DI
EDWARD LEWIS
CounterPunch
Michael Neumann è Professore di Filosofia alla Trent University, Canada. È da sempre un acuto critico della politica di Israele nei confronti dei palestinesi, e ha scritto molto sull’argomento per conto di CounterPunch, famoso il suo libro The Case Against Israel (Il caso contro Israele, ndt.).
Lei è critico nei confronti del principio di autodeterminazione dei popoli: del fatto che ogni nazione dovrebbe essere in grado di costituire una comunità politica indipendente. Quest’idea è tuttora uno dei più importanti fondamenti morali sul quale si basa il supporto all’indipendenza palestinese. Perché è contrario all’idea di autodeterminazione dei popoli? Su quali basi alternative si fonda il suo supporto alle rivendicazioni palestinesi di uno stato proprio?
“Ogni nazione dovrebbe essere in grado di costituire una comunità politica indipendente”?: questa espressione contiene una pericolosa ambiguità.
Se ‘nazione’ vuol dire ‘chiunque si trovi a vivere in un determinato paese collocato in una determinata area geografica’ – a proposito della tua seconda domanda sui confini – allora non sono contrario a questo principio. Lo sostengo moderatamente. Già, il potere politico dovrebbe fondamentalmente risiedere nelle mani del ‘popolo’ – ecco un’altra espressione pericolosamente ambigua – nel senso di ogni persona che risieda in quell’area. Ciò basterebbe da solo a giustificare l’esistenza di uno stato palestinese – maledizione! Quei poveracci vivono lì. E per dirla tutta, ogni persona che risieda in Palestina dovrebbe avere il potere dello stato che la governa. E in definitiva, ciò giustificherebbe la soluzione di uno stato binazionale o di uno stato unico o di due stati al conflitto Israele / Palestina.
L’argomentazione non è inattaccabile perché non tutti gli atti di autodeterminazione sono legittimi. Se tu – individuo o nazione – sei libero e sei artefice del tuo futuro, dipende da te la scelta del bene o del male. Potresti anche essere la causa di danni irreparabili a te stesso. La migliore argomentazione a sostegno di uno stato palestinese è molto più semplice. Sembra che gli israeliani giochino a minacciare i palestinesi, e questo deve finire. Non c’è bisogno di addentrarsi nelle complessità dell’autodeterminazione. Il diritto di non essere vittime del gioco della minaccia è un argomento maggiormente fondato ed è decisamente sufficiente in questo contesto. Sul perché io sia critico nei confronti del “principio di autodeterminazione”, ciò dipende dal fatto che i termini ‘nazione’ o ‘popolo’ vengono costantemente usati col significato di ‘gruppo etnico’. Così interpretato, il ‘principio di autodeterminazione’ è uno degli ideali più distruttivi mai sviluppati.
Dovremmo supporre che ci sia una popolazione etnicamente omogenea su un qualche pianeta, e che i membri di questa popolazione vogliano la stessa cosa. Che i loro interessi non vadano mai a urtare con gli interessi di altre popolazioni sul pianeta – forse su quel pianeta non esiste nessun altra popolazione. Dovrebbero essere in grado di determinare il ‘loro destino’? Può darsi, perché no – finché optino per il bene e non per il male.
Sul nostro pianeta, ogni volta che emerge il clamore per l’autodeterminazione etnica, è qualcosa di vergognoso, e di spudoratamente finto. I gruppi etnici in questione non sono quasi mai ben definiti e monolitici: non tutti i membri del gruppo hanno gli stessi interessi. Quel che in realtà succede è che ci sono dei ‘leader della comunità’ che sono degli impostori che non fanno altro che vomitare sulla gente ogni sorta di menzogna su quanto sia importante per loro la propria ‘identità’. Questi millantatori sostengono che la loro identità così vitale necessiti di qualcuno che la ‘preservi’. Per quanto possa sembrare strano a gente così avvezza alla spiritualità, preservare questa identità di solito richiede qualcosa di assolutamente materiale, come un pugno di terra, o un mazzo di banconote del governo. Di fatto la loro identità non è poi così importante. La abbandonerebbero prontamente pur di preservare il mignolo della loro mano sinistra. Non siamo più contadinotti semplici che non hanno mai sentito parlare di Michael Jackson o di internet. Chiunque sia abbastanza evoluto da esigere l’autodeterminazione per preservare la propria identità etnica finisce per non avere più un’identità del genere. Stanno orchestrando il miglior tipo di truffa, l’unica in cui il truffatore crede nelle proprie stronzate.
