DI
MARCO MAMONE CAPRIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
È bello scoprire che ogni tanto la stampa a grande diffusione, almeno nei suoi siti, ospita una testimonianza di una delle controversie scientifiche più accese e censurate da oltre un secolo e mezzo: quella sulla validità scientifica della sperimentazione su animali effettuata per decidere questioni riguardanti la medicina umana. Seguendo la denominazione storica chiamerò “vivisezione” questa metodica (1).
Prima di procedere nel merito, e per contribuire alla comprensione di che paese sia oggi l’Italia, noto che la mozione avanzata dalla Lega Nord premette che «la società civile ha ormai preso atto dell’assoluta importanza della vita e del benessere degli animali»: ebbene, si tratta dello stesso partito che riserva a membri della nostra stessa specie cui càpita di essere nati in altri paesi, gli immigrati, un’attenzione molto meno benevola, per non parlare dell’aggressione della polizia contro i dimostranti della Val di Susa, ordinata da un ministro leghista proprio in questi giorni.
L’apparente contraddizione si spiega con la circostanza che anche le forze di destra cercano di attingere al bacino di voti “animalisti”, e che per di più mostrandosi così sensibili verso gli animali possono dissimulare quella erosione dei diritti umani che è una delle cifre della loro politica.
In questo non c’è necessariamente un calcolo consapevole: basta il normale “fiuto” del politico di carriera. Ciò premesso, e quali che ne siano le finalità politiche, il contenuto della mozione è ragionevole e, anzi, tutto sommato piuttosto moderato: chi decide, infatti, quale sia il «massimo» a cui restringere l’attività dei vivisettori? Ma naturalmente è lo stesso verbo “restringere” che i vivisettori non riescono a sentire senza avere l’impressione (giusta) di essere messi sotto accusa.La dichiarazione di Remuzzi ha provocato diverse reazioni. Una è stata della LAV (Lega Anti Vivisezione), a cui Remuzzi ha replicato sul sito del Corriere della Sera. È su questa replica che soprattutto mi soffermerò nel seguito. Non intendo, comunque, limitarmi a polemizzare. Desidero soprattutto fornire informazioni il più possibile oggettive e verificabili alle persone onestamente interessate alla questione, alcune delle quali mi hanno sollecitato al riguardo, in quanto autore di articoli che sostengono che cercare di “provare” sui membri di una specie animale ciò che serve di sapere in un’altra è una pericolosa pratica pseudoscientifica (2).
La linea del Corriere è la stessa da sempre tenuta dai principali media in materia di vivisezione: nominare come “esperto” cui si dà l’ultima parola un vivisettore, ignorando il fatto che questi è un personaggio la cui reputazione è parte in causa nella controversia. In effetti, per un vivisettore ammettere che la vivisezione sia una branca della pseudoscienza e/o qualcosa di inaccettabile da un punto di vista etico equivarrebbe a squalificarsi pubblicamente come scienziato e/o come essere umano. È mai probabile che ciò avvenga? Sarebbe un po’ come aspettarsi che l’ex presidente George W. Bush o qualcuno del suo entourage dichiarasse che la guerra scatenata contro l’Iraq nel 2003 era ingiustificata e basata su un castello di menzogne, come adesso — si badi bene — è noto al di là di ogni ragionevole dubbio e destinato ad essere riportato in questi termini nei libri di storia (3).
La guerra che ho appena menzionato ha causato, secondo le stime più favorevoli all’amministrazione USA, oltre centocinquantamila vittime, l’80% delle quali civili. Questo numero può essere paragonato con quello annuale dei morti per reazioni avverse da farmaco nella sola Unione Europea, che, secondo una stima del 2008 della Commissione Europea, ammontano a 197.000 (con un costo economico per la comunità valutato sui 79 miliardi di euro). L’accostamento non è peregrino, in quanto i critici della vivisezione da un punto di vista scientifico e metodologico ritengono che di questa ecatombe annuale planetaria la vivisezione sia tra i principali responsabili (4) unitamente all’avidità dell’industria farmaceutica che, senza escludere l’impiego di vari altri tipi di frode, non esita a far “garantire” i propri prodotti anche da questa ingannevole metodica.
In tutto il suo breve articolo Remuzzi non usa mai espressioni di cautela come “io credo”, “secondo me”, ecc., ma solo formulazioni impersonali e categoriche, come se asserisse qualcosa su cui non esiste disputa tra gli “esperti”. Per esempio:
Ma ancora oggi purtroppo nessun laboratorio di ricerca al mondo può prescindere dall’impiego di animali. Vale per tutta la ricerca in medicina ed è specialmente vero nei campi a cui fa riferimento il comunicato della Lav [che citava «ricerca sul cancro», «sclerosi multipla», «studi di tossicità» «ricostruzione di organi e tessuti»].
