Come possiamo misurare l’importanza, la grandezza e, magari il genio, di un filosofo, di un sociologo, di un politologo, insomma di uno studioso del “fattore umano” ? Riconoscendogli la capacità di raccogliere i dati, di dare loro ordine e sistematicità, di stabilire scientificamente complessi rapporti di causa – effetto, di costruire modelli di analisi e di interpretazione efficaci ed applicabili ad una miriade di casi e, soprattutto, di cogliere le tendenze più significative di lungo periodo e di dare un nome ai fenomeni sociali, politici ed umani più generali.
Ai più il nome di Otto Kirchheimer non dirà molto, ma questo signore, questo politologo tedesco che si interessava ed applicava allo studio dei partiti e dei movimenti politici nelle società occidentali contemporanee, già nel 1971 descrisse un processo di trasformazione e di lunga durata dei sistemi partitici molto più riconoscibile in tempi più recenti.
Le robuste, poderose e strutturate organizzazioni dei partiti di massa – burocratici ed ideologici – sarebbero state rimpiazzate dai cosiddetti “partiti pigliatutto” – termine scientifico coniato dallo stesso Kirchheimer – più consone ad un sistema postmoderno. A questo punto occorre che si chiarisca meglio il senso dell’analisi del politologo svedese definendo in maniera sufficientemente esplicativa il concetto da lui introdotto.
A partire dagli inizi dell’evoluzione degli assetti democratici e liberali delle società europee ed occidentali la forma organizzativa dei partiti ha assunto veri e propri connotati di “massa”. Dal periodo dei “Lumi” e dalla Rivoluzione Francese, le masse, in maniera quasi generalizzata e, per alcuni versi, piuttosto imprevista, hanno fatto irruzione nella Storia con la loro fame materiale e spirituale. Prima il popolo era relegato ai margini, preda dei capricci di sovrani tutti imparentati, e dediti alle loro sanguinose e personali schermaglie e di aristocrazie sempre più corrotte e decadenti. La dignità – e, quindi, i diritti – non erano merce preziosa nel mondo moderno e premoderno. Ebbene, nonostante le inevitabili resistenze, nell’arco di mezzo secolo questo universo fu spazzato via da un’onda che attraversò l’intero Vecchio Continente. Con l’affermazione di sistemi politici più aperti alla partecipazione di soggetti prima marginali e privi di un qualsivoglia peso, si rese necessario strutturare ed organizzare le aspettative e i bisogni delle classi sociali popolari fra cui, innanzitutto il proletariato industriale emerso come attore attivo e dinamico. In tal modo la prima vera forma partitica diffusa nel Vecchio Continente si dotò di una organizzazione solida e complessa, finalizzata alla mobilitazione costante delle masse e non esclusivamente per le tornate elettorali. Anche l’impiego di forti risorse ideologiche e simboliche per attrarre una partecipazione sempre maggiore caratterizzò sempre i partiti di massa. Non è un caso che, malgrado questa tipologia non possa essere limitata solo a partiti di una certa tendenza politica e culturale, sicuramente il partito di massa si identifica in gran parte con i partiti di estrazione socialista, marxista e marxista leninista che hanno dato prova di saper attrarre e coagulare le masse lavoratrici intorno ad un progetto ambizioso e rivoluzionario di palingenesi sociale in senso egualitario. Alla solida struttura organizzativa burocratica – nel senso weberiano del termine – e al riferimento ideologico corrisponde un forte senso di appartenenza dell’elettorato e degli iscritti al partito. In certo qual modo il partito finisce per modellare l’identità degli individui in senso più o meno totalizzante in maniera molto simile ad una chiesa o ad una fede religiosa. Chi decideva di iscriversi e spendere parte del proprio tempo e della propria vita per il partito, per personale scelta cosciente o per l’influenza dell’ambito familiare, difficilmente ne sarebbe uscito anche mantenendo la stessa adesione ideologica o la medesima opinione politica. Per assumere una tale – e in quel tempo – grave