Quel che è peggio, va sempre a finire che dovunque questo ‘popolo’ abbia bisogno di determinarsi, ci sono anche altre genti che vivono lì. E che ne è di loro? Il loro ‘destino’ non è compatibile con il ‘destino’ del ‘popolo’ che si autodetermina. E tutti noi sappiamo bene come si sviluppa il gioco. Come abbiamo fatto a credere che un governo etnico fosse accettabile? L’autodeterminazione non costituirebbe affatto una motivazione forte per l’indipendenza palestinese. I palestinesi sono una ‘nazione’ in senso etnico? Ebbene, cos’è successo al loro essere arabi e al nazionalismo arabo? Cos’è successo all’intera regione, la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina, che una volta venivano chiamati semplicemente ‘Siria’? Non c’è niente di più reale dei palestinesi che abitano la Palestina. Ma quando li si astrae in una ‘nazione’, la loro argomentazione per l’indipendenza diventa più debole, non più forte, forse non falsa come l’argomentazione sionista, ma difficilmente convincente.
Più in generale, quale principio dovrebbe regolare dove devono essere tracciati i confini degli stati, se non quello dell’autodeterminazione?
Si dovrebbe essere consapevoli del fatto di avere troppi principi: essi tendono a entrare in conflitto l’uno con l’altro. Se viene tracciato un confine, è stata una persona o un gruppo di persone a farlo. Tracciare un confine è un’azione. Se e dove devi tracciarlo è qualcosa che è soggetto a quegli stessi identici principi morali che si utilizzano in generale per agire. Se si traccia la linea lì, essa non causerà a quegli altri individui laggiù grandi sofferenze? Produrrà uno stato duraturo? Porterà alla guerra? Si deve osservare ogni singolo caso, e ogni singola conseguenza delle proprie azioni. Ci sono principi generali che governano le azioni, forse – “non causare inutili sofferenze” ne è uno popolare – ma non principi specifici per il disegno dei confini.
Lei dimostra che i dibattiti sulla legittimità della creazione di Israele sono politicamente irrilevanti, e lo sono da un po’ di tempo. Perché? Pensa anche che non sia più pertinente discutere i meriti del Sionismo?
I dibattiti sulla legittimità della creazione di Israele sono politicamente irrilevanti perché non rivelano nessun attuale problema politico. Non sono sicuro del fatto che ogni stato contemporaneo sia legittimo. Prima di tutto perché non c’è un chiaro standard di legittimità. Tradizionalmente, la legittimità dello stato ha a che fare con la sua relazione con i suoi cittadini, non con i non-cittadini. Oggi, i diritti dei non-cittadini sono considerati di cruciale importanza. Includere questi diritti significa mettere un ostacolo, non impossibile da superare, ma persino troppo alto per rendere gli stati attuali legittimi. Ora, molte ingiustizie non fanno una sola cosa giusta, ma rendono vana ogni insistenza su quella cosa giusta. A nessuno converrà mai insistere sul fatto che Israele sia – Dio mio – legittimo.
Cosa più importante, non c’è niente che depone a favore della legittimità di uno stato. I nostri giudizi finali su un comportamento sono di tipo morale. Uno stato che si è stabilito legittimamente non ha bisogno dell’autorizzazione per fare tutto quel che vuole. Se commette crimini orribili, forse deve essere soppresso. Anche se non lo fa, ci potrebbe essere di certo una ragione per ridisegnare i suoi confini ‘legittimamente stabiliti’. Viceversa, uno stato illegittimo che fa grandi cose ha, in definitiva, un presunto ‘diritto a esistere’, un diritto più forte di un qualche stato legittimamente stabilito, ma cattivo.
Dato il suo approccio essenzialmente pragmatico al luogo in cui i confini di stato andrebbero tracciati, vorrei sapere qual è la sua posizione all’interno del dibattito circa l’eventualità dell’esistenza di uno o due stati nella Palestina storica. Spesso gli argomenti a favore dell’una o dell’altra posizione sono essi stessi posti in termini di considerazioni pragmatiche: i sostenitori della soluzione dei due stati dichiarano che questa è di gran lunga più verosimile dal punto di vista politico, dato il consenso internazionale a suo favore. Dall’altro lato, i sostenitori della soluzione dello stato unico tendono a sostenere che l’occupazione della West Bank sia ad oggi così trincerata che una ritirata totale di Israele non sia più praticamente possibile. Come interpreta argomenti di questo tipo e, più in generale, il dibattito ‘uno stato-due stati’?
Trovo difficile prendere sul serio questi argomenti. Uno stato unico non è un opzione reale. Israele non se lo sognerebbe mai, e nessuno eliminerà Israele dalla carta geografica.
Per quanto riguarda l’occupazione che è ‘troppo trincerata’, questo è un nonsenso – spero sia per lo meno un nonsenso sincero, non una bassa difesa de facto degli accordi. Uno sguardo a ciò che è accaduto in Sudafrica, in Rhodesia, o in particolar modo in Algeria lo dimostra. I Pieds-Noirs algerini, i colonizzatori, hanno giurato e spergiurato che avrebbero difeso la loro ‘patria’ fino all’ultima goccia di sangue. Alla fine, hanno ceduto. I Pieds-Noirs erano di gran lunga più trincerati dei coloni israeliani, ed erano lì da molto più tempo.
È una sua opinione che la chiave per la soluzione del conflitto sta né più né meno nella ritirata d’Israele dai Territori Occupati unilateralmente? C’è inoltre una necessità di negoziazioni che determinino la fine del conflitto?
Di certo non ho mai capito perché nessuno pensi che debbano esserci delle negoziazioni. Che Israele abbandoni ogni forma di controllo sui territori occupati e ritiri tutte le sue forze. I coloni possono andare con loro, o essere lasciati al loro destino.
Lei ha argomentato in difesa della violenza dei palestinesi in resistenza a Israele. Qual è la struttura morale all’interno della quale pensa che una violenza di questo tipo andrebbe valutata?
Non è necessaria una vera e propria struttura. Il diritto dei palestinesi a una resistenza violenta deriva da ciò che potrebbe essere il più largamente accettato fra tutti i principi morali, il diritto all’autodifesa.
Il progetto sionista ha sempre costituito una minaccia reale per i palestinesi. Il Sionismo parte dal presupposto che gli ebrei, definiti come gruppo di tipo razziale o consanguineo, dovrebbe avere la sovranità su ogni persona che si trovi sotto il controllo del loro stato. La sovranità comprende, in ogni definizione convenzionale della nozione, il potere di vita e di morte: l’autorità estrema da cui il governo dipende decide chi vive e chi muore. Si pensa di solito che una sovranità legittima sia una sovranità popolare: il potere degli abitanti dell’area governata. Israele esercita una sovranità basata sulla razza o sulla consanguineità, una questione un po’ differente: se non appartieni al gruppo razziale o consanguineo al governo, non hai voce su come il potere letteralmente fatale del governo debba essere esercitato. Così un gruppo a cui non appartieni ha il potere di vita o di morte su di te. Il che, di certo, costituisce una minaccia mortale.
Forse in alcune circostanze teoricamente possibili, questa minaccia non deve essere presa sul serio – anche se sarebbe così per coloro che sono costretti a decidere sotto minaccia. Nel caso di Israele, la questione è piuttosto chiara. Il Sionismo estremo, sempre autorevole in Israele, ha esplicitamente difeso masse di assassini di palestinesi, e citato a propria difesa precedenti biblici. Anche il meno estremo e molto diffuso appoggio all’espulsione di massa è una vera e propria minaccia mortale. I palestinesi sono morti a migliaia sia in Giordania che in Libano, le due probabili destinazioni per gli espulsi.
I palestinesi sono dunque in una situazione in cui ogni persona ragionevole percepirebbe una minaccia mortale. Alle minacce mortali ci si potrebbe opporre con la violenza. Questo è fortemente controverso. Se sei tenuto prigioniero da una banda, di cui alcuni membri parlano di ucciderti, hai il sacrosanto diritto di resistere con la violenza.
Lei sostiene che il supporto americano a Israele non sia effettivamente funzionale agli interessi degli USA, e che sia una conseguenza dell’età della Guerra Fredda. Sembra significativo che risorse così consistenti debbano essere sprecate in una politica che è fondamentalmente irrazionale. Non c’è davvero nessun vantaggio per gli USA ad avere uno stato satellite così potente nella regione prima produttrice al mondo di petrolio?
Non vedo nessun vantaggio per gli Stati Uniti ad avere uno stato satellite così potente che si opponga a ogni produttore di petrolio in quella regione. Se gli Stati Uniti vogliono minacciare quei produttori, hanno un potere militare più che sufficiente per farlo. Non hanno bisogno che sia Israele ad agire per loro. Inoltre Israele non è più uno stato satellite ma un cane pericolosamente sciolto.
Alcuni si chiedono se gli Stati Uniti possano davvero essere tanto irrazionali da mantenere una politica sfacciatamente controproducente. Vorrei sapere quando, negli scorsi decenni, gli Stati Uniti non lo hanno fatto. Vorrei anche ricordare che in quell’occasione gli scettici cambiarono parere. Non è chiaro se il supporto a Israele sia sempre o no negli interessi statunitensi, ma perlomeno così sembrava fino al declino dell’influenza sovietica in Medio Oriente. Fino ad allora, Israele avrebbe potuto essere un utile delegato per le operazioni anti-sovietiche. Ma a partire da quel momento, Israele non è stato altro che un costoso vincolo. Si tratta, dopo tutto, di un paese che doveva essere protetto mentre faceva parte delle linee laterali nella prima Guerra del Golfo – mentre anche la Siria combatteva dalla parte degli Stati Uniti. Ormai gli aiuti di Israele forniscono agli Stati Uniti un’accurata tecnologia militare, ma niente che gli USA non possano produrre da soli o in collaborazione con gli alleati NATO. L’alleanza viene mantenuta principalmente da idee fisse inculcate durante l’età della Guerra Fredda: Israele faro della democrazia, coraggioso piccolo Israele, Israele la vittima, Israele Monumento dell’Olocausto.
Penso che il peggiore svantaggio nel supportare Israele sia quello più sottile. Per quasi tutto il mondo, il supporto degli Stati Uniti a Israele non è semplicemente sbagliato, ma palesemente irrazionale. Stati irrazionali, di certo, fanno cattive alleanze. L’alleanza degli USA con Israele indica che l’America è fuori di testa, inaffidabile, forse stupida. Da un punto di vista imperiale razionale è una cosa assolutamente negativa quando si cerca di forgiare di fatto alleanze utili.
Secondo lei ci sono delle ragioni per guardare con speranza una situazione che è diventata tanto grave? Ha qualche consiglio strategico o tattico per coloro che aderiscono alle campagne di solidarietà palestinese in Occidente?
Certo, ci sono molte speranze. E risiedono nelle forze delle regioni che si oppongono a Israele. Queste forze diventano sempre più potenti, come dimostra la guerra del Libano del 2006. Israele, come il Sudafrica, potrebbe iniziare a vedere le scritte sul muro e fare la pace. Se e quando, non saprei dire.
Per quanto riguarda i movimenti pro-Palestina in Occidente, no, non ho nessun consiglio per loro. Le campagne di boicottaggio per lo meno avranno un effetto sulla morale israeliana, così come l’hanno avuto i boicottaggi contro l’apartheid in Sudafrica. Queste campagne avranno buoni risultati. Oltre a questo, c’è poco da fare. I palestinesi hanno già vinto la battaglia dell’opinione pubblica in Occidente – solo l’adesione formale dei governi occidentali e il rumore di sapientoni mediatici obsoleti mascherano ciò.
Sfortunatamente, vincere questa battaglia serve a poco, perché ormai Israele è così forte da poter fare a meno del supporto occidentale. Inoltre, ai governi occidentali non interessa l’opinione pubblica su Israele; non è un tipo di problema di vitale importanza a cui ci si interesserà in tempi di elezioni. Questo perché il sentimentalismo e l’inerzia giocano un ruolo tanto importante nella non-risposta dell’Occidente al conflitto Israele/Palestina. Una delle virtù delle campagne di boicottaggio è che non si preoccupano di rivolgersi ai governi occidentali. Ha molto più senso esercitare pressioni direttamente su Israele e, se possibile, trovare dei modi per aiutare i suoi vicini.
Solo i popoli del Medio Oriente possono portare Israele alla ritirata – non l’Occidente, e non le Nazioni Unite, i cui sforzi sono stati bloccati dai governi occidentali e coperti dal disprezzo di Israele. Il meglio che possiamo sperare è che l’Occidente si convinca a dare ai vicini mediorientali di Israele un aiuto più consistente nel decidere come far fronte alla situazione. Questo comprende una politica imparziale sulla proliferazione nucleare. Se Israele non si disarma, gli altri paesi del Medio Oriente si dovrebbero sentire liberi di sviluppare da sé armi nucleari.
Titolo originale: "Israel / Palestine: What Really Matters and What Doesn’t "
Fonte: http://www.counterpunch.org
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Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di STELLA SACCHINI