Senza la ricerca sugli animali non sapremmo che la tossina dell’E. coli — che è tossica sulle cellule renali in coltura — da sola non basta a fare danni al rene che portano alla dialisi tante persone, e danni al cervello che possono portare a morte. Senza animali non avremmo, quindi, potuto mettere a punto nessuna cura per questa malattia che in passato ha preoccupato gli Stati Uniti e oggi preoccupa l’Europa. […]Il numero di topi e ratti che impieghiamo nei nostri laboratori oggi non arriva al 20% rispetto a vent’anni fa. Ma là dove gli animali servono, non utilizzarli vuol dire fermare il progresso della medicina.
Tranne l’ultimo enunciato, che è in parte una tautologia e in parte una petizione di principio (visto che gli antivivisezionisti negano appunto che gli animali “servono” ai fini del progresso della medicina), queste affermazioni farebbero tremare le vene e i polsi a qualsiasi serio storico della medicina, in quanto (tra l’altro) implicano ipotesi controfattuali su ciò che sarebbe successo se i ricercatori avessero cercato e seguito strade diverse dalla sperimentazione animale — una questione che si può affrontare solo con molta cautela e competenze interdisciplinari. In ogni caso e a un primo livello possiamo dire, con sicurezza, che non è vero che le suddette opinioni possano essere presentate come materia di consenso tra gli esperti del settore. Per esempio, che l’uso di modelli animali nella ricerca sul cancro sia una condizione necessaria del progresso medico (piuttosto che, tutto al contrario, un ostacolo) è un’opinione respinta da diversi ricercatori, come vedremo esplicitamente in seguito. E non è affatto vero che « nessun laboratorio di ricerca al mondo può prescindere dall’impiego di animali»: una banale ricerca su Internet basta a scoprire che, per esempio, i laboratori della Pharmagene lavorano ai nuovi farmaci usando “solo” tessuti umani e tecnologie informatiche (5). Ci sono altri aspetti per cui l’inadeguatezza della replica di Remuzzi risulta evidente anche a un osservatore neutrale e privo di particolare preparazione. Consideriamo innanzitutto l’argomento che parte dalla circostanza che in certi settori di ricerca le ricerche pubblicate che fanno uso di animali sono molte di più di quelle che non ne fanno uso:
Chiunque può consultare PubMed, il sito di tutte le pubblicazioni in medicina, alla voce cancro o sclerosi multipla, si renderà subito conto che per un lavoro fatto con le cellule in coltura o con simulazione al computer di fenomeni biologici, ce ne sono dieci che impiegano topi e ratti.
Questo argomento (ammesso che il dato bibliografico citato sia vero) sarebbe convincente se 1) il maggiore favore goduto da una tecnica di ricerca ne dimostrasse la maggiore validità scientifica (piuttosto che la maggiore facilità, economicità o opportunità carrieristica); 2) nel settore indicato si potesse dimostrare che i progressi medici dovuti alla maggioranza di ricerche che utilizzano animali siano più importanti di quelli dovuti alla minoranza che non ne fa uso. È chiaro che dimostrare i due punti suddetti esorbiterebbe dallo spazio di un breve articolo, ma Remuzzi avrebbe dovuto rimandare i suoi lettori a qualche studio approfondito o almeno a qualche buona inchiesta giornalistica in cui tali dimostrazioni siano presentate o abbozzate. Dal seguito penso che si capirà meglio il perché di questa strana omissione.
Per dare maggiore concretezza alla questione, e per ragioni di spazio, sarò io a citare un’inchiesta giornalistica molto interessante e informata, pubblicata dal periodico statunitense Fortune nel 2004 a proposito di uno degli esempi citati da Remuzzi e dalla LAV: la ricerca sul cancro. Come il nome stesso suggerisce, si tratta di una rivista di affari e finanza, alla cui linea editoriale non appartiene la benché minima preoccupazione per i diritti o il benessere degli animali: a Fortune interessa solo dare informazioni che possano aiutare i suoi lettori a investire bene il proprio denaro. Inoltre l’inchiesta è particolarmente significativa in quanto riguarda l’Eden scientifico dei “cervelli in fuga” o aspiranti tali di tutto il mondo: gli Stati Uniti. L’autore è Clifford Leaf e l’articolo si intitola “Perché stiamo perdendo la guerra contro il cancro (e come vincerla)”. In questa inchiesta l’autore ha intervistato diversi prestigiosi ricercatori del settore, e questo giustifica le citazioni abbastanza lunghe che ne farò (6). Ecco come viene esposto, limpidamente, il problema dei “modelli murini”, cioè quelli che utilizzano i topi per simulare la malattia umana:
Un gene di un topo può essere molto simile a un gene umano, ma il resto del topo è molto diverso. Il fatto che tanti ricercatori nel campo dei tumori sembrano dimenticare o ignorare questa osservazione quando lavorano con “modelli murini” in laboratorio chiaramente infastidisce Robert Weinberg. Professore di biologia al MIT e vincitore della Medaglia Nazionale della Scienza per la sua scoperta sia del primo oncogene umano sia del primo gene soppressore di tumore, Weinberg è una persona concreta […] e si lancia in una lezione:
“Uno dei modelli sperimentali del cancro umano più frequentemente usati è prendere cellule cancerose in una coltura, metterle in un topo — un topo immunocompromesso –, permettere ad esse di formare un tumore, e quindi esporre lo xenoinnesto che ne risulta a vari tipi di medicinali che potrebbero essere utili nella cura delle persone. Questi sono i cosiddetti modelli preclinici”, spiega Weinberg. “Ed è ben noto da più di un decennio, forse da vent’anni, che molti di questi modelli preclinici del cancro umano hanno pochissimo potere predittivo in termini della risposta degli esseri umani — cioè dei veri tumori umani nei pazienti”. Malgrado le somiglianze genetiche e del sistema degli organi tra un topo nudo e un uomo in camice bianco, le due specie hanno differenze chiave in fisiologia, architettura dei tessuti, tempi del metabolismo, funzione del sistema immunitario, sistema di segnalazione molecolare eccetera. Quindi i tumori che sorgono in ognuno, per uno stesso valore dell’interruttore genetico, sono astamente diversi.
Weinberg dice: “Un problema fondamentale che dev’essere risolto nell’intero sforzo della ricerca sul cancro, in termini di terapie, è che i modelli preclinici del cancro umano, in gran parte, sono una schifezza” (7).
Facciamo una pausa per sottolineare che Robert Weinberg, che non è un animalista ma uno scienziato di primissimo piano, afferma nel 2004 che è da una ventina di anni che si sa che i topi presi come modelli dell’uomo in campo oncologico non funzionano. Cioè non sta dicendo che si tratta di una scoperta recente, o di una sua particolare opinione, ma che è un dato di fatto risaputo. Eppure i vivisezionisti, nella loro litania sulla supposta necessità della vivisezione per il progresso medico, non tengono minimamente conto di questo fatto risaputo: sono veramente così ignoranti? Penso che la verità sia un’altra, e ci torneremo. Ecco altre testimonianze citate nella stessa inchiesta:
Homer Pearce, che dirigeva la ricerca sul cancro e l’indagine clinica alla Eli Lilly e adesso è collaboratore di ricerca della ditta farmaceutica, è d’accordo che i modelli murini sono “dolorosamente inadeguati” per determinare se un farmaco funzionerà sugli umani. “Se considerate i milioni e milioni e milioni di topi che sono stati curati, e li confrontate con il successo relativo, o l’insuccesso, che abbiamo ottenuto a livello clinico nel trattamento del cancro metastatico”, dice, “capite che per forza ci dev’essere qualcosa di sbagliato con quei modelli”.
Vishva Dixit, un vice-presidente per la ricerca in oncologia molecolare alla Genentech in South San Francisco, è ancora più inorridito dal fatto che “il 99% dei ricercatori nell’industria e nell’università usano xenoinnesti”. Perché il modello murino è così pesantemente utilizzato? Semplice. “È molto conveniente, facile da manipolare”, spiega Dixit. “Basta uno sguardo per riuscire a valutare le dimensioni del tumore”.
Sebbene le industrie farmaceutiche riconoscano con chiarezza il problema, non vi hanno però rimediato. E sarebbe meglio che lo facessero, dice Weinberg, “se non altro perché ogni anno le industrie farmaceutiche sprecano centinaia di milioni di dollari usando questi modelli”.
Seconda pausa: si noti che queste citazioni sono già sufficienti a stabilire che ci sono specialisti del settore, e di riconosciuta competenza, secondo i quali l’adozione dei correnti modelli animali del cancro non è scientificamente giustificata, e costituisce per di più un immenso spreco di risorse. Ma il problema con i modelli animali del cancro è che ci possono portare fuori strada non solo con dei falsi positivi, ma anche con i falsi negativi — cioè è probabile che ci facciano perdere farmaci efficaci sull’uomo i quali invece non lo sono sui topi:
Ancora più deprimente è la possibilità molto reale che la fiducia accordata a questo modello difettoso abbia indotto i ricercatori a trascurare farmaci che avrebbero funzionato sugli umani. Dopotutto, se tanti farmaci promettenti che hanno sbaragliato i tumori dei topi hanno fallito sugli umani, è probabile che sia accaduto anche l’inverso: un certo numero tra le centinaia di migliaia di composti scartati negli ultimi vent’anni potrebbero essere stati veramente efficaci. Roy Herbst, che divide il suo tempo tra laboratorio e clinica alla M.D. Anderson e che ha diretto grosse prove cliniche su Iressa e altre terapie mirate del cancro al polmone, è sicuro che questo accade spesso. “È qualcosa che mi innervosisce parecchio”, dice. “Probabilmente perdiamo un sacco di cose che o non sono attive da sole o che non abbiamo sperimentato nel giusto contesto, o di cui non abbiamo identificato il giusto bersaglio”.
A questo punto il giornalista pone la domanda cruciale: «Se tutti capiscono che c’è un problema, perché non ci si sta facendo niente?». Ecco la risposta di Weinberg:
Le ragioni sono due, dice Weinberg. La prima è che non c’è un altro modello con cui sostituire il povero topo. La seconda, dice, “è che la FDA [Food and Drug Administration] ha creato inerzia perché continua a riconoscere in questi [modelli] lo standard aureo per la predizione dell’utilità dei farmaci”.
