DI
CLAUDIO MOFFA
In Siria, base navale di Tartus, arriva la flotta russa; in Turchia, finisce agli arresti l’ex capo di stato maggiore turco Ilker Basbug, accusato di aver tramato un colpo di stato kemalista contro Erdogan; in Iran, Al Qaida va all’attacco di Ahmadinejad, mentre circola l’ennesima petizione internazionale anti Teheran, a favore questa volta di una terrorista secessionista curda. Notizie buone dunque – Putin che stoppa i furori della lobby USA e di Israele contro Damasco; Erdogan che sconfigge i finti laici eredi di Kemal Ataturk, i più fedeli alleati dell’integralismo ebraico-sionista in Medio Oriente dai massacri degli armeni in poi – ma anche degne di riflessione, e nel caso di Teheran da monitorare con attenzione e da “condividere”, nel senso di cogliere le responsabilità anche di noi occidentali nella formidabile campagna di demonizzazione della democrazia iraniana e dei suoi vertici legittimi consacrati dal voto popolare.
Per quel che riguarda la Turchia, ancora una volta è da chiedersi quanto nelle più recenti prese di posizione del premier Erdogan, di condanna a volte frontale della Siria di Assad, o di attendismo e complicità-Nato con la guerra di aggressione alla Libia, ci sia stato del “suo” – un islàm moderato e democratico schierato contro due “dittature” invise all’Occidente pro israeliano – e quanto di logiche di alleanza; ovvero di considerazione della fase di transizione ancora inconclusa vissuta dalla Turchia postkemalista. Un regime forte, duro a morire, sedimentato in decenni cultura finto-laica e anti islamica che ha conformato quadri dirigenti e medi delle più alte istituzioni dello Stato, a cominciare dalle Forze Armate e dalla Magistratura. E i colpi di coda potrebbero essere non ancora finiti.
La questione Iran è diversa, e come ho appena detto riguarda anche noi occidentali, ivi comprese le componenti più radicali del movimento … pacifista? antiimperialista? Insomma quella roba lì. Nel lontano 1988, in un numero di Quaderni Internazionali dedicato a “La questione nazionale della decolonizzazione: per una rilettura del principio di autodecisione dei popoli” ponendo come questione da discutere – oggi evidentissima ma allora incipiente – quella tendenza alle balcanizzazioni degli Stati sovrani sortiti dall’assetto postbellico e dalla decolonizzazione ad opera del sionismo e dell’Occidente oltranzista, proposi una categoria mutuata da quella leniniana di “cretinismo parlamentare”. Il cretinismo di quei tempi – ma che perdura ancora oggi, vedi il Campo antiimperialista – era per me il cretinismo guerrigliero: ragionando astoricamente e al di fuori di ogni contesto geopolitico e politico, tradendo persino la lettura dei classici del marxismo, bastava per certi postsessantottini attempati che ci fosse in quale che sia angolo del mondo un guerrigliero col mitra in mano a cianciare di “liberazione nazionale”, che quello diventava subito un compagno, da sostenere in nome di tutta la galleria dei padri del marxismo-leninismo. L’esempio che facevo era proprio quello dei curdi, di cui sottolineavo le divisioni interne, l’odio antiarmeno usato periodicamente dai turchi, le simpatie acclarate dei filo sionisti italiani in funzione antiaraba e antipalestinese, e l’uso disinvolto dei servizi segreti occidentali pro israeliani per debellare di volta in volta il nemico di turno. Il caso Ocalan avrebbe dimostrato la “debolezza strutturale” del nazionalismo curdo, oggi con ogni evidenza nelle mani di Israele e dell’Occidente antiarabo e antiislamico: arrestato in Africa con l’aiuto del Mossad (ma all’epoca, ad Ankara, c’era appunto l’alleato kemalista), il leader del PKK appena poté fece sapere da dietro le sbarre che si era messo a leggere le opere di Kemal Ataturk. Un buffone. Un dirigente di RC di allora, Luigi Pestalozza, ricordò che Ocalan era rimasto probabilmente coinvolto nell’assassinio di Olof Palme, un leader inviso a Israele, ma questo non bastò ad impedire che il PKK diventasse un punto di riferimento importante per feste e manifestazioni dell’area di sinistra estrema. Con uso perverso e criminale di uno stand cubano a Castel Sant’Angelo di Roma – si trattava di una festa di “liberazione” anni Novanta – invaso da manifesti e foto di Ocalan e dei suoi seguaci.