decisione si sarebbe dovuto verificare un evento traumatico – ad esempio la posizione presa durante un conflitto o casi di epurazioni interne – così potente da sbarazzarsi di convinzioni sedimentate e consolidate. Ne consegue che gli spostamenti elettorali durante le elezioni indette in sistemi dominati dai partiti di massa erano generalmente di scarsa entità perché le divisioni politiche erano marcate da profonde e rigorose fratture sociali e di classe e da contrapposizioni ideologiche talvolta aspre. L’assetto generalizzato dei partiti di massa ideologici e fortemente strutturati – socialisti, liberali, democratici, ecc… che fossero – ha dominato il panorama occidentale per circa un secolo, dalla metà del XIX a quella del successivo…
Cos’è, allora, il “partito pigliatutto” ? Innanzitutto è il portato e il risultato dell’azione di fattori concettualmente separati fra loro, ma senza ombra di dubbio intensamente intrecciati nella realtà. L’affermazione del neocapitalismo postmoderno, edonista e consumista, lo sviluppo delle tecnologie comunicative e dei mass media che fanno giustamente di una “società dello spettacolo” fondata sulla rappresentazione e la rappresentabilità generalizzate e pervasive, la “cetimedizzazione” della società dal punto di vista antropologico e culturale più che economico, con la diffusione di una cultura di massa che si identifica con le propensioni, le inclinazioni e i gusti di una sorta di immenso “ceto medio” indifferenziato e omologato, tanto per usare un termine caro al poeta Pasolini che fu da annoverare tra coloro che meglio descrissero questo processo. Il paradigma del Mercato diviene dominante in un contesto in cui, grazie alla crescita economica, tutto diventa vendibile e spendibile. In una società che non è più divisa in classi distinte anche per estrazione culturale e per mentalità, oltre che per reddito o censo, i partiti devono pescare i voti fra un elettorato fluttuante e più volubile sotto certi aspetti. Nella scelta elettorale non intervengono più considerazioni di ordine dottrinale o ideologico o l’attrazione suscitata da progetti di riforma “palingenetica” della società, ma l’opinione diffusa, l’efficacia di slogan elettorali immediati e di facile presa, il ricorso a particolari e delimitate tematiche capaci di attirare l’attenzione del pubblico. Kirchheimer pone l’accento sul fatto che con i nuovi sistemi partitici viene esaltata la preferenza dei singoli individui, libera dai vincoli e dai lacci frapposti alla libera opinione dalla forza dei pregiudizi ideologici. L’individuo può formarsi la sua opinione ai fini dell’opzione elettorale grazie alla possibilità di poter attingere informazioni dai giornali, dalle televisioni, dagli stessi leader politici. Occorrerebbe, però aggiungere, che il processo di consolidamento ed affermazione delle nuove macchine elettorali non si dispiega secondo gli esclusivi crismi della “razionalità”. A differenza dei partiti di massa, i “partiti pigliatutto” rinunciano a mobilitare le masse e si presentano prevalentemente e quasi esclusivamente come più leggere macchine elettorali che approntano le strategie e le risorse – sempre più attinte dal linguaggio pubblicitario e dai mass media – più utili a vincere le elezioni in un mercato politico elettorale in cui, caduti i retaggi ideologici e i vincoli di appartenenza, tutto è diventato più fluttuante. Il paradigma del Mercato e, quindi la sua assimilazione a quello politico, e l’inarrestabile progresso tecnologico nel campo dei mass media fanno assomigliare i partiti alle imprese commerciali nel loro tentativo di massimizzare l’acquisizione di voti, mentre i cittadini si trasformano quasi in “pubblico” o “consumatori politici”.
Nella società postmoderna i partiti “pigliano tutto” perché cercano di pescare voti in ogni strato o categoria sociale, dato che la “media” opinione di un “ceto medio” culturalmente indifferenziato è ormai svincolata dalle ideologie e dalle dottrine politiche e alimentata dai mass media e dai mezzi di comunicazione di massa.