Lasciamo perdere la frase, non virgolettata, sulla non esistenza di «un altro modello con cui sostituire il povero topo»: in primo luogo, perché ci sono già metodi realmente scientifici che non fanno uso di animali; e in secondo luogo perché chiunque capisce che anche se non ci sono sistemi per sostituire l’astrologia nella predizione dell’incontro con l’anima gemella (e no, proprio non ci sono), questo non basta a raccomandare la consultazione degli oroscopi ai cuori solitari… Ma il punto veramente importante che Weinberg sottolinea è che finché le autorità regolatorie continueranno ad adottare criteri vivisezionisti per l’approvazione dei farmaci, i ricercatori del settore non si sentiranno incentivati a prendere atto delle drammatiche limitazioni della metodica che usano: per loro, le opportunità di carriera e i contratti con le case farmaceutiche continueranno a prevalere sugli scrupoli scientifici.
Un esempio di questo fenomeno, che traggo dallo stesso articolo di Fortune, è che la stragrande maggioranza delle ricerche sui tumori (quelle che affollano la contabilità di PubMed a cui fa riferimento Remuzzi) si concentra su un aspetto della cancerogenesi che ha una rilevanza molto debole rispetto allo sviluppo della malattia e alla sua letalità. In effetti, come praticamente tutti sappiamo, non è di solito il tumore primario che uccide il malato, bensì una sua metastasi. Per la precisione il “di solito” può essere sostituito con “in circa il 90% dei casi”. Ebbene, Fortune ha esaminato i finanziamenti per la ricerca concessi dal National Cancer Institute (NCI) dal 1972 in poi, trovando che
[…] meno dello 0,5% delle proposte di ricerca avevano come principale obiettivo la metastasi — per esempio tentare di capire il suo ruolo in un tipo specifico di cancro (per es. alla mammella, alla prostata) o anche solo il processo stesso. Dei quasi 8.900 assegni di ricerca attribuiti dal NCI l’anno scorso, il 92% neppure menzionava la parola “metastasi”.
Così la stragrande maggioranza delle ricerche sul cancro riguardano la possibilità di riduzione del tumore primario, e questo è anche considerato il principale criterio di efficacia terapeutica per un farmaco antitumorale, sebbene sia perfettamente noto che la riduzione di un tumore primario «è improbabile che aumenti le possibilità di sopravvivenza» del malato. Il paradosso è che, al contrario di quello che ingenuamente si penserebbe, la cosa più difficile in oncologia è farsi finanziare ricerche… sulla metastasi:
Un ricercatore con tutte le carte in regola mandò una proposta elegante al NCI due anni fa per studiare l’epigenetica (cioè i cambiamenti nelle normali funzioni del gene) delle metastasi confrontata con quella dei tumori primari. Adesso che sta sottoponendo la proposta per la terza volta, dice: “Voglio dire, di questo argomento non si sa niente. Ma per una ragione o per l’altra non riesco a suscitare interesse nelle persone che dovrebbero finanziarmi!”.
Josh Fidler, della M.D. Anderson’s , suggerisce che la metastasi sta ricevendo scarsa attenzione semplicemente perché “è tosta. D’accordo? E gli individui non sono ricompensati per mettersi a fare cose toste”. I revisori che devono assegnare i finanziamenti, aggiunge, “si sentono più a loro agio con progetti con una visuale limitata. Ecco un anticorpo che intendo usare, ecco un bla-bla-bla, e allora i soldi me li danno”.
In sintesi: le ricerche sulla possibilità di ridurre tumori umani impiantati su un topo sono quelle che ricevono più finanziamenti, anche se si sa che è improbabile che da queste arriveranno mai i reali progressi per la cura dei tumori. Ma, come dice molto bene Weinberg, «l’accumulazione dei dati dà l’illusione alla gente di aver fatto qualcosa di significativo». È questo un problema molto serio: gran parte delle pubblicazioni scientifiche non arricchiscono ma inquinano la letteratura, mettendo in circolazione risultati irrilevanti o fuorvianti — per non parlare degli articoli fraudolenti in senso stretto. Poiché a sentire Remuzzi e altri il lettore potrebbe pensare che queste siano insinuazioni ingiustificate sull’onore della classica “stragrande maggioranza dei ricercatori che si sacrificano per il bene dell’umanità”, mi limiterò a ricordare due articoli pubblicati sulla rivista ad accesso gratuito PLoS Medicine nel maggio 2005, Il primo si intitola:
• «Le riviste mediche sono l’estensione del ramo commerciale delle compagnie farmaceutiche»(8).
L’autore è Richard Smith, che è stato direttore del British Medical Journal e comincia l’articolo citando la dichiarazione fatta nel marzo 2004 da Richard Horton, direttore di un’altra prestigiosa rivista medica, Lancet, secondo cui: «Le riviste si sono dedicate ad operazioni di riciclaggio dell’informazione per conto dell’industria farmaceutica». Qualche anno prima Marcia Angell, direttore di un’altra prestigiosa rivista medica, il New England Journal of Medicine, aveva intitolato senza troppi riguardi il suo editoriale con la domanda: «La medicina accademica è in vendita?»(9)
Tre direttori di importanti riviste che sottolineano in maniera così enfatica l’influenza corruttrice dell’industria farmaceutica sulla ricerca medica mi sembra che siano più che sufficienti.