Oggi l’Iran di Ahmadinejad, impegnato in un contenzioso difficile con l’Occidente pro israeliano, è oggetto di un ennesimo attacco proprio per la “questione curda” e a partire da presunti diritti umani presuntamente violati: circola così una petizione a favore di tal Ronak Saffarzadeh, arrestata dalla polizia iraniana dopo che una perquisizione a casa sua aveva dimostrato la sua affiliazione al Pijak, partito “gemello” del PKK e da questo fondato nel 2004 nei territori curdi dell’Iran: un gruppo secessionista, sostenitore della separatezza dei curdi dal resto della popolazione iraniana, e soprattutto artefice di una miriade di attentati stragisti contro Teheran. Saffarzadeh, definita “prigioniera del giorno” dai sostenitori della petizione a suo favore, è stata condannata a sei anni e mezzo per attività terroristica, la Corte avendo respinto come non sussistente – a dimostrazione di certa “laicizzazione” delle elites di Teheran – l’accusa di “ostilità a Dio”. Non si capisce cosa ci sia di scandaloso; non si capisce perché mai bisognerebbe sottoscrivere a scatola chiusa questa petizione, a favore di una militante di un partito il cui segretario generale amoreggia con la bandiera dello stato d’Israele, e in un momento in cui l’Iran è minacciato per la sua politica di indipendenza e sovranità sul nucleare e sulle sue alleanze regionali. Cose, per finire, anche di casa nostra,vista la necessaria revisione del “cretinismo guerrigliero” e della questione dei “diritti umani” a senso unico, residui dello scorso secolo che arrivano dritti dritti fino all’oggi.
Sulla stessa linea d’onda si pone la lettura dell’accusa di Al Qaida a Ahamedinejad di “complottismo” a proposito dell’11 settembre. Al di là di ogni considerazione sul perché ora – è evidente il tentativo di dividere i “veri” islamici , magari sunniti, dagli sciiti iraniani, lavorando alla “base” mentre ai vertici planetari si ordisce la trama di una nuova guerra – anche in questo caso non è sbagliato ricordare che il problema è anche in casa nostra: né riguarda solo gli indecenti anatemi degli anticomplottisti doc – quelli che nelle TV inorridiscono alla sola idea di essere richiesti di riflettere sulle innumerevoli contraddizioni della versione ufficiale e cianciano di negazionismo dell’11 settembre – ma anche certi raffinatissimi “opinionisti” sedicenti pro islamici e propalestinesi che, esattamente come Al Qaida, ritengono che l’11 settembre non sia stato un criminale attentato stragista che ha finito per colpire gran parte del mondo islamico, laico e meno laico, ma invece un vero attentato “musulmano”, fatto magari da “fedeli di Allah” “che sbagliano”. Idiozia madornale, che qualcuno ancora sostiene. Così come sussiste ancora una più sottile forma di debunking, che pretende di mettere in prima fila il cretino-sionista G. W. Bush e la solita CIA (la variante odierna è Obama), per occultare il ruolo altrettanto evidente per mole di indizi e per cui prodest, di Israele – un Israele assediato a Durban tra la fine di agosto e i primi di settembre del 2001 – e del Mossad. I nomi non li faccio, ma ci sono film made in Italy o in USA, e saggi-libri di autorevoli esponenti della lotta per la “verità” sull’11 settembre che giocano all’antiamericanismo facile per pararsi meglio le spalle: saggi-libri che vengono di poi diffusi da altri opinionisti, di quelli che tu li inviti al master sperando che parlino bene, e invece ti rifilano le solite antiamericanate senza senso. La situazione è complessa, come si suol dire. Ma “meno male che Ahamdinejad c’è”, col suo coraggio anche nel dire la verità vera, la sua determinazione e il suo orgoglio indipendentista in difesa dei diritti sovrani del popolo iraniano e, oso dire, di tutti i popoli del mondo.