Apro questo articolo parlando del ponte della Colombiera (foto a sinistra), che è crollato in seguito alla disastrosa alluvione di ottobre scorso in Liguria. Fino a qualche giorno fa l’amministrazione pubblica ha detto che non si poteva procedere ai lavori di ristrutturazione del ponte perché mancavano i soldi. Oggi invece la Regione Liguria dice che i finanziamenti sono stati magicamente trovati, non si sa dove e non si sa come, anche se bisogna procedere a un lungo iter burocratico prima di iniziare le opere di ricostruzione del ponte. Insomma la strada è ancora in salita.
Ma cosa significa che mancano i soldi? Quale stato può essere ridotto in una simile condizione di impotenza? Per quale motivo i residenti in un certo suolo pubblico delimitato dai confini nazionali decidono di aderire al patto sociale che li rende cittadini di uno stato? Ma soprattutto, cosa significa oggi in Italia la parola “democrazia”? Tornando al ponte, chiunque può facilmente intuire che avevamo già tutto per iniziare i lavori: il cemento, i tondini di ferro, le impalcature, i progetti degli ingegneri, gli operai disoccupati. Eppure mancando il carburante, i soldi, il ponte poteva rimanere lì, a mezz’aria, per anni. Come mai?
Lo stato nel suo complesso dovrebbe essere un accordo fra tante persone diverse, i cittadini, che decidendo di unirsi insieme cercano di rendere la vita più facile a tutti e soprattutto credono che la convivenza civile e democratica sia molto più conveniente dell’anarchia. La carta costituzionale, il contratto sociale, idealmente firmato da ogni cittadino alla nascita, è abbastanza esplicita in questo senso: lo stato deve utilizzare ogni mezzo a disposizione per arrecare benefici e benessere ai suoi cittadini, i quali per assicurarsi questi diritti e vantaggi dovranno rispettare certi doveri costituzionali.
Ma se non può più costruire un ponte a che serve lo stato? Qual è il vantaggio che offre lo stato ai suoi cittadini? Forse l’Italia non è più uno stato? O magari è ancora uno stato ma non più esattamente democratico? Ecco, l’Italia. Esaminando meglio la questione, possiamo senz’altro concludere che l’Italia in questo momento rappresenta un’anomalia democratica, un’eccezione, una forma di governo ibrida, che sta a metà, a mezz’aria, proprio come il ponte: l’Italia non è più da alcuni anni una democrazia compiuta e non è ancora una dittatura dichiarata (almeno a parole, ma nei fatti siamo ormai molto vicini ad un singolare quanto preoccupante regime dittatoriale).
Tuttavia, per capire meglio il motivo per cui siamo balzati subito a questa conclusione, dobbiamo sforzarci di immaginare adesso la stessa scena del ponte crollato in un vero stato democratico come il Canada, la Svezia, l’Argentina, ma anche gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone, e vedere cosa sarebbe successo di così differente in quei paesi, che in Italia, per una curiosa e inquietante serie di motivi, non può più accadere.
Il ministro dei lavori pubblici canadese riceve la notizia del crollo di un ponte nella regione del Quebec dalla protezione civile e insieme ai suoi tecnici si reca sul posto per fare un sopralluogo. I danni sono gravi, è crollata l’intera arcata centrale del ponte e alcuni paesi su una delle sponde del fiume sono rimasti isolati. Il ministro chiede ai tecnici di stimare i danni e di fare subito un preventivo. Nel giro di un paio di giorni il ministro ha in mano il preventivo e contatta il ministro delle finanze per chiedere i finanziamenti inviando una copia del preventivo. Il ministro delle finanze canadese prende il telefono e chiama il governatore della banca centrale del Canada, dove il governo detiene il proprio conto di deposito, per chiedere ragguagli sulla liquidità in cassa.
A questo punto il governatore verifica il saldo del conto statale e vede che è in rosso di circa un miliardo di dollari canadesi. L’inflazione in Canada è salita nell’ultimo periodo di quasi mezzo punto percentuale e bisogna quindi agire con cautela prima di allungare ulteriormente la liquidità circolante sul mercato interno. Il dollaro canadese si è svalutato nell’ultimo trimestre rispetto alle altre valute estere, a causa di un leggero passivo nella bilancia commerciale, dovuto a un calo delle esportazioni. Il governatore della banca centrale chiede allora al ministro delle finanze di emettere dei titoli di stato per un totale di 3 milioni di dollari, pari alla cifra richiesta per rifare il ponte in Quebec e in cambio di questi titoli aggiunge una cifra pari a 3 milioni sul conto di deposito governativo, pigiando un semplice tasto del suo computer. La banca centrale utilizzerà poi i nuovi titoli di stato emessi e consegnati dal ministero delle finanze per drenare liquidità dal mercato interbancario, qualora dovesse verificarsi un’altra impennata dell’inflazione.
Preso atto che la svalutazione del dollaro canadese non è stata sufficiente ad aumentare i volumi delle esportazioni, il ministro delle finanze in accordo con il ministro dell’economia decide di attuare un piano di detassazione delle imprese canadesi per rendere ancora più competitivi i prodotti nazionali e rilanciare le esportazioni nel trimestre successivo. Siccome i consumi interni sono in picchiata, il ministro delle finanze decide di non aumentare la pressione fiscale generale che grava sui cittadini canadesi, per evitare di deprimere ancora di più i consumi. Allo stesso tempo decide di finanziare un progetto di riconversione energetica che consente un maggiore utilizzo dell’energia solare e del riscaldamento tradizionale tramite il legno, che abbonda in Canada, per limitare le importazioni di petrolio e gas.
A questo punto i soldi sono pronti. E mentre il ministro delle finanze era a colloquio con il governatore della banca centrale, gli operai erano già al lavoro per costruire il cantiere nei pressi del ponte. In poco meno di un mese il ponte era già ricostruito.
Questa non è fantascienza, ma è soltanto l’ipotetica ricostruzione ideale di come funziona e dovrebbe funzionare un vero paese democratico, che ha un ventaglio di scelte di politica economica e monetaria praticamente illimitato per agire nell’interesse della nazione e della cittadinanza. Se andiamo a leggere cosa viene riportato sul sito della banca centrale del Canada possiamo ritrovare questa incredibile descrizione, che se confrontata con la situazione italiana odierna sembra discendere dritta dal pianeta Marte:
“La Bank of Canada è la banca centrale della nazione. Noi non siamo una banca commerciale e non offriamo servizi bancari al pubblico. Piuttosto, noi abbiamo la responsabilità per conto del Canada della politica monetaria, dell’emissione delle banconote, del sistema finanziario e della gestione dei fondi e delle riserve. Il nostro principale ruolo, come riportato nell’atto costitutivo della Bank of Canada, è promuovere il benessere economico e finanziario del Canada.
La Bank of Canada è stata fondata nel 1934 come un istituto privato. Nel 1938, essa divenne un ente della Corona (britannica) di proprietà del governo federale. Da quel momento, il ministero delle finanze detiene l’intero capitale della banca. In definitiva, la Bank of Canada è di proprietà dei cittadini del Canada. Tuttavia la Bank of Canada non è un dipartimento del governo e conduce le sue attività con notevole indipendenza rispetto alla maggior parte delle altre istituzioni federali.”
Agghiacciante. La Bank of Canada che ha il compito esclusivo di creare e gestire la moneta a corso legale del Canada, il dollaro canadese, è di proprietà dei cittadini e il suo scopo è quello di promuovere il loro benessere. La banca centrale è un ente interamente pubblico, ma per mantenere una buona stabilità finanziaria agisce in totale indipendenza dalle altre istituzioni governative. Se andiamo subito a confrontare quello che viene riportato sui Trattati di Funzionamento dell’Unione Europea, a cui l’Italia ha aderito nel 1992 con la firma del Trattato di Maastricht, leggiamo invece quanto segue in riferimento alla Banca Centrale Europea BCE:
“L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse e rispettando i principi di cui all’articolo 119. (articolo 127)
Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti. (articolo 130)
Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali.” (articolo 123)
Avete letto qualcosa che fa riferimento ai cittadini europei e al loro benessere? No, niente. La BCE ha come unico obiettivo quello di mantenere la stabilità dei prezzi e non solo agisce in totale indipendenza, ma non ha alcun legame di proprietà e impegno nei confronti degli stati membri. La BCE, a differenza della Bank of Canada (e di qualsiasi altra banca centrale mondiale degna di questo nome) non può concedere finanziamenti diretti agli stati membri, nonostante questi ultimi siano obbligati per legge ad accettare l’euro come moneta a corso legale. Il monopolio esclusivo e privato della moneta non determina soltanto profitti alla banca centrale in termini di signoraggio (che malgrado certe tesi che circolano a riguardo è una parte marginale del problema), ma cancella qualsiasi autonomia in campo di politica economica e monetaria di ogni singolo paese e dell’eurozona nel suo complesso. Ogni stato deve arrangiarsi da solo per reperire i finanziamenti di cui ha bisogno e nel caso abbia superato il limite di indebitamento, previsto dal vincolo del pareggio di bilancio, deve per forza agire soltanto su due leve: diminuire la spesa pubblica o aumentare le tasse.
La riforma del lavoro di questi giorni si inserisce perfettamente in questo quadro raccapricciante di gestione dei flussi finanziari. Siccome lo stato ha una capacità di spesa limitata dal gettito fiscale raccolto, non può più agire sulla leva dei sussidi diretti e della detassazione alle imprese italiane, che sono fra le più tartassate del mondo, ed ha solo un’altra alternativa per dare impulso ad un’economia ormai in recessione: rendere il mercato del lavoro più flessibile e concedere alle imprese la possibilità di licenziare e alleggerirsi più facilmente, utilizzando questa arma di ricatto per abbassare progressivamente i salari. Non ci sono altri spazi di manovra per rilanciare le esportazioni e migliorare la competitività dei prodotti italiani, perché l’euro è una moneta a tasso di cambio fisso di tipo gold standard che non può spontaneamente svalutarsi e dal punto di vista della politica monetaria lo stato è diventato ormai completamente inerte ed impotente. I soldi che utilizza per spendere non sono più suoi, ma li prende in prestito da 20 grandi gruppi bancari internazionali (fra cui Unicredit, Banca Intesa, Monte dei Paschi, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley). E questi soldi vanno restituiti a scadenza con gli interessi prelevandoli dai contribuenti italiani.
E il ponte? Il ponte può rimanere lì a marcire finchè non si trova un’altra fonte di spesa a cui tagliare i fondi, che può essere la scuola, la sanità, la sicurezza. Oppure si mette un’altra accisa sulla benzina e sugli alcolici, spalmando i costi su tutti i consumatori. Ma voi sicuramente vi starete già chiedendo per quale motivo lo stato si sia ridotto ad elemosinare soldi come un accattone, mandando tutti i suoi cittadini sul lastrico. Bene e qui arriviamo al punto: lo stato democratico che conoscevamo noi, quello fondato sul lavoro e con il popolo unico detentore della sovranità, che prevede una forma di governo basata sulla rappresentanza politica parlamentare, non esiste più, è stato stralciato, emendato, è finito da un pezzo. L’Italia ormai è entrata in un meccanismo che con la democrazia non ha più nulla a che spartire. Questa forma di governo si può chiamare in tanti modi, dittatura finanziaria, plutocrazia, oligarchia, tecnocrazia, ma in ogni caso in questa nuova entità giuridica i cittadini non hanno più alcuna voce in capitolo. Possono soltanto pagare le tasse, consumare, votare (quando possibile) persone già scelte da altri e lavorare alle condizioni imposte dai nuovi detentori del potere sovrano.
Avendo una capacità di spesa ridotta, molto probabilmente per continuare a funzionare e ripagare i suoi creditori lo stato sarà costretto nei prossimi anni a dismettere e svendere gran parte del suo patrimonio e delle sue risorse pubbliche (anche l’acqua, fra non molto le aziende private arriveranno a mettere le mani sull’acqua, perché la sconfitta nel referendum rappresenta uno dei motivi per cui è stato cacciato via Berlusconi a colpi di spread). Inoltre lo stato o quel che ne rimane metterà a disposizione delle aziende private nazionali e internazionali i suoi cittadini come se fossero una vera e propria mercanzia di scambio, manovalanza a basso prezzo, nient’altro che merce, schiavi da assumere e licenziare in qualsiasi momento secondo quelle che sono le convenienze economiche dei nuovi padroni.
Chi non si adatta alle nuove disposizioni contrattuali, può benissimo farsi le valigie e andare in un altro paese europeo, perché la mobilità dei lavoratori era una delle clausole imposte agli stati per aderire alla moneta unica. Merce siete e merce diventerete: se resti ti schiavizzo, se parti fai lo stesso il mio gioco perché verrai schiavizzato da un altro padrone. A meno che il cittadino italiano non va in Canada, Svezia, Australia, Islanda e in uno degli altri paesi democratici rimasti del mondo, allora lì avrà magari la possibilità di rifarsi una nuova vita libera, dignitosa, vera, sovrana. L’Europa non sentirà la sua mancanza perchè nel suo complesso non avrà perso niente dato che intanto potrà sempre contare sull’ingresso di nuovi schiavi provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Sudamerica, che verranno subito messi in concorrenza con i residenti.
Come dicevamo questo processo di progressiva espropriazione della democrazia è iniziato già da un bel pezzo e in questi ultimi mesi è stato solo apposto qualche nuovo tassello per arrivare a definitivo compimento. Gli emissari dei nuovi detentori del potere sovrano, Mario Monti (Goldman Sachs), Elsa Fornero (Banca Intesa), Corrado Passera (Banca Intesa), sono persone molto ricche, addestrate a dovere e foraggiate nel corso della loro carriera a forza di parcelle milionarie, a cui è stato chiesto solo un piccolo gesto di riconoscenza per mettere in pratica rapidamente ciò che i politici di professione stavano attuando con troppa lentezza.
Il parlamento stesso ormai è un’istituzione inutile, ridondante, poco efficiente perchè di fatto non ha più alcun potere decisionale e può solo vidimare a valle ciò che è stato stabilito a monte dai nuovi reggenti. Il parlamento verrà sfoltito (cosa giusta e sacrosanta, ma se la finalità è quella di delegittimare un fondamentale organo costituzionale del paese allora è sbagliata), i dipendenti pubblici dovranno adeguarsi alla mobilità e ai licenziamenti (come sta già accadendo in Grecia) e i funzionari pubblici avranno soltanto il compito di mettere timbri sulle concessioni da assegnare ai nuovi proprietari privati del patrimonio pubblico. Tutto qui, lo stato sarà solo un piazzista di beni pubblici e un semplice intermediario fra la manovalanza e i padroni. Dimenticativi quindi termini aulici come giustizia, uguaglianza, libertà, diritto costituzionale perché tutto ciò che è giusto ed equo lo decide soltanto il mercato in base a semplici calcoli di utilità e profitto.
Per avere un’idea di quali sono state le tappe più importanti e i nomi che hanno contribuito alla realizzazione del progetto di espropriazione della democrazia, teniamo sempre a mente queste date e questi eventi:
ü 1979: l’Italia decide di entrare nello SME (Sistema Monetario Europeo) dove la lira non può più svalutarsi liberamente secondo le leggi del mercato e i flussi commerciali con l’estero, ma è costretta ad essere agganciata in una rigida banda di oscillazione (±6%) chiamata “serpente monetario” ad altre dieci monete europee. In questo modo la politica monetaria italiana viene condizionata e limitata dall’obbligo di mantenere la lira all’interno di questo stretto corridoio (Giulio Andreotti, presidente del consiglio, poi sostituito da Francesco Cossiga, Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, travolto da un’inchiesta giudiziaria e costretto a dimettersi per lasciare la carica a Carlo Azeglio Ciampi)
ü 1981: viene sancito il cosiddetto “divorzio” fra Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, perché la banca centrale non può più acquistare titoli di stato nelle aste primarie di collocamento come acquirente residuale per mantenere basso il rendimento dei titoli. Da quel momento l’Italia perde parte della sua sovranità monetaria, dato che mantiene ancora un conto di deposito presso la banca centrale con facoltà di scoperto ma può vendere i suoi titoli di stato soltanto alle banche commerciali. A causa dell’aumento incontrollato del rendimento e dell’interesse dei titoli, il debito pubblico comincia la sua cavalcata inarrestabile (Beniamino Andreatta, ministro delle finanze, Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Banca d’Italia)
ü 1990: Carlo Azeglio Ciampi decide di restringere la banda di oscillazione della lira rispetto alle altre monete europee dentro un corridoio più stretto del ±2,25%, iniziando una politica monetaria di contrazione della liquidità che favorì un ulteriore innalzamento dell’interesse sui titoli e del debito pubblico. Questa estrema rigidità di cambio della lira impedisce quei necessari e spontanei processi di aggiustamento e svalutazione della moneta nazionale che favoriscono la produttività e le esportazioni senza intaccare i salari dei lavoratori e i profitti delle imprese
ü 1992: l’Italia aderisce al Trattato di Maastricht e la Banca d’Italia è costretta l’anno successivo a congelare il conto di deposito detenuto dallo stato, senza potere più concedere anticipazioni o scoperti di conto allo stato. Fine della sovranità monetaria. Lo spazio di manovra politica e democratica dello stato viene di fatto azzerato, perché uno stato che non può più spendere i suoi soldi per il benessere dei cittadini non ha più senso di esistere, il contratto sociale che prima rendeva a tutti conveniente l’aggregazione sotto un’unica nazione e l’osservanza di una costituzione non ha più alcun valore. La convivenza civile si baserà adesso su altre regole basate sulla libera concorrenza, la competitività, l’efficienza muscolare, la ricerca del profitto ad ogni costo, la subordinazione e ogni cittadino è solo, senza più diritti e tutele, a confrontarsi in questo immenso mercato degli schiavi
Nel grafico sotto, tratto dal giornale on-line Linkiesta, possiamo vedere che ad ogni tappa del processo di espropriazione e spoliazione della democrazia sia corrisposto un relativo incremento del debito pubblico italiano, che al contrario di quello che si crede non è dovuto tanto ad un eccesso di spesa pubblica ma a un aumento incontrollato degli interessi sul debito e a un sempre maggiore indebitamento con l’estero causato principalmente dalla rigidità del tasso di cambio della valuta nazionale.
Come ho spesso già detto in questo blog, non c’è nessun complotto dietro il progetto anti-democratico in corso perché è tutto scritto a chiare lettere nelle nuove carte del potere (vedi Trattati di Funzionamento dell’Unione Europea) e solo le volontarie omissioni e reticenze di una certa classe politica dirigente e dei mezzi di informazione schierati con questo regime, hanno impedito ai cittadini di conoscere e capire cosa stava accadendo intorno a loro e come la nuova oligarchia stava eliminando ad uno ad uno gran parte dei loro precedenti diritti, primo fra tutti quello di appartenere ad uno stato democratico.
Molti penseranno che i politici verranno pure penalizzati prima o dopo in questo processo di esautorazione del loro potere, ma dimenticano invece i grandi vantaggi acquisiti dalla classe politica: saranno sempre di meno a spartirsi quel che rimane della torta e soprattutto non dovranno più impegnarsi nel duro e gravoso lavoro di governo di uno stato, perché tutto si reggerà da solo secondo le leggi del mercato e i politici dovranno soltanto avallare dietro lauti compensi gli ordini ricevuti da uno o dall’altro grande gruppo o settore industriale, secondo le consuete procedure di ingaggio delle consorterie, delle corporazioni, delle lobby.
Inoltre non bisogna neppure trascurare la circostanza che i politici e le classi dominanti potranno avere a disposizione una moneta forte come l’euro (che come sappiamo non ha più alcun legame con il territorio e il tessuto produttivo italiano, ma è una moneta straniera agganciata alla pari al marco tedesco), con la quale potranno fare acquisti liberi e sfrenati in tutto il mondo: ville in Florida, appartamenti a New York, rette universitarie per i figli ad Harvard e Yale. Se i politici venissero costretti da un’improbabile sommossa popolare ad abbandonare l’euro e a tornare alla lira, si ritroverebbero in mano, almeno per i primi anni, una moneta debole svalutata con la quale non potrebbero più permettersi molti vizi in giro per il mondo.
La ritrovata sovranità monetaria costringerebbe poi i politici a lavorare sul serio per rilanciare l’economia italiana e dare valore alla nuova moneta nazionale, tramite un costante apprezzamento sui mercati e un rilancio delle esportazioni: l’euro invece è per loro una moneta già pronta, si paga da sola, la forza la mettono i tedeschi, e i sacrifici e i costi per bilanciare questa forza assolutamente squilibrata rispetto alle potenzialità produttive italiane vengono pagati soltanto dai cittadini e dai lavoratori. Comodo no? Noi paghiamo le tasse, le privazioni, le umiliazioni, le assurde condizioni contrattuali e retributive per tenere in piedi questa mostruosità chiamata euro, mentre i nostri politici spendono e spandono in ogni dove con la loro bella moneta forte.
Pur essendo ampiamente complici, a volte però i politici rimangono spiazzati di fronte all’autorità di questo nuovo potere reggente e non capiscono di essere soltanto delle marionette, azionate da una macchina che è molto più grande di loro (qualcuno ricorda l’espressione smarrita di Berlusconi quando fu gentilmente cacciato via dal governo? Eppure lui credeva di essere uno tosto, uno potente). Sono molto interessanti a tal proposito le dichiarazioni di alcuni funzionari pubblici che dopo essere stati spodestati dalle loro cariche hanno cominciato a svelare certi retroscena del processo di espropriazione della democrazia (vedi per esempio il video sotto in cui Nino Galloni, funzionario del ministero delle finanze negli anni 80-90, spiega come Ciampi teneva sotto scacco i politici, in questo caso il segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, per costringerli alla rinuncia della sovranità monetaria, oppure con quale prepotenza il cancelliere tedesco Kohl faceva pressioni su Andreotti per accelerare il processo di unificazione europea).
Oppure, basta leggere con attenzione il libro “La politica nel cuore” scritto da Paolo Cirino Pomicino, sotto lo pseudonimo di Geronimo, in cui il deputato ed ex-ministro democristiano rivela rammaricato come la politica abbia ormai ceduto il passo ad una nuova forza di potere costituta da un intreccio inestricabile di finanza-affari-informazione, che come dice lui stesso rappresenta “il nuovo grande potere che tenta di governare il paese senza averne la legittimità democratica". Questi politici che hanno attraversato il periodo d’oro della Prima e della Seconda Repubblica non possono considerarsi immuni da complicità e sono tutti colpevoli di non avere denunciato i fatti per tempo, tuttavia le loro testimonianze risultano molto utili per capire quale è stata la reale evoluzione dei fatti.
Riporto sotto un estratto del libro in cui Pomicino rivela le circostanze sciagurate che portarono l’allora governatore della Banca d’Italia Ciampi (sempre lui, il simpatico e rispettabile nonetto dipinto dalla stampa italiana, che invece è stato senza dubbio l’anima nera, l’uomo ombra chiave del grande Colpo di Stato Bianco alla democrazia) alla decisione di far rientrare la lira nella banda stretta di oscillazione di cambio:
“Pochi ricordano pero’ che a quell’epoca il debito pubblico era tutto interno. Quando si diceva che ogni italiano nasceva con venti milioni di lire di debito ci si dimenticava di aggiungere che aveva diciannove milioni di credito perchè’ i titoli di stato erano per il oltre il 90% nelle mani delle famiglie italiane. Insomma era il debito che non cedeva alcuna sovranita’ alla finanza internazionale e che avrebbe richiesto almeno dieci anni per ricondurlo entro limiti accettabili. Purtroppo nel 1990 una scelta scellerata di Carlo Azeglio Ciampi colloco’ la lira nella banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Quella decisione impose una politica monetaria di alti tassi d’interesse che scarico’ sul bilancio dello stato 20mila miliardi annui di maggior spesa, aumentando cosi’ il debito pubblico vertiginosamente e portando dritto alla svalutazione del settembre 1992 e alla fine del sistema monetario europeo. Era la tesi del vincolo esterno che avrebbe dovuto spingere il governo e parlamento a comportamenti piu’ virtuosi. In realta’ era solo l’alibi per mettere in ginocchio il paese e prepararlo alla stagione di tangentopoli”.