Il secondo articolo, di un notissimo esperto di statistica medica, John P. A. Ioannidis, si intitola:
• «Perché la maggior parte dei risultati di ricerca pubblicati sono falsi»(10),
ed elenca le ragioni (comprese le pressioni dei finanziatori, naturalmente) per cui in praticamente ogni campo della medicina la probabilità che un risultato pubblicato sia vero è molto bassa. Di questi articoli raccomando la lettura ai ricercatori che veramente hanno l’ideale scientifico come loro faro, e anche a chiunque altro sia interessato a questioni di metodologia e sociologia della ricerca scientifica.
Quanto precede, e in particolare le citazioni in cui udiamo la voce di scienziati impegnati, di alto livello e appartenenti a pieno titolo all’establishment (cioè non si tratta di scienziati “dissidenti”), direi che illustri più che a sufficienza diversi punti che troppo facilmente sono ignorati dai fautori della vivisezione:
1. a ritenere la vivisezione gravemente colpevole “per atti e omissioni” ai danni del progresso medico sono scienziati di primissimo piano, esperti riconosciuti del settore — non un gruppuscolo di incolti e sentimentali amanti degli animali;
2. il fatto che un certo indirizzo di ricerca sia seguito dalla massa della comunità scientifica del settore non prova minimamente che si tratti di un indirizzo particolarmente fruttuoso (salvo che, ovviamente, in termini di pubblicazioni e di altri vantaggi extrascientifici);
3. l’insistenza sulla “pubblicabilità” di una ricerca sta deviando molti ricercatori medici dai problemi realmente importanti, quelli cioè che riguardano il paziente e il decorso della sua malattia, e li mette nelle braccia dell’industria farmaceutica che ha bisogno dell’avallo di uno scienziato ai suoi bollettini pubblicitari.
Potrei moltiplicare gli esempi a conforto di queste tesi (11), ma per i miei fini attuali sarebbe superfluo. In effetti non posso credere che Remuzzi (o i tanti colleghi che in un contesto pubblico si esprimerebbero più o meno come ha fatto lui, a partire da Silvio Garattini, fondatore del Mario Negri) non sappia quanto sono andato illustrando. Non posso cioè credere che non sappia che ci sono studiosi di altissimo livello secondo i quali i modelli murini sono una disgrazia per la ricerca oncologica, non certo una garanzia di progresso. Del resto, se veramente credesse che solo qualche inesperto animalista possa essere scettico circa l’uso dei modelli animali nella ricerca biomedica, ne dovremmo concludere che la sua disinformazione è di gran lunga superiore a quella che rimprovera ai non scienziati nella parte del suo articolo dedicata a improvvisate considerazioni sui rapporti tra scienza e democrazia. Essere ignari del carattere problematico e controverso di certe tesi ha conseguenze molto gravi, perché chi non riconosce un problema difficilmente ne troverà la soluzione: e abbiamo visto che ignorare la scarsa affidabilità dei modelli animali del cancro costituisce un grande spreco di risorse — e di vite umane.
Quello dei rapporti tra scienza e democrazia è un tema di cui mi occupo a vari livelli da diversi anni, e trovo abbastanza divertente che Remuzzi assuma che, a differenza della ricerca medica, su di esso si possa tranquillamente esprimere, per giunta con sussiego, anche chi non se ne è mai occupato — come appunto sembra essere il suo caso (12). Comunque sia, la tenuta logica del suo discorso al riguardo è facilmente valutabile quando si consideri che questo autore, il quale tratta sdegnosamente la percentuale dell’88% di italiani opposti alla vivisezione (in quanto, ci insegna, «Scienza e democrazia hanno regole molto diverse»), è lo stesso che, solo poche righe prima, aveva citato la proporzione di articoli su esperimenti su animali come prova della validità scientifica della vivisezione: insomma, il criterio della maggioranza vale o no nella scienza? Prima di esporci le sue considerazioni forse Remuzzi avrebbe fatto bene a mettersi d’accordo con sé stesso.
Desidero infine dare soddisfazione a quei lettori che l’argomento di Remuzzi sull’Escherichia coli potrebbe aver impressionato (soprattutto in queste ultime settimane!):
Senza la ricerca sugli animali non sapremmo che la tossina dell’E. coli — che è tossica sulle cellule renali in coltura — da sola non basta a fare danni al rene che portano alla dialisi tante persone, e danni al cervello che possono portare a morte. Senza animali non avremmo, quindi, potuto mettere a punto nessuna cura per questa malattia che in passato ha preoccupato gli Stati Uniti e oggi preoccupa l’Europa.
Esaminiamo in dettaglio quanto qui sostenuto (peraltro senza riferimenti scientifici).
