DI
ALESSIO MANNINO
ilribelle.com
Se l’Italia andasse in default, cioè dichiarasse fallimento, cosa accadrebbe?
E se abbandonasse l’euro per tornare alla lira?
Sono domande fantapolitiche, sia chiaro. Già la Grecia, che di suo produce il Pil della sola provincia di Treviso, è stata costretta sul lettino operatorio dei medici horror Fmi, Bce e Ue, che pur di salvare il paziente, lo ammazzano sotto i ferri. Figuriamoci con paesi della stazza di Spagna e Italia, molto più importanti nello scacchiere economico e geopolitico europeo: il rischio che i paesi guida di Eurolandia, Francia e Germania, li lascino andare a fondo non è neppure nel novero delle possibilità. A meno che, s’intende, non decidano di far affondare l’euro. Ma il collasso della moneta unica è scartato a priori finché a decretarlo a tavolino non sarà chi tiene i fili nell’ombra, ossia i centri di potere bancario e finanziario burattinai della Banca Centrale di Francoforte e della Commissione di Bruxelles.
Ma il gioco dei “se” può tornare utile per mostrare in quale paradossale vicolo cieco siamo andati a ficcarci. L’Italia ha un prodotto interno lordo di circa 1500 miliardi di euro, e paga all’usura bancaria qualcosa come 90 miliardi di euro all’anno di soli interessi sul debito. Se facessimo crack, questo buon 6% del Pil cesserebbe di finire nei caveau bancari e potrebbe essere usato come spesa pubblica. Certo, inizialmente saremmo investiti da una guerra d’aggressione senza precedenti da parte di un’indemoniata speculazione straniera, ma poi all’estero dovrebbero mandar giù il rospo. La sola alternativa in mano ai signori del denaro sarebbe una guerra vera. Ma sarebbero in grado, i loro funzionari politici tedeschi e francesi, di assumersi la responsabilità di distruggere l’unità europea, la Nato e tutto il circo al seguito scatenando un conflitto bellico? E gli Usa: arriverebbero a inserirci nella lista degli Stati-canaglia assieme a Iran e Corea del Nord?
Ripudiare il debito che ci lega come asini da soma significherebbe, insomma, far implodere il sistema Europa. Questo legame è l’unico, reale, pesantissimo ostacolo alla riconquista di una piena sovranità. L’Islanda ha potuto farlo perché ne era già fuori. L’Argentina, pur invischiata fino al collo nella ragnatela della finanza internazionale, ri-nazionalizzando moneta e industrie strategiche e liberandosi dei ceppi del Fmi, è uscita dal tunnel e ha ripreso a vivere. Noi siamo gravati da un’ulteriore, e ben più dura, catena: l’europeismo dogmatico e aprioristico, che fa credere che l’Europa così come è, monetarista e banksterizzata, sia un totem inviolabile, l’undicesimo comandamento, un’entità sacra quando invece è una costruzione storica soggetta, come ogni altra realtà umana, alla trasformazione e alla morte.
E tuttavia l’argomento europeista resta sullo sfondo, proprio in quanto considerato fuori discussione. A difesa del debito, e del dovere religioso di farci accoppare di tagli e tasse in suo nome, viene buono un altro argomento, spacciato per buon senso del padre di famiglia: rifiutarsi di farvi fronte sarebbe moralmente ingiusto nei confronti dei risparmiatori esteri, poveri diavoli anche loro. Eh no. Costoro rappresentano appena il 13% dei nostri titoli di debito, il resto è detenuto da quelli che in gergo si chiamano investitori istituzionali: banche, società di intermediazione, assicurazioni ecc. I piccoli risparmiatori potrebbero riavere il tesoretto perduto con nuovi titoli di Stato emessi dopo la liberazione dal debito, mentre gli altri, i vampiri della finanza, dovrebbero rinunciare agli interessi sugli interessi. Sarebbe un crollo, in prospettiva, salutare. Come quegli shock traumatici che, seppur dolorosi, in casi di grave apatia sono indispensabili a risvegliare il malato.