DI

CLAUDIO MOFFA
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I confini labili del diritto internazionale
L’intervento armato in Libia è stato autorizzato dalle Nazioni Unite; è dunque legittimo; l’Italia non è coinvolta in una guerra: questo strano sillogismo – anzi più che sillogismo per alcuni è un dogma – non solo non corrisponde a tutto quello che in questi giorni la gente ha potuto vedere a, ma inoltre non regge dal punto di vista dei principi del diritto internazionale. Beninteso, il diritto internazionale è sempre stato basato da Grotius in poi su concreti rapporti di forza dai confini labili, e nello stesso tempo l’invenzione di una cosiddetta no fly zone ha alle spalle una consolidata tradizione operativa da parte delle Nazioni Unite che dura da un ventennio. Eppure in frangenti cruciali come questo, che rischiano di ferire a morte il nostro paese dal punto di vista energetico e migratorio, e di scatenare una conflittualità sempre più estesa provocata da reazioni a catena dallo strappo libico, è opportuno riflettere su tutto quel che non quadra con il sopracitato sillogismo.
Il primo strappo di Sarkozy: via all’azione militare mentre la riunione di Parigi era in corso Primo punto, l’avvio concreto dell’azione militare. Secondo la ricostruzione del TG1 di qualche giorno fa – e secondo le cronache in diretta nelle ore di svolgimento del vertice di Parigi – la no-fly zone ha preso il via concreto per iniziativa dell’aviazione francese, quando ancora la riunione convocata in tutta fretta da Sarkozy era in corso: mai visto in tutta la storia delle Nazioni Unite che uno Stato prendesse solitariamente una decisione operativa imponendo il fatto compiuto ai partners invitati per definire e implementare con un atto collegiale una risoluzione varata dal Consiglio di Sicurezza, e nel corso della riunione collegiale stessa. E’ un atto di banditismo internazionale quello compiuto dal Presidente francese, che ha creato un precedente per una gestione successiva della stessa crisi sulla base del fatto compiuto, ultronea rispetto al dettato delle risoluzioni 1970 e 1973: tesa cioè, come da reiterate dichiarazioni di alcuni anche in Italia, a trasformare nei fatti la no fly zone in una guerra d’aggressione contro un paese sovrano, finalizzata non a proteggere i civili ma all’ annientamento del regime di Gheddafi, e chissà, “magari” di Gheddafi stesso.
La no fly zone libica e quella irachena del 1991
Secondo punto: questo spiega la dilagante ribellione al comportamento franco-anglo-americano di attori importanti della crisi, che pure si erano convinti ad accettare o a astenersi sul via libera del Consiglio di Sicurezza: dopo il no cruciale della Germania, l’ Unione africana – un intero continente – la Lega araba, la Russia (vedi la ritrovata uità di intenti tra Medvedev e Putin), e più in sordina la Cina; e poi la Norvegia e le riserve della Turchia membro della NATO e allo stesso tempo in buoni rapporti con altri paesi critici verso la guerra, come il Venezuela il Sudafrica lo Zimbabwe.
Questo fatto deve far riflettere sui limiti e le ambiguità della no fly zone. Quando nel 1991 venne per la prima volta istituita in Iraq, essa venne limitata alle peraltro ampie regioni sciita meridionale e curda settentrionale dove il gravoso dopoguerra aveva lasciato sacche di ribellioni antiSaddam. Ovviamente nel clima di quei mesi, alimentato dai soliti mass media “finanziari” che ingigantivano e inventavano stragi e relativi numeri – esattamente come hanno fatto nei primi giorni della crisi libica – ci furono iniziative di bombardamento a terra da parte degli “Alleati”, ma in genere in risposta a spari delle contraeree irachene locali: mai dunque in modo massiccio come in questi giorni in Libia; mai contro la regione priva di insorgenze, quella sunnita di Bagdad, sede dell’allora governo, quello di Saddam Hussein:; mai soprattutto a Bagdad, perché la guerra era stata dichiarata finita dopo che Bush senior aveva stoppato il generale Schwarkopf mentre marciava verso la capitale irachena con il suo esercito di terra.
In Libia, lo strappo parigino di Sarkozy ha aperto una catena di strappi ulteriori che rischiano di incendiare – fra missili, rischio terrorismo e immigrazione – tutta la prateria euro mediterranea: gli aerei franco-britannici non hanno pattugliato solo i cieli delle regioni sedi effettive di insorgenza, ma qui è là in tutto il paese, compresa Tripoli, compreso il compound di Gheddafi, conciostesso schierandosi militarmente a fianco dei ribelli in armi.
Il conflitto tra Bengasi e Tripoli è un affare interno della Libia
Questo fatto – ecco il terzo punto – è gravissimo. Il conflitto tra Bengasi e Tripoli è una crisi interna alla Libia, paese sovrano e unito al di là dei regimi che lo rappresentano alle Nazioni Unite. Queste, per quasi mezzo secolo, dalla fondazione del 1945 fino alla fine del bipolarismo hanno sostanzialmente rispettato la teoria del “dominio riservato” degli Stati sovrani – l’interdizione cioè a Stati e enti stranieri di intervenire sul territorio di un altro Stato membro delle Nazioni Unite. Si possono ritenere non esaustivi o corretti questi criteri e prassi, ma è quel che qui rileva è che prima della fine del bipolarismo, l’ONU – fatte salve le eccezioni “ampie” e consustanziali allo spirito stesso della Carta di san Francisco, delle Colonie e e dei regimi razzisti del Sudafrica e e della Rhodesia – non solo non ha mai preso parte a conflitti interni ai suoi Stati membri, ma anzi ha spesso preso esplicita posizione a favore del governo centrale: dal rifiuto di interferire nella guerra civile greca (1947), alla rigorosa neutralità sulla guerra del Kashmir tra India e Pakistan (1948), via via fino al sostegno al governo di Lagos di fronte al drammatico tentativo degli Ibo del Biafra di separarsi dalla Nigeria (1965) o alla condanna netta del “Fronte di liberazione della Guinea” che nel 1970 aveva cercato di rovesciare Sekou Touré (risoluzione 282/70 che “esige” “il ritiro immediato” dei ribelli. Le Nazioni Unite insomma hanno sempre condiviso il principio contenuto nell’articolo 2 della sua Carta, di non ingerenza negli affari interni di un paese indipendente. Eppure il mondo dei due blocchi Est Ovest era lo “stesso” di oggi, con scenari simili a quelli delle tante crisi mediorientali e africane dell’attuale secolo: corruzione, repressione di minoranze, regimi autoritari fino alla dittatura, guerre civili e/o tribali.
Ma la rigidità delle regole era necessaria: il problema era evitare la logica della “legge della giungla”. Forse il caso più emblematico da questo punto di vista è quello del Congo-Zaire, paese multietnico di un continente multietnico, dove i conflitti intestini sono sempre stati numerosi e spesso ad alta conflittualità reciproca: nella guerra civile degli anni Sessanta –ben più truce e drammatica di quella attuale libica – l’opzione delle Nazioni unite fu di contrarietà netta alle “azioni che possano minacciare l’integrità nazionale e l’indipendenza del Congo” (risoluzione 145/1960) e di rifiuto di intervento: “la Forza ONU nel Congo non sarà parte di alcun conflitto interno, costituzionale o di altro tipo, … essa non interverrà in alcun modo in tale conflitto, né sarà utilizzata per influenzarne l’esito” (ris. 146).[1] Come dire, l’ONU può intervenire ai sensi del capitolo VII della sua Carta, ma non entro gli Stati, ma tra gli Stati. E la concezione classica del Diritto internazionale che si invera nei rapporti interstatuali ma non può riguardare quelli intrastatuali, gli Stati essendo intesi come bocce di biliardo impenetrabili secondo la nota immagine usata spesso dai giuristi internazionalisti.
I “nuovi” principi giuridici della svolta postbipolare
Si dirà, da un punto di vista più “pratico” che prettamente giuridico che la guerra attuale “non può” essere letta con criteri vetusti, che pure hanno avuto il merito di evitare per decenni derive belliche come quelle affermatesi nelle tante e gravissime guerre postbipolari degli ultimi vent’anni. “Non si può” perché il mondo è cambiato, perché a partire dalle concomitanti crisi-guerre del 1991 in Irak e in Jugoslavia, il diritto internazionale nato con la Carta di San Francisco e consolidatosi per quasi mezzo secolo ha subito degli scossoni notevoli, registrati dalle scuole giuridico-internazionaliste o in forma altamente critica – in Italia Aranjo Ruiz, in Francia Monique Chemillier-Gendreau – o in forma positiva – è il caso di certe nuove tendenze teoriche negli USA, il cui diritto internazionale viene assunto come cangiante (ma che diritto è?) perché se ne accetta la quasi meccanica dipendenza dai nuovi rapporti di forza internazionali degli anni Novanta: Sono gli anni della “scomparsa” non solo dell’URSS ma anche della Russia dallo scenario internazionale, gli anni della Mosca non più di Gorbaciov ma di Eltisn. Il Diritto internazionale si piega al monopolarismo, nel caso specifico: e non per demonizzazione aprioristica, USA.
