DI
JUSTIN RAIMONDO
original.antiwar.com
Quando l’Europa si stava incamminando verso la Prima Guerra Mondiale, con la costituzione di blocchi di nazioni rivali e l’ammassamento degli eserciti sui confini, la base della loro montante rivalità era centrata nei Balcani.
In effetti, dopo la Grande Guerra, la parola ‘balcanizzazione’ fu coniata per indicare una regione senza speranza, estremamente frazionata e scossa da tensioni nazionaliste e settarie, mentre la “polveriera dei Balcani” era una frase spesso invocata dagli storici per descrivere il massacro di sangue per antonomasia.
I Balcani del panorama odierno sono indubbiamente il Medio Oriente e specificamente la regione una volta conosciuta come Grande Siria, che comprende non solo la Siria, ma anche il Libano, la Giordania, la Palestina e una parte dell’Iraq.
Siamo in presenza dell’incrocio del mondo, con le tre grandi religioni – Cristianesimo, Giudaismo e Islam – che si incontrano e si fondono in una competizione ravvicinata, sgomitando e litigando una con l’altra in una faida plurifamiliare che – più spesso che no – termina in un bagno di sangue. Per gli ultimi 40 anni, l’epicentro di questa polveriera – la Siria di Bashar al Assad – è stata quiescente, dominata da una dinastia familiare che ha soppresso in maniera spietata tutti i possibili rivali e mantenuto una sorta di pace che solo le più feroci dittature riescono a mettere in atto. Adesso quella pace è minacciata, mentre la marea delle rivolte popolari – il Risveglio Arabo – sbarca in Siria, portando con lei le speranze di democrazia liberale, insieme ai presupposti del caos.
Si può notare un modello geografico in queste sollevazioni: la prima ondata colpisce la periferia del mondo arabo: Tunisia, Egitto e Libia sulla sponda nordafricana, Yemen e Bahrein su quella del Golfo. Ora queste forze centrifughe si stanno muovendo rapidamente verso il centro, Siria, Giordania, Iraq, penetrando addirittura in Arabia Saudita, dove ci potranno essere i pericoli più seri.
Queste rivolte hanno sempre dato luogo a pericoli e opportunità, ma, nel caso della Siria, l’enfasi è posta sugli antecedenti. Tutto questo è dovuto al fatto che il paese non è solamente l’incrocio di religioni rivali, ma è anche il punto di contatto delle crescenti tensioni tra i blocchi che si contendono l’egemonia sulla regione: gli israeliani e gli iraniani.
Gli Stati Uniti li hanno sostenuto tutti e tre in tempi diversi, iniziando con l’ultimo per finire a collaborare col primo. Incaricando nel 1953 la CIA per rimuovere Mohammed Mossadegh e insediare al trono Shah Reza Pahlavi, il Presidente Dwight Eisenhower stava scommettendo sul fatto che i Persiani avrebbero iniziato proprio dal punto in cui era finito Ciro il Grande, riuscendo così a ottenere l’egemonia dell’area, con gli Stati Uniti sempre nei paraggi. Quando poi hanno visto che la cosa non era funzionata, Washington si diresse verso i sauditi, che si erano convertiti poco prima in un protettorato americano e sempre più verso gli israeliani, la cui influenza interna agli Stati Uniti ha velocizzato un processo che la guerra fredda aveva già avviato.
Con l’improvvisa implosione dell’impero sovietico e la virtuale eliminazione del comunismo internazionale come forza operativa mondiale, il fattore scatenante di queste alleanze divenne inoperativo. Dal giorno alla notte, le assunzioni basilari della politica estera degli Stati Uniti, messe in pratica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, furono accantonate. Le motivazioni per il sostegno a Israele nella sua guerra per i Territori Occupati in Palestina e il contrasto verso le aspirazioni nazionaliste dei popoli della regione vennero meno e le macerie ci stanno piovendo proprio adesso sulle nostre teste. Questa pioggia ci ha portato alla “Primavera Araba”.
Se i presupposti ideologici della politica degli Stati Uniti nella regione cominciavano a tentennare pericolosamente al tempo della caduta del muro di Berlino, la successiva caduta del Cremlino ha generato un effetto simile a uno tsunami nel Medio Oriente. I Sovietici hanno fatto causa comune con le varie rivolte anti-colonialiste. Queste rivoluzioni furono in gran parte condotte dalla parte più giovane del corpo degli ufficiali, tenendo come esempio l’Egitto di Nasser, un modello che si è ripetuto in Libia, Tunisia, Algeria e Siria, dove il giovane Hafez al Assad raggiunse il potere nella “rivoluzione correttiva” del 1970.