Storicamente è innegabile che la tendenza dei partiti di massa a trasformarsi o a essere rimpiazzati dai “partiti pigliatutto” sia stata accompagnata dalla diffusione di un bipartitismo o tripartitismo di stampo anglofono, basato sulla contrapposizione elettorale fra un partito “neoliberale” e un partito “neoconservatore” che, nella sostanza, condividono l’adesione a una visione dell’economia ispirata alla deregulation e allo “stato minimo” predicati nel neoliberismo. Nell’Europa occidentale questa tendenza si è accelerata a partire soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta in concomitanza con la crisi del vetusto e oneroso modello sovietico. In effetti all’affermazione definitiva del modello partitico anglofono ha corrisposto il tramonto del socialismo anche nella sua versione riformista e conforme agli stilemi “democratici” occidentali. Si assiste, invece, ad una sorta di “demarxistizzazione” generale dei partiti socialisti occidentali che ha come esito finale una sorta di svolta “liberal” o “neodemocratica”. Ne risulta una dialettica “lib-lab” o “con-dem” in cui i motivi di scarto fra le proposte politiche sono ormai puramente amministrativi e non riguardano un progetto più ampio di società. Se un tempo le controversie e i conflitti politici e fra partiti politici vertevano principalmente sui fini da realizzare – come, ad esempio, una società egualitaria, o fondata sulla libertà individuale o, ancora, sulla difesa dei costumi e dei valori tradizionali – ora le differenze riguardano perlopiù gli strumenti o i mezzi da adoperare per perseguire gli stessi fini, che, naturalmente, coincidono con l’estensione del mercato, della “libera intrapresa” e della competizione. E’ da discutere, invece, se tale processo di “polarizzazione politica” incardinato su uno stesso fine sia fondamentalmente indotto o spontaneo o, molto più probabilmente rechi in sé entrambe le caratteristiche.
Rientrando nel novero delle civilizzate e progredite società democratiche occidentali, il sistema partitico italiano si è evoluto nello stesso senso, ma con anche con sviluppi inediti che ne fanno una sorta di anomalia nel panorama generale. Nell’arco di pochi decenni i partiti di massa sono stati sostituiti da i partiti personali o personalistici passando attraverso i classici “partiti pigliatutto”, uno sviluppo inatteso per chi ha scarsa dimestichezza con la storia del nostro paese. Apparentemente la recente proliferazione dei partiti personali ha dissolto ogni possibilità o fattibilità di realizzazione di un bipartitismo o bipolarismo sia pure in versione italica. Ma in che cosa consiste questo processo ? Che cosa sono i partiti personali e perché può essere utile illustrare questo concetto per comprendere gli sviluppi futuri della politica italiana ?
Nel bene e nel male i grandi partiti italiani di massa – DC, PCI, PSI, ecc… – hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella relativa e parziale crescita civile, politica e culturale del paese. E’ indubitabile che l’onnipresenza dei partiti nei vari settori della vita sociale italiana sia stata causa di quella degenerazione meglio nota al grande pubblico come “partitocrazia” e che la mobilitazione delle masse organizzata dagli organismi di partito non abbia lasciato molto spazio all’elaborazione e alla riflessione individuale, assumendo spesso la connotazione di un vero e proprio inquadramento, chiamata alle armi lanciata a beneficio delle leadership politiche, eppure chi ha vissuto i primi decenni dal Dopoguerra difficilmente dimentica la maggiore e più intensa partecipazione alla vita pubblica. Caso forse unico fra i parsi avanzati del blocco occidentale e atlantico, nell’arco di un decennio scarso l’Italia è mutata da paese ad economia prevalentemente agricola a società fondata sul terziario più o meno avanzato. La rapida transizione verso un capitalismo postmoderno ha comportato una serie di profonde trasformazioni che, naturalmente, hanno anche riguardato le organizzazioni partitiche: anche in Italia le solide e “pesanti” organizzazioni burocratiche, ideologiche e “dottrinali”, finalizzate alla mobilitazione di massa si sono gradualmente trasformate nei “leggeri” comitati elettorali volti ad acquisire voti da un elettorato tipicamente di opinione e “de ideologizzato”. Tale processo ha cominciato a palesarsi negli anni Settanta, ma, tuttavia, bisognerebbe esser cauti a parlare di un mutamento organizzativo e strutturale radicale e definitivo. Non eravamo ancora alla “fine delle ideologie”… E, tuttavia, soprattutto Craxi per quel che riguarda il PSI, Berlinguer per il PCI e Almirante per l’MSI cominciano a sbarazzarsi dei residuati ideologici, per avviare i loro rispettivi partiti – i più “ideologici” del sistema – a diventare delle macchine elettorali di tipo “americano”. Ciò è vero, soprattutto, per quel che concerne il PSI craxiano che porta a compimento la deideologizzazione e la demarxistizzazione interne. In un certo senso si può affermare con un buon margine di sicurezza che negli Ottanta, nonostante le denominazioni e le blande professioni di fede, i partiti italiani sono riconducibili all’idealtipo “pigliatutto” definito da Kirkheimmer. Nel decennio dell’ottimismo e del rampantismo yuppie tutti i partiti sembrano affondare in una sorta di mare magnum, un “grande centro” indifferenziato o nel quale si è distinti per via puramente nominalistica. Siamo, tuttavia, ancora lontani dal bipartitismo di marca anglofona, che sembrerà caratterizzare, invece, il decennio successivo. L’era del cosiddetto “bipartitismo imperfetto” basata sulla divisione apparentemente netta fra DC e PCI non può essere propriamente considerata “bipolare” per la presenza di altri di altri significativi soggetti politici. Siamo ancora e prevalentemente nell’ambito della “frattura” alimentata dalla Guerra Fredda e di un sistema dominato da partiti ideologici e di massa. Nell’attimo di un respiro Mani Pulite cancellerà quel sistema politico e partitico che, oltre che corrotto, ai più appariva obsoleto e fuori tempi massimo. All’insegna di una relativa continuità lo spazio viene occupato dagli eredi dei vari segretari della Prima Repubblica, dei Forlani, dei Cossiga, dei De Mita, dei Craxi, dei Berlinguer, degli Almirante, dei La Malfa, ecc… Tuttavia sarebbe destinato a diventare il protagonista assoluto della politica italiana, un celebre imprenditore, un tycoon dalle mille risorse, conosciuto soprattutto per la frequentazione amichevole dell’onorevole Craxi, Silvio Berlusconi. L’uomo è tanto ricco e potente quanto discusso per l’origine delle sue fortune e del suo successo finendo per “polarizzare” lo scontro (im)politico. L’affermazione dei (nuovi) partiti “pigliatutto” e l’introduzione di un bipolarismo artificioso nel panorama politico italiano si reggono sull’attivismo del Cavalier Berlusconi. E’il discrimine berlusconismo/antiberlusconismo a marcare l’apparente confronto fra le compagini di centrodestra e centrosinistra, ma si tratta di un bipolarismo fragile che finisce, tra l’altro, per fossilizzare l’intero “sistema Italia”. Il declino umano e politico di Berlusconi – il quale, peraltro, ha dato ampia prova di essere un uomo di governo mediocre e incapace – fa crollare l’edificio che, faticosamente, aveva retto per un quindicennio. Paradossalmente e ironicamente ciò accade mentre, con la costituzione del PDL e del PD, sembrava compiersi l’agognato bipartitismo scimmiottato dagli americani. In realtà si rivela finalmente e chiaramente quella grande anomalia che affligge il sistema Italia. I partiti “pigliatutto” sgombrano il campo per lasciarlo a quelli che sono veri e propri partiti personali o, meglio, quei partiti “pigliatutto” si mostrano finalmente per quello che sono, organizzazioni, movimenti o correnti al servizio di un singolo leader. Il bipolarismo/bipartitismo all’italiana ha gettato la sua maschera…
Partito delle Libertà, Futuro e Libertà per l’Italia, Italia dei Valori, Unione di Centro, Sinistra, Ecologia e Libertà, ecc… Ma potremmo parlare di Partito di Silvio Berlusconi, di Gianfranco Fini, di Antonio Di Pietro, di Pier Ferdinando Casini, di Nicola Vendola, ecc… Nonostante il piccolo florilegio dell’altisonante vocabolario della politica – con parole e sostantivi ricorrenti quali Libertà, Futuro, Valori, Italia, ecc… – nella sostanza non sappiamo immaginare la sopravvivenza di queste organizzazioni o questi gruppi senza i loro leader, i loro capi incontrastati. Ed è proprio lo stile personale e la particolare “oratoria” che li distingue: all’esibizionismo e l’istrionismo da autentico showman tipicamente berlusconiani fa da contrappunto la moderata compostezza di un Fini; allo sfoggio del populismo “legalitario” e plebeo di Di Pietro si contrappone lo stile “ricercato” e “colto” di Vendola, ecc… Poco altro concorre a distinguere questi partiti e partitini che, in effetti, altro non rappresentano se non lo sviluppo personalistico dei tipici “partiti pigliatutto” diffusi in Occidente. A prima vista può sembrare che ogni gruppo si “coltivi” una particolare nicchia elettorale, ma la situazione è un po’ più complessa, perché il mercato partitico – elettorale rimane piuttosto fluido con notevoli spostamenti di voti. Non risponde, dunque, al vero che, da opposte sponde, sia il partito di Fini che quello di Vendola cercano di sottrarre consenso al PD che in questi anni ha fatto del moderatismo politico e sociale la sua bandiera ? Malgrado queste forme particolari di “partiti pigliatutto” non siano altro se non l’emanazione diretta di particolari personalità politiche, i loro leader non possono essere definiti “carismatici” nella weberiana accezione del termine. Secondo il grande sociologo tedesco, il leader carismatico incarna una missione rigeneratrice e palingenetica dell’Umanità, quantomeno agli occhi dei seguaci. I partiti guidati da autentici leader carismatici si fanno portatori di una visione “nuova”, rivoluzionaria e di riforma radicale della società. Fra i leader politici e carismatici che sono passati alla Storia si possono menzionare sicuramente Hitler, Lenin, Stalin, Mussolini, Mao e Khomeini, ma anche, per citare esempi certamente più edificanti, Gandhi e Mandela. La sopravvivenza dei partiti fondati sui leader carismatici e sulle loro potenti visioni ideologiche dipenderanno dalle capacità dei successori e dalla solidità organizzativa delle strutture. Diversamente i partiti personali sono deboli e fragili, perché la progettualità dei loro leader rimane veramente scarsa e affidata alla macchina mediatica e propagandistica degli slogan elettorali. A differenza dei classici “partiti pigliatutto”, non sono organizzazioni “impersonali” concepite per selezionare classi di premier, leader e dirigenti che si susseguono durante le varie tornate elettorali. Rievocando l’esempio americano, tutti noi sappiamo benissimo che il Partito Repubblicano non è affondato con l’inesorabile declino dell’amministrazione di Bush Jr. così come parimenti, i futuro il Partito Democratico potrà fare affidamento su altre personalità, magari molto diverse dall’attuale Presidente Barack Obama. In Italia, invece, dovremmo aspettarci che, alla fine di determinati partiti personali, si affacceranno sulla scena politica altri partiti personali retti da leader capaci di meglio interpretare le aspettative “mediatiche” del “pubblico elettorale”.Sulla scena politica italiana sono solo tre le eccezioni che confermano la regola del personalismo politico – elettorale. Il PD, innanzitutto, che si vorrebbe strutturato sull’analogo modello di “partito pigliatutto” americano, ma, analizzando meglio le sue dinamiche interne, esso si presenta come la somma di tanti partitini personali o personalistici i cui capi corrente trascorrono la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra per aumentare la complessiva influenza interna e a congegnare laboriosi compromessi per mantenere in piedi l’intero e traballante edificio. C’è, poi, la Lega, la cui storia si identifica in gran parte con quella del suo leader Umberto Bossi, l’unico forse assimilabile alla tipologia del capo carismatico. Per quanto sia rozzo, becero e aggressivo, il debole impianto ideologico, razzista, pseudonazista e “autonomista” del partito “padano”, il movimento sopravvivrà al declino di Bossi per l’innegabile capacità organizzativa dei suoi dirigenti che hanno saputo costruire un forte radicamento territoriale nel Nord Italia, rifuggendo parzialmente dalla esclusiva ricerca mediatica e pubblicitaria del consenso, immateriale e a – territoriale. Infine occorre citare il caso dei radicali pannelliani che hanno condotto campagne per i diritti civili ed umani anche sacrosante identificandosi con l’ormai logoro leader, più un icona vivente che un capo carismatico. E’ probabile che l’eredità verrà presto accolta dalla fidata Emma Bonino, certo non più giovane, ma che può ancora costituire un notevole punto di riferimento per le giovani generazioni di radicali anche se è, tuttavia, applicare il concetto weberiano di “carisma”. Pur discostandosi dai puri partiti personali che stanno riempiendo gli spazi della politica, i tre casi citati non sono, quindi, totalmente esenti dal recente italico vizio che, poi, non ha un sapore un po’ antico ?
Se la mutazione dei partiti di massa in “partiti pigliatutto” è la risultante dei processi di mercantilizzazione e di mediatizzazione della società neocapitalista e postmoderna, oltre che portato del bipartitismo di marca angloamericana, la variante italiana e “personalistica” dei “partiti pigliatutto” promana anche da un’eredità storica non felicissima dal punto di vista puramente politico. Popolo di “calpesti e derisi” afflitto dall’ansia per il “particolare”, a lungo soggiogato da signori e signorotti e dominato da potenza straniere, l’italiano non poteva conservare qualche discutibile tratto antico dell’atavico spirito gregario, certo con importanti e non trascurabili eccezioni storiche di levate di scudi e di manifestazioni di dignità e amor patrio. L’individualismo “gregario” alla costante ricerca di un padrone da servire e il “familismo amorale” non hanno certo contribuito a rinsaldare l’unità nazionale e una più generale coesione sociale. In politica il “personalismo” ha fatto spesso capolino… Si pensi, innanzitutto, alla DC, il partito di governo dei cinquant’anni di vita della Prima Repubblica: dottrina cristiano sociale a parte, la mitica e pesante Balena Bianca non ha mai perduto quel connotato essenziale di aggregato di correnti formate intorno a quello o quell’altro leader (Andreotti, Fanfani, De Mita, ecc…). I motivi di divisioni vertono quasi essenzialmente sulla spartizione di poltrone e posizioni di potere… Per certi versi il primo vero partito personale italiano della Prima Repubblica è stato quello radicale e pannelliano che, come già rilevato, era organizzato per condurre campagne per la promozione dei diritti civili, politici ed umani anche se non senza contraddizione. Ma è, invece, con il craxismo che il personalismo politico e partitico fa il suo ingresso definitivo in Italia. Il segretario Bettino Craxi cambia completamente pelle ad uno storico partito di massa, deprivandolo della sua originaria “ragione sociale” con l’intento di farne una grande macchina elettorale e spettacolare per macinare voti fra ceti medi ormai “deideologizzati”. La lezione craxiana sarà portata avanti con maggiore incisività e, naturalmente, con una superiore capacità di utilizzare i moderni mezzi di comunicazione di massa, dal tycoon Berlusconi, amico e, per qualche aspetto, allievo politico dell’ormai decaduto segretario del PSI. Non è un caso se Craxi presterà la sua preziosa consulenza al Cavaliere nel progetto del movimento Forza Italia. Il partito azienda berlusconiano non rappresenta altro che l’ennesima faccia del partito personale, poiché l’intera struttura organizzativa dell’Impero del Cavaliere si identifica con l’imperatore, i sui modi, il suo stile e i suoi slogan. In un certo senso il successivo fallimento del bipartitismo o bipolarismo all’italiana con la conseguente formazione di fratture all’interno della compagine governativa berlusconiana e della proliferazione delle opposizioni, diventa paradossalmente il segno che la lezione del Cavaliere non è passata invano. Anche senza risorse imprenditoriali e con minore accesso ai grandi media, ad ognuno è concesso il suo partito… Ultimo arrivato, il buon Luca Cordero di Montezemolo che pretende di aprire una sorta di “lista civica”, evidentemente sfruttando i successi del marchio Ferrari.
In definitiva l’impossibilità di polarizzare il “confronto” politico secondo i dettami “americani” e postmoderni riporta in auge il presunto pluralismo dei partitini personali fondati sulle relazioni dirette e anche clientelari intessute intorno a leader deboli rispetto alla necessità attuale di proposte politiche forti.
Tenendo conto che l’Italia ha, spesso, fornito modelli politici e di governo agli altri paesi, come l’infelice esperienza mussoliniana ha dimostrato, è possibile che il sistema dei partiti personali italiani possa venire imitato da altri sistemi occidentali ? Da anomalia, l’Italia può diventare la bussola del futuro politico internazionale ?
Anche in questo caso le prospettive non sono comunque confortanti…
Anche questo apparente pluralismo, senza idee, senza prospettive e, in definitiva, senza veri partiti strutturati, si scioglie nella solita Unità…
Quell’Unità feroce che, dietro le mille maschere, nega le alternative…
Come soleva brutalmente ripetere la premier britannica conservatrice Margaret Thatcher: “There Is No Alternative !”

HS
Fonte: www.comedonchisciotte.org