Al di là di queste teorie, ecco comunque che nella pratica si affermano nuovi principi-categorie: come una nuova lettura del principio di autodecisione nazionale non più rigidamente ancorato come nella fase della decolonizzazione al solo mondo coloniale [2] , ma supporto “giuridico” di tante insorgenze secessioniste dagli anni Novanta ad oggi negli Stati sovranui membri delle Nazioni Unite: in primis la Jugoslavia, che si disgrega sotto i colpi di frettolose indipendenze apparentemente tali– in realtà gli staterelli post-titoisti contano assai meno nel consesso internazionale di quanto accadeva nella cornice unitaria panjugoslava : e non c’entra qui il carattere socialista del regime di Tito – e apparentemente liberatorie: ma in realtà foriere di massacri senza fine e dunque di odi interetnici destinati a durare per lungo tempo.
I problemi e le pericolose ambiguità del “diritto di ingerenza umanitaria”
O come il “diritto di ingerenza umanitaria”, chiave di volta per permettere a una comunità internazionale senza più equilibri veri, di sfondare le sovranità degli Stati esistenti, non tutti ma attraverso una selezione di fatto sempre e quegli Stati scomodi del mondo con cui peraltro l’Italia – nella scia della grande tradizione euro mediterranea e terzomondista (nel senso migliore di un termine giustamente usato per condannare certa superficialità “buonista” di sinistra o cattolica) di Mattei e dei suoi successori – ha avuto sempre buoni rapporti quanto meno commerciali: l’Iraq, la Jugoslavia, la Somalia e adesso la Libia. Ovviamente i motivi umanitari possono ben esistere e alle volte esistono davvero, ma – con uno sguardo rivolto anche a quel pensano altri paesi che pesano ormai molto di più che negli anni Novanta: la Russia del discorso di Monaco di Putin del marzo 2008, i nuovi paesi emergenti del Medio Oriente, America Latina e Africa – bisogna fare su tale diritto, che piace anche a sinistra [3] , quattro considerazioni:
1) La prima è che nei fatti e non per principio, il diritto di ingerenza umanitaria è è stato applicato a senso unico solo ai nemici di certo oltranzismo occidentale, che pure con le centinaia di migliaia di morti in Iraq o nel Congo occidentale occupato dal Ruanda di Kagame, è ben passibile di essere accusato di “crimini contro l’umanità “: per q uesta sua applicazione selettiva di fatto, è un principio sostanzialmente colonialista. Contro la lettura buonista e superficiale del terzomondismo, che pensa che tutti gli oppositori al colonialismo erano “buoni”, anche il colonialismo – fenomeno complesso, che ha modernizzato sia pure con l’occhio rivolto ai propri interessi strategici, i paesi conquistati: ha costruite strade e ferrovie, ha introdotto nuove tecniche agricole – aveva i suoi motivi di ingerenza umanitaria: ne valga solo uno, la tratta degli schiavi in Africa orientale che perdurava anche dopo la sua bolizione sulla costa occidentale, gestita da trafficanti arabi criminali e senza scrupoli. Il Sudan di Comboni e di Gordon lo sa bene.
2) La seconda è che un diritto di ingerenza umanitaria negli Stati sovrani, vero e fondato in modo giuridicamente corretto, presuppone un “governo mondiale” effettivo dal punto di vista istituzionale, con regole precise: un governo mondiale esiste, ma è quello assolutamente incontrollato della grande finanza internazionale e delle sue associazioni “informali” (la più noto è la Commissione Trilaterale), che secondo alcuni starebbe dietro a tutte indistintamente le rivolte mediorientali. Non certo corrisponde, il “governo mondiale”, alla “comunità internazionale” e al Consiglio di Sicurezza di una ONU di cui invano si perora da decenni ormai una riforma: una “comunità internazionale” che peraltro agisce quasi sempre sotto l’effetto del martellamento mediatico dei grandi pool editoriali lobbistici di estensione planetaria.
3) Il terzo punto è proprio questo: il ruolo dei mass media nel condizionare se non determinare di volta in volta scelte disastrose con invenzioni accurate di neologismi (dagli “Alleati” di antinazista memoria nella prima guerra contro l’Iraq fino all’incredibile e ridicolo – se non fosse tragico – “Volenterosi” della guerra contro la Libia), ma soprattutto con invenzioni e esagerazioni di fatti. Dalla Ruder & Finn ingaggiata in Jugoslavia per far passare sui grandi media l’equazione pietosa Milosevic = Hitler, alle stragi inesistenti dei primi giorni della rivolta (peraltro armata) libica, l’analisi e connesse dichiarazioni richiederebbero troppo tempo. Si può solo dire telegraficamente questo: che, il ruolo del Mass media lobbisti nelle guerre e crisi postbipolari è stato ed è esattamente lo stesso del ruolo della stampa lobbista italiana nel colpo di stato di Tangentopoli dei primi anni Novanta. Occorrerebbe reagire, al di là delle distinzioni di campo, in quanto ceto politico orgoglioso (sarò ingenuo, ma la speranza è l’ultima a morire) della propria indipendenza e autonomia.