In primo luogo, ammesso e non concesso che quella particolare proprietà della tossina dell’E. coli sia stata scoperta effettuando esperimenti su animali, non ne seguirebbe che senza tali esperimenti non avremmo potuto arrivarci. È come dire che siccome il signor Rossi ha preso l’ascensore per raggiungere il suo ufficio, egli non sarebbe potuto essere al suo posto di lavoro se l’ascensore fosse stato fuori servizio.
In secondo luogo la premessa nasconde una petizione di principio: esperimenti su animali possono aver suggerito che sull’uomo la tossina dell’E. coli non era da sola sufficiente a fare danni renali, ma la prova di ciò può essere stata data solo dallo studio di malati umani: pensarla diversamente significa assumere appunto ciò che è da provare, cioè la validità dell’estrapolazione interspecifica da animale a uomo. Del resto, l’idea che la logica di una scoperta scientifica possa essere ricostruita semplicemente citando alcuni aspetti della procedura effettivamente seguita dagli scopritori è così ingenua che non merita nemmeno una confutazione formale.
Infine la terza asserzione può sembrare sensata solo a chi abbia una conoscenza molto superficiale e idealizzata della storia della medicina, poiché il dato di fatto è invece che un gran numero di rimedi realmente efficaci per le malattie sono stati trovati e provati validi senza che si conoscesse né il meccanismo dell’insorgenza della malattia, né il meccanismo di azione del rimedio.
Ma ammettiamo, per amore di discussione, che l’esempio accennato da Remuzzi sia corretto: che cosa ne seguirebbe? In effetti ciò che più sconcerta in questa argomentazione è l’illusione che citando qualche esempio di successo di una certa metodica si possa dimostrarne la validità. Essendo vissuto a lungo a Napoli, mi è capitato di sentire raccontare casi sorprendenti di persone che avevano fatto una grossa vincita al lotto traducendo in numeri un sogno per mezzo della cosiddetta “Smorfia Napoletana”. Analogamente le persone che credono nell’astrologia possono di solito citare diversi casi di quasi miracolosa coincidenza tra un oroscopo e un’esperienza da loro realmente vissuta. Devo dire, a mio onore, che nemmeno da bambino questi aneddoti riuscirono a convincermi delle virtù della Smorfia Napoletana, dei sogni premonitori o dell’astrologia. E se i fautori della vivisezione sono costretti a far uso di argomenti che non convincono nemmeno un bambino, allora questa è un’altra conferma che sul piano scientifico e metodologico sono messi veramente molto male.
Naturalmente il punto è che la valutazione di una metodica, come la sperimentazione sugli animali o l’astrologia, non può essere fatta citando a caso qualche previsione indovinata. Senza negare l’importanza della ricostruzione storica di lungo periodo, o anche di quella di singoli episodi particolarmente significativi (ma fatta con sufficiente consapevolezza storico-metodologica), lo strumento di valutazione più indicato (anche se non privo di problemi anch’esso)(13) è la revisione sistematica, che nel caso della vivisezione seleziona nella letteratura le ricerche condotte su animali in un dato settore, attribuisce ad ognuna un “punteggio” corrispondente alla sua qualità e alla misura in cui sia stata confermata su base clinica, e poi sintetizza i risultati. Ora, la buona notizia è che tali revisioni sono state già eseguite da studiosi qualificati, e che è improbabile che i vivisezionisti non le citino per mera ignoranza, in quanto le hanno pubblicate riviste importanti. E allora come mai non le citano? Molto semplice: esse hanno portato a conclusioni non “cattive” ma devastanti per la vivisezione.
Un articolo apparso sul British Medical Journal nel 2004 si intitola: “Dove sono le prove che la ricerca su animali porta beneficio agli umani?”. I cinque autori (tra i quali ci sono quattro professori universitari di medicina, operanti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti in altrettanti settori diversi) hanno preso in esame venticinque revisioni sistematiche, che riguardavano campi così diversi come la terapia dell’ictus, il trattamento delle ferite, la resuscitazione dopo dissanguamento, e vari disturbi cardiocircolatori. La risposta che hanno trovato alla domanda che si sono posti è, in breve, che tali prove non ci sono. Ne concludono quindi, del tutto ragionevolmente, auspicando una moratoria sulla vivisezione:
Idealmente nuovi studi su animali non dovrebbero essere intrapresi finché non si sia fatto il miglior uso degli studi su animali già esistenti, e finché la loro validità e generalizzabilità alla medicina clinica non sia stata valutata.14
Nel 2008 è stata pubblicata un’altra analisi, stavolta di 27 revisioni sistematiche, che esaminavano il contributo della vivisezione alla medicina, e il bilancio è che delle 20 revisioni riguardanti il campo clinico solo due sembravano aver evidenziato un contributo positivo della sperimentazione animale, e di questi due casi uno era controverso; delle 7 revisioni riguardanti la tossicologia, « nessuna dimostrò chiaramente l’utilità dei modelli animali nella predizione di esiti tossicologici umani, come cancerogenicità e teratogenicità» (15).
