DI FRANCO BERARDI "BIFO"
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Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economist naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e per fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficile capire perché si debba salvare un’industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitano coraggioso.
Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui si distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva. E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita per indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalla super-produzione dell’inutile. Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo. Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute. Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente? Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea. Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.

Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100815/pagina/10/pezzo/284820/"