Anche lasciando perdere il passato, la guerra di Sarkozy è illegittima
Quanto detto nel paragrafo precedente non riguarda però il “qui e ora” della illegittimità della guerra scatenata da Sarkozy quattro giorni fa. Esso serve sì a riflettere che l’insistenza di Gheddafi a non accettare il cessate il fuoco al di là se gli convenga o no, non ha nulla di assurdo ma ha fondamento giuridico: nasce cioè dalla convinzione, che è nella lettera della Carta dell’ONU, che i bombardamenti dei Volenterosi e la sua azione bellica quanto meno terrestre, contro i rivoltosi, non sono atti equiparabili. La (non) no fly zone, così come implementata e “guidata” da Sarkozy, è illegittima per quanto detto finora; la reazione gheddafista a un tentativo di rivolta armata è invece legittima, e rientra nei canoni classici delle Nazioni Unite, prassi compresa fino alla fine del bipolarismo. La guerra di Libia inoltre, è sì una cartina di tornasole – come dimostrano le contraddizioni subito emerse nella coalizione, con lo sbando sul problema della direzione dell’azione diimplemenntazione della cosiddetta “no fly zone” – per una riflessione generale sulla crisi del Diritto internazionale postbipolare. Ma in questi giorni drammatici, quel che conta ai fini di una denuncia dell’illegittimità dell’intera operazione Libia sono quattro elementi di cui abbiamo già parlato: 1) i testi delle due risoluzioni 1790, 1793; 2) l’avvio pratico della guerra attraverso un atto di banditismo internazionale di Sarkozy durante la riunione di Parigi; 3) le modalità successive di presunta applicazione dei dettami stessi delle due Risoluzioni da parte dei cosidetti Volenterosi; 4) il tutto preceduto da una lettura corretta, come fondamento di ogni decisione giuridico-internazionalista, degli avvenimenti in Libia, a cominciare dall’avvio della ribellione bengasina;
Quest’ultimo punto è essenziale per riportare ordine e correttezza – dopo le critiche della vasta schiera di paesi e Organismi regionali contro quel che sta accadendo in Libia, ben oltre le zone di insorgenza – dentro lo stesso Consiglio di Sicurezza: una risoluzione dell’ONU che si basi su quel che raccontano le grandi catene mediatiche lobbiste e i loro megafoni (ivi compresa la stupefacente Al jazira), è l’analogo di una richiesta di rinvio a giudizio sulla base di una ”indagine” su un assassinio in un piccolo paese, svolta da un Maigret cialtrone che come unico atto della sua inchiesta sia entrato nel bar della piazza principale e lì abbia raccolto i pettegolezzi della gente, ubriachi compresi. Gheddafi ha ripetutamente chiesto ormai da settimane, che le Nazioni Unite inviino una missione di inchiesta in Libia, per verificare i fatti: come è nata la ribellione, fin da subito armata, quali sono i suoi veri obbiettivi, se per caso anche secessionisti al di là della bandiera prescelta e del suo apparente leader, l’ex ministro della giustizia libico Jalil; chi ha bombardato cosa; fino a che punto e attraverso quali canali i ribelli si sono armati; quante sono le vittime civili dei bombardamenti di Gheddafi (che ormai, purtroppo, esistono) e di quelle dei cosiddetti “volenterosi”, e così via.
L’inchiesta dovrebbe essere fatta al più presto per future, più corrette Risoluzioni. Ma fin da subito, di fronte al caos della situazione e fermo restando che la Francia di Sarkozy non ha nessun titolo, ma proprio nessuno, per “guidare” la “coalizione” (cioè, diciamolo pure, per fare quello che gli pare in Libia), il Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere riunito d’urgenza, per evitare nuovi strappi nella deriva bellica ormai intrapresa da quattro giorni, e per bloccare in particolare la tragedia di un eventuale intervento via terra, che non solo costituirebbe un precedente gravissimo nel Mediterraneo, ma potrebbe portare a una soluzione alla Kosovo, con una Libia tripartita tra Fezzan “francese”, Tripolitania “inglese” e Tripoli “italiana”: come ai “bei tempi” del colonialismo di guerra degli anni Quaranta.
E’ questo che vuole l’Italia?

Fonte: www.claudiomoffa.it
NOTE:
[1] Risoluzione del 9 agosto 1960, approvata con 2 astensioni (Francia e Italia).
[2] Come nella prassi dell’ONU sancita dalla storica Dichiarazione sulla concessione dell’Indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali”, ONU, 14 dicembre 1960

[3] Vedi Dominiqye Vidal di le monde diplomatique ai tempi della guerra di Jugoslavia.