A proposito della tossicologia, colgo qui l’opportunità per precisare che la stima dei fallimenti della vivisezione basata sulle reazioni avverse da farmaco è di gran lunga inferiore al totale. Bisogna infatti aggiungere gli enormi danni fatti da una tossicologia che continua a considerare le prove su roditori come la pietra di paragone. È dell’ottobre 2010 uno studio che ha mostrato che se l’Organizzazione Mondiale della Sanità si decidesse una buona volta a fissare il grado di tossicità dei pesticidi agricoli sulla base dei dati umani piuttosto che di quelli ottenuti sui ratti, e quindi a vietarne un certo numero, si potrebbero evitare ogni anno «centinaia di migliaia di morti intenzionali e accidentali globalmente senza compromettere i bisogni agricoli». Centinaia di migliaia di morti ogni anno. Spero che a questo punto sia chiaro a ognuno di che cosa stiamo parlando.16
Sempre nel 2008 un esperto di statistica, Robert Matthews, ha affrontato sul Journal of the Royal Society of Medicine il problema dell’attendibilità della vivisezione in maniera analoga a quella da me adottata in un articolo di qualche anno prima, cioè in termini di sensibilità e specificità. 17 Matthews ha fatto alcuni calcoli in uno dei pochi casi in cui sono disponibili dati sufficienti, quello della tossicità d’organo dei farmaci anticancro, e la sua conclusione (in accordo con quanto da me sostenuto in generale) è stata che «non ci sono prove che il modello animale abbia un qualsiasi valore di prova» (18).
Un apologeta della vivisezione ha replicato a Matthews sulla stessa rivista criticando l’impianto stesso dell’articolo: secondo lui è «futile e pedante» assegnare un punteggio alla vivisezione in quanto questa «è moralmente e scientificamente difendibile vuoi se ha contribuito ad alcuni, vuoi se a molti, vuoi se a praticamente tutti i progressi medici dell’ultimo secolo» (19). Cioè la vivisezione è una buona cosa anche se non funziona… Evidentemente questo non è il linguaggio del confronto razionale e del bilancio costi-benefici: è il linguaggio del fanatismo religioso. Quello che è peggio è che lo si possa contrabbandare come “difesa della scienza”, e farlo accettare come tale anche da riviste rispettabili.
Possiamo a questo punto dare una risposta alla domanda iniziale di come sia mai possibile che in difesa della vivisezione si dicano certe enormità: si tratta di una strategia comune a molti difensori di cause perse. In altre parole, se la tua tesi è implausibile, gioca al rialzo e sostienila con argomenti ancora più implausibili: può darsi che qualcuno, confuso dalle crescenti assurdità, cominci a considerare quella iniziale come accettabile. Per esempio, se sei accusato di aver comprato un grosso appartamento pagandolo per più della metà con assegni in nero, dichiara che qualcuno ha pagato al posto tuo la somma incriminata senza informartene. Se sei un politico sospettato di una relazione con una minorenne, dichiara che pensavi fosse la nipote di un capo di stato straniero e che i tuoi interventi a suo favore avevano lo scopo di evitare al Paese un incidente diplomatico. Se dirigi un istituto con più di 150 “borsisti” che hanno un orario di lavoro di 8 ore al giorno, e non è tua regola assumerli neanche dopo 5 anni di permanenza, dichiara: «Noi non conosciamo il fenomeno del precariato. In 50 anni non abbiamo mai avuto questo problema». E se sei un vivisettore e ti si accusa di esercitare un’arte divinatoria pericolosa e senza fondamento scientifico, dichiara che senza esperimenti su animali sarebbe la fine della medicina (20).
Storicamente parlando, l’impervietà agli argomenti contro una certa attività in chi ha legato ad essa il proprio prestigio professionale (e lo stipendio)21 non è certo una novità. Chi cerchi una confutazione sostanzialmente definitiva dell’astrologia non ha che da consultare un’opera del I sec. a. C.: il secondo libro del De divinatione di Cicerone (§§ 87-99) (22). Ciò nonostante gli astrologi hanno continuato a lucrare sulle loro interpretazioni dei temi natali per altri due millenni (e non hanno finito!). Analogamente (23), non mi aspetto “conversioni” di vivisettori, soprattutto di quelli con ruoli dirigenziali, qualunque sia la qualità e la quantità degli argomenti portati contro la vivisezione. Per un Pietro Croce che un giorno ha capito che aveva sprecato anni di lavoro praticando una metodica scientificamente spuria e ha avuto il coraggio (perché di coraggio si tratta, non solo di intelligenza) di pubblicare un memorabile bilancio negativo di quella sua esperienza professionale (24), c’è un numero imprecisato di vivisettori che evitano accuratamente di imbarcarsi in una riflessione che potrebbe costringerli a un imbarazzante esame di coscienza e a un drastico ridimensionamento delle proprie ambizioni mondane. Come soleva dire Hans Ruesch, gli scienziati antivivisezionisti (che lui stesso aveva ampiamente pubblicizzato e antologizzato in opere famose e diffuse in tutto il mondo)(25) più che una minoranza sono una élite.
