli elettori, ma anche estranee ad una tradizione di forte presenza dello Stato nella vita quotidiana che gli ungheresi non sono preparati ad abbandonare; soprattutto se la rinuncia non comporta altro che un trasferimento di risorse dal parassitismo burocratico di stato al vampirismo finanziario delle istituzioni bancarie, mille volte più voraci e prepotenti delle antiche istituzioni socialiste, mille volte più inefficienti e incapaci di garantire ai cittadini, in cambio dei sacrifici senza fine a cui li costringono, altro che sacrifici ed indebitamento ulteriore.

 

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