Assad fu addestrato in Unione ovietica, dalla quale ritornò in patria aperto sostenitore di un socialismo pan-arabo che rifletteva la sua affiliazione al partito Baathista; si convinse così che la recente unione tra Siria e Egitto – la poco longeva Repubblica Araba Unita – equivaleva nei fatti a un imperialismo egiziano. Questo approccio lo porto nei guai, ma, quando l’RAU cadde, riuscì a risalire la gerarchia, diventando comandante in capo delle forze aeree e, successivamente, realizzò un colpo di Stato, al termine del quale purgò il suo partito Baathista da tutti i dissidenti, assimilando al suo interno i partiti rivali di sinistra, come il Partito Comunista, che, assieme a altri partiti secolari, doveva essere solamente il simbolo di facciata di un ‘blocco democratico’ in realtà guidato con rigidità.
Tutto questo fu modellato nei paesi-satellite sovietici dell’Est Europa, che permettevano l’esistenza di vari partiti ‘democratici’ o ‘dei contadini’ all’interno del loro villaggio Potemkin “Democrazia al Popolo”. Quei gruppi secolari che non volevano essere assimilati ai Baathisti furono duramente soppressi, assieme agli oppositori della componente religiosa all’interno del partito. Assad perseguitò questi ultimi con particolare spietatezza: nel 1982 l’intera città di Hama fu ridotta in macerie e 20.000 abitanti furono uccisi dalle forze armate siriane, essendo considerata un focolaio delle attività dei Fratelli Musulmani.
Quell’operazione fu condotta da Rifat al Assad, il giovane fratello del dittatore, che guidava le forze di sicurezza al centro del potere Baathista. Nella lotta che ne derivò dopo l’inizio della malattia dell’anziano Assad, la componente più autenticamente autoritaria, rappresentata da Rifat, perse e la fazione relativamente ‘liberale’, che sosteneva Bashar al Assad, si liberò dei sostenitori di Rifat dalla gerarchia del partito Baathista, anche se Rifat ha ricoperto la carica di Vice Presidente fino al 1998.
Nel 1999 le autorità siriane si rivolsero ai sostenitori rimasti, effettuando arresti di massa: le due fazioni si scontrarono nelle strade di Latakia.
Rifat ha sempre affermato da allora, in qualità di Vice Presidente – di non aver mai accettato la sua espulsione, giacché lui è il solo presidente ‘legittimo’ della Siria e che Bashar è un usurpatore. Dalla sua base di Mayfair a Londra, Rifat dirige un instabile e nebuloso network di gruppi esuli siriani e si fregia di esser stato menzionato da Stratfor come il principale sospettato dell’assassinio del politico libanese Rafiq Hariri.
Il fattore Rifat non è mai citato dai dispacci diffusi da quel paese, neppure nelle notizie dei molti gruppi di dissidenti siriani che possono riscuotere un certo credito tra i rivoltosi. Spesso si dice che questa è una rivoluzione “senza capi”, che è sorta spontaneamente, come il lievito che sale con la temperatura, ma tutto questo non ha senso: ogni rivoluzione ha bisogno di una leadership per organizzare anche la più semplice delle azioni e la leadership è formata da individui con una storia politica di durata e dedizione particolari.
Anche se è vero che un fronte interno di attivisti è emerso dalla Primavera Araba, questa messe di persone ha avuto dei precursori, dei quali Rifat è solo un esempio e, dalla parte opposta, si possono citare i vecchi uomini di sinistra vicini al Partito Comunista. Quello che è per larga parte sfuggito, credo, è che entrambi in fattori sono sicuramente in gioco nelle proteste in corso.
La sinistra sta organizzando e guidando le assemblee non violente, terminate in un bagno di sangue, e la ‘destra’ ultra-Baathista – che comprende anche il totalmente folle Partito Sociale Nazionalista Siriano, che dice di avere 100.000 membri – è probabilmente dietro ad almeno alcuni degli incidenti, che Sana, l’agenzia stampa governativa, attribuisce a “bande armate”.
La dittatura siriana, nella forma e nell’ideologia, segue il modello di governo dei “giovani ufficiali” che ha avuto grande influenza nella regione durante il periodo post-coloniale e, come i fratelli putativi nel Nord Africa, ha perso le basi materiali e ideologiche del proprio potere quando la fase della ‘guerra fredda’ era al termine. Economicamente, il regime socialista nazionale (o nazional-socialista), esemplificato dai seguaci di Nasser in Egitto, ha ritardato invece di accelerare la modernizzazione e politicamente ha portato a una stasi e a una mistificazione quasi totali.
Per di più, queste rivoluzioni arabe secolarizzate furono racchiuse all’interno dei confini tracciati dalle potenze coloniali, che avevano creato degli ‘stati’ centralizzati senza alcuna base storica o economica che facesse da collante, come è avvenuto nel caso della Libia. Senza più il supporto dell’Unione Sovietica – e senza lo spettro del colonialismo da agitare per la risoluzione di tutti i problemi – questi regimi hanno perso la propria legittimazione e hanno potuto mantenere il potere solo attraverso una sistematica e brutale repressione. Questo è lo scenario che abbiamo di fronte in Siria.