A tal riguardo è il caso di ricordare il famoso parere di un grande scienziato che operava in un altro campo, un po’ più rigoroso, diciamo, di quello biomedico: la fisica. Lo scienziato era Max Planck, e nella sua autobiografia scientifica scrisse: «[…] una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, quanto piuttosto perché alla fine muoiono, e nasce una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari». Forse si deve anche a un’oscura consapevolezza che così stanno le cose se la legge 413 del 1993, sull’obiezione di coscienza alla vivisezione, è stata sistematicamente boicottata in numerosi atenei per oltre un quindicennio (il che, si badi bene, configura un reato, per il quale sono in corso diverse denunce). Questa considerazione spiega anche perché il ruolo dei cittadini nel premere affinché la ricerca in campo medico cambi indirizzo è importantissimo proprio dal punto di vista del progresso scientifico. Non dovrebbe essere necessario insistervi in Italia, dove i cittadini hanno dimostrato una notevolissima capacità di assorbire, organizzare e condividere il sapere degli specialisti nelle lotte contro il nucleare (culminate nello straordinario esito del referendum del 12-13 giugno scorso) e contro la Tratta ad Alta Velocità in Val di Susa, per citare solo due esempi recenti. Spetta piuttosto agli scienziati sforzarsi di considerare i propri concittadini, sistematicamente, come interlocutori (no, accorgersi della loro esistenza soltanto quando si tratta di lanciare appelli “per il finanziamento della ricerca” non è sufficiente).
In conclusione, c’è un punto che bisogna concedere a chi sostiene che senza la vivisezione la medicina finirebbe: la fine della vivisezione darebbe un forte impulso al declino di un certo tipo di medicina — quella che ignora le obiezioni all’affidabilità dei “modelli animali” pur di permettere ai ricercatori di allungare con relativa facilità la lista delle pubblicazioni; quella che confonde tra sponsorizzazione e meretricio scientifico; e quella che fa più vittime ogni anno della guerra contro l’Iraq e dello tsunami del 2004 messi insieme. Ma questa medicina non saranno in molti a rimpiangerla.
Marco Mamone Capria
luglio 2011
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Note:
* Dipartimento di Matematica, Università di Perugia, email: mamone@dmi.unipg.it
1 In questa sede non tratterò delle difficoltà, niente affatto trascurabili, della sperimentazione intraspecifica (cioè sperimentare su una specie animale per ottenere informazioni sulla stessa specie animale). Vedi Mamone Capria 2003, pp. 15-6.
2 Mamone Capria 2003, 2009
3 Vedi ad esempio Dreyfuss, Vest 2004.
4 Archibald et al. 2011.
5 www.biospace.com/company_profile.aspx?CompanyId=4132 .
6 Qui e altrove i corsivi all’interno delle citazioni, così come tutte le traduzioni, sono miei.
7 «Says Weinberg: "A fundamental problem which remains to be solved in the whole cancer research effort, in terms of therapies, is that the preclinical models of human cancer, in large part, stink."».
8 Smith 2005.
9 Angell 2000.
10 Ioannidis 2005. Una presentazione non tecnica del avoro di Ioannidis è Freedman 2011.
11 Gli interessati troveranno sicuramente utili le interviste a scienziati antivisezionisti sul sito di Antidote- Europe.
12 Sul sito di Remuzzi non appare nessun riferimento a suoi interessi intellettuali extraspecialistici, e nell’elenco delle pubblicazioni (finora ben 1047, più di tre volte gli articoli scientifici — compresi recensioni, prefazioni, testi divulgativi o epistemologici — di Albert Einstein in tutta la sua carriera) non ne ho trovato nessuno che abbia nel titolo un termine associato a “democrazia” o “politica”.
13 Ne ho trattato in Mamone Capria 2007 commentando Perel et al. 2006 (un’altra revisione sistematica con risultati penosissimi per la vivisezione).
14 «Ideally, new animal studies should not be conducted until the best use has been made of existing animal studies and until their validity and generalisability to clinical medicine has been assessed» (Pound et al.2004).
15 Knight 2008.
16 I soli suicidi per avvelenamento mediante pesticidi sono stimati tra i 250.000 e i 370.000 all’anno in tutto il mondo (Dawson et al. 2010, Miller, Bhaila 2010).
17 Mamone Capria 2003, pp.
18 Matthews, 2008.
19 Festing 2008.
20 La dichiarazione tra virgolette è di Silvio Garattini e riguarda l’Istituto Mario Negri (Campese 2010).
21 Naturalmente ci sono molti ricercatori sfruttati dagli istituti in cui lavorano e per i quali le ambizioni carrieristiche rimarranno sogni.
22 Ne esiste presso Garzanti un’ottima edizione a cura di uno dei massimi filologi e saggisti del secolo scorso, Sebastiano Timpanaro.
23 Non a caso la rivista Skeptic (che si occupa appunto di vari tipi di pseudoscienza, creazionismo ecc.) ha pubblicato sulla sperimentazione animale un articolo di taglio fortemente critico (Shank et al. 2007).
24 Croce 2000.
25 In particolare vedi Ruesch 1989
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