Ma, nonostante tutto, la frase che sentirete dire più spesso in questi giorni dai nuovi emissari del potere è “indietro non si torna”. Come avrete già notato, questo messaggio laconico e perentorio viene ossessivamente ripetuto da Monti, dalla Fornero, da Passera ogni volta che viene messo sul piatto della non trattativa un altro nuovo decreto coatto di espropriazione della democrazia e riduzione in schiavitù del popolo italiano (salva Italia, liberalizzazioni, riforma del lavoro, No TAV). Tuttavia questo autoritario avvertimento, quasi una minaccia, è soltanto una calcolata dimostrazione di forza che nasconde in realtà la più grande paura del nuovo potere: indietro si può tornare in qualsiasi momento, perché la storia non è un processo lineare ma spesso procede per cicli, emicicli e percorsi circolari. Non è scritto da nessuna parte che la storia debba continuare secondo le direttive imposte da loro, perchè il popolo, gli uomini, la storia stessa sono stati spesso capaci di cambiare più volte il corso degli eventi con la forza e con una buona dose di volontà e autodeterminazione.
Immaginate il re francese Luigi XVI che il 14 luglio del 1789 davanti al popolo inferocito che aveva iniziato la rivoluzione democratica con la presa della Bastiglia, si fosse affacciato dai balconi della reggia di Versailles per dire al popolo: “Indietro non si torna!”; nel vano tentativo di convincere i rivoltosi che la monarchia fosse la migliore forma di governo. Oppure sempre il buon vecchio Luigi XVI che inginocchiato davanti alla ghigliottina il 21 gennaio del 1793, rivolto al boia, avesse ancora sussurrato con un filo di voce: “Indietro non si torna…”. E invece si è tornato indietro, avanti, di lato a destra, di lato a sinistra, in alto, in basso, perché la storia ha questo tipo di evoluzione non razionalmente prevedibile e segue di pari passo quelle che sono la volontà, la determinazione, l’intelligenza, le energie e le forze messe in campo. E la gente, il popolo, i nostri antenati non avevano scelto a caso la democrazia come forma di governo, dato che è senza dubbio la modalità di convivenza in assoluto più civile, giusta, equa, solidale; quella stessa democrazia che oggi i nuovi adoratori della monarchia stanno cercando con l’inganno di defraudare ai loro discendenti.
Quindi i mandanti Monti, Fornero e compagnia bella che non senza riluttanza hanno dovuto assumersi il compito sgradevole di recidere gli ultimi legacci della democrazia italiana possono andare avanti quanto vogliono, ma devono aver ben chiaro che indietro si può tornare in qualsiasi momento. E’ difficile per carità, ma non impossibile. I cittadini, il popolo, i nuovi schiavi devono imparare soltanto a cambiare l’obiettivo delle loro rivendicazioni: non più solo lavoro, lavoro, lavoro, ma democrazia, democrazia, democrazia. Perché senza democrazia il lavoro non ha più senso, è pura sussistenza, mentre lavorare in una nazione democratica significa partecipare, equiparare i diritti, redistribuire le risorse e aprire la strada a quelli che verranno. Dalla democrazia discende il lavoro come naturale conseguenza, mentre dal lavoro fine a se stesso può derivare soltanto qualche nuova forma di schiavitù. E per riprendersi la democrazia rubata, la gente deve innanzitutto riprendersi la prima cosa che la nuova oligarchia europea ha scelto 10 anni fa di togliere al popolo: la moneta.
Non è un caso che i tecnocrati europei abbiano cominciato il loro percorso proprio imponendo una nuova moneta privata agli stati, perché solo in virtù di una piena sovranità monetaria e della proprietà pubblica della banca centrale uno stato può dirsi veramente democratico, mentre in mancanza non si va da nessuna parte e si apre inesorabilmente la strada a qualche nuova forma di dittatura. Gli oligarchi del nuovo ancient regime franco-prussiano avevano molto chiaro in mente quale fosse il loro primo obiettivo: prima ancora di scrivere gli articoli dei trattati europei, avevano già deciso che la moneta doveva essere privatizzata. Anzi quei trattati, dove sono stati descritti confusamente i principi di un’unificazione impossibile, sono stati inventati di sana pianta, con l’unico scopo di togliere le rispettive monete nazionali agli stati, perchè privato della sua moneta lo stato viene messo al muro, è inerme, è privo di qualsiasi capacità di reazione e può essere spogliato lentamente senza lasciare alcuna traccia.
Ma per capire ancora meglio quale legame stretto esista fra la democrazia e la sovranità monetaria, riporto di seguito per intero un articolo dell’economista Sergio Cesaratto, pubblicato qualche mese addietro sul sito Economia&Politica. Il professore Cesaratto è ordinario di economia politica pressò l’Università di Siena.