La Siria, come la Libia, è uno ‘stato’ immaginario, una nazione creata di sana pianta dalle potenze coloniali, i confini della quale non corrispondono a alcuna contiguità etnica, religiosa o culturale. Etnicamente parlando, è un miscuglio di Arabi, Circassi, Assiri e Curdi, con vari altri oscuri sottogruppi buttati lì nel mezzo: nei termini di una setta, pensate al Libano, varie fazioni musulmane che predominano su piccole componenti di cristiani ortodossi e drusi. L’intermediario-chiave tra queste religioni spesso in conflitto è stata finora la setta Alawita, una branca eterodossa dell’Islam, la base dalla quale la leadership più importante del partito Baathista ha preso il potere. Se e quando questo ruolo di mediazione diventerà non più funzionale, in vista di un rovesciamento dei Baathisti, il futuro del paese potrà avere lo stesso destino del Libano, un campo di battaglia sempre sulla soglia di un conflitto aperto.
Combiniamo questo scenario con i pericoli creati dalla politica del Presidente Obama che crea rivalità tra Stati Uniti e Iran e si avrà un’idea del tempo che ci separa da un’altra guerra mondiale. “Invece di ascoltare il proprio popolo, il Presidente Assad sta incolpando gli outsider che cercano un aiuto dall’Iran per reprimere i cittadini siriani con le stesse tattiche brutali che sono state usate dai suoi alleati iraniani”, sono le parole del presidente, l’equivalente di un cerino acceso buttato nella polveriera mediorientale.
Se la Siria diventasse un campo di battaglia, i vari contendenti per la supremazia regionale metteranno in campo le loro armi e condurranno una guerra a corto raggio, un conflitto che non sarà altro che il preludio dell’evento principale. La ‘libanizzazione’ della Siria sarebbe un disastro per i siriani e questo è il motivo per cui il regime ha ancora un certo sostegno: comunque, se nel caso non riuscissero a mantenere l’ordine – la base del loro mandato – allora perderebbe anche la piccola legittimazione che gli è rimasta. Bashar ha capito questo, ed è la ragione per cui sta facendo un giro di vite. Le notizie secondo le quali la gran parte delle opposizioni sta ricevendo finanziamenti e altre forme di sostegno dal governo degli Stati Uniti non le ha certo aiutate e, per il momento, sembra proprio che le forze anti-Assad stiano perdendo posizioni.
Così come in Egitto, questi movimenti hanno una resilienza naturale ed è ancora troppo presto per comprendere in che modo la battaglia proseguirà. In quest’ambito, il ruolo degli Stati Uniti, come al solito, non ha niente a che fare con i reali interessi della Siria, ma ha praticamente tutto a che vedere con le sue grandi ambizioni nella regione. Obama guarda alla Siria e pensa all’Iran: i siriani guardano al loro paese e pensano al Libano.
Ci sono così tanti gruppi siriani in esilio – alcuni operanti all’interno del territorio, altri no – che sarebbe impossibile elencarli in una sola colonna. Se dovessi scommettere su quale di questi è sostenuto in silenzio dagli Stati Uniti, metterei i miei soldi su Abdul Halim Khaddam, un altro amicone di Hafez al Assad, che ha avuto l’incarico di vicepresidente dopo l’espulsione di Rifat e, in un secondo tempo, di “presidente ad interim” nell’interregno tra la morte del vecchio Assad e l’affidamento dell’incarico a Bashar. Egli era personalmente responsabile per le morti di molti dissidenti e, ancora oggi, si vanta di essere il capo dell’opposizione ‘democratica’, con i suoi uffici a Washington e nelle maggiori capitali dell’Occidente, presiedendo il suo “Fronte Nazionale di Salvezza” che, forse per caso, ha lo stesso nome del gruppo di ribelli libici in esilio, essenzialmente formato dalla CIA.
In ogni caso, la rivoluzione siriana mostra tutti gli indizi per sfociare in una Primavera Araba con una lunga estate calda, durante la quale le tensioni accumulate nella zona potrebbero esplodere e trascinarci in un’altra guerra. Ora più che mai, è un imperativo che gli Stati Uniti se ne stiano alla larga dagli affari interni della Siria e, naturalmente, ora più che mai si potrà essere certi che le cose non andranno così. L’amministrazione Obama ha deciso di passare all’attacco in risposta alla caduta dei despoti appoggiati dagli Stati Uniti in Nord Africa e i decisori sono apparentemente convinti che potranno fare una bella spremuta dai limoni che hanno per le mani. Il problema è che lasceranno fermentare questa miscela instabile di limoni amari e di dolce retorica, di modo che i nostri politici si ubriacheranno presto con questo liquore inebriante.
Le conseguenze dell’intervento degli Stati Uniti in Siria ci potrebbero portare sulla soglia di un conflitto e questo è il motivo reale per cui non abbiamo ancora sentito parlare di ‘invio di aiuti’ (almeno non in modo assordante) e addirittura si interviene in appoggio dei rivoltosi. Comunque, tutto ciò avverrà molto presto e, a quel punto, sarà tempo di tirare il freno d’emergenza e di far suonare l’allarme.
Justin Raimondo
Fonte: http://original.antiwar.com/
Link: http://original.antiwar.com/justin/2011/04/24/syrian-tinderbox/
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE