DI
FRANCO CARDINI
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Credo che ormai le incaute speranze e i più ancor incauti entusiasmi per le cosiddette “primavere arabe” si siano più o meno volatilizzati. Il colpo decisivo ad esse è stato inferto da quel che è emerso (ma purtroppo era noto anche da prima) a proposito di Gheddafi: tiranno a lungo tollerato e perfino adulato dagli occidentali, finché non ci si è cominciati ad accorgere che il decisivo intervento della NATO contro di lui si era concretizzato da quando egli aveva cominciato a intralciare gli interessi francesi e britannici in Libia, mentre nel continente africano stava lavorando per opporsi alle speculazioni di alcune multinazionali nei lucrosi campi dell’acqua e della telefonia.
Ci si è inoltre resi conto – e anche lì con “inspiegabile” ritardo – che quelle “primavere” erano state tacitamente e brutalmente soffocate nei paesi della penisola arabica, alcuni governi dei quali (e gli organismi mediatici che essi finanziano) sostengono invece decisamente i gruppi fondamentalisti che hanno animato se non addirittura egemonizzato altrove la rivolta. Ci siamo infine accorti che – a parte l’iniziale “caso” tunisino, che aveva forse preso di contropiede governi e imprenditori occidentali – la rivolta si è invariabilmente indirizzata contro paesi musulmani retti da regimi che, se non democratici, sono (o erano) comunque grosso modo quel che noi – impropriamente – definivamo “laici”. Nemmeno uno dei ricchi e feroci tirannelli degli emirati, quelli che petrolio e turismo ha ormai resi arciopulenti e che sono interlocutori preziosi di banche e di lobbies occidentali è stato rovesciato, mentre fra i regimi arabi “laici” quello dei militari algerini è rimasto indisturbato nonostante il responso negativo delle urne; in Egitto non si è riusciti a salvare Mubaraq, compromesso almeno quanto Ben Ali, ma ci si è poi dovuti piegare alla constatazione che in fondo i “fondamentalisti moderati”, i Fratelli Musulmani, restano il meno peggio del “nuovo che avanza” (e allora, che cosa ci avevano raccontato fino a ieri i nostri media?). Quanto alla Libia, i tragici fatti di Bengasi del 12 settembre sono piuttosto eloquenti: e gettano un’ombra inquietante sia con al leggerezza con al quale, pur di rovesciare Gheddafi, si sono in passato sostenuti i gruppi fondamentalisti, sia sul trend soprattutto statunitense degli ultimi mesi, cioè da quando – sulla base dell’indirizzo congiunto statunitense e saudita in senso anti-iraniano – sembra riavviatasi la luna di miele tra USA e fondamentalisti sunniti, come si nota dall’Iraq al Pakistan (giova ricordare che almeno fino al 1995 il governo statunitense, in Afghanistan, appoggiava i talibani la politica dei quali sembrava favorevole agli interessi del colosso petrolifero californiano Unocal).
Questa premessa è credo indispensabile per aiutarci a guardar in modo più obiettivo e ragionevole a quel che sta accadendo proprio in questi momenti in un paese-chiave del Vicino Oriente, la Siria.
Già, la Siria: un grande paese, una grande civiltà. Storicamente, l’area che fin dall’antichità era una delle più civili e popolose del mondo – con “culture di villaggio” fino dal VII millennio a.C. e fiorenti centri urbani come Ugarit e Mari dal III a.C. – corrispondeva a al territorio oggi occupato dagli stati di Siria, Israele, Giordania e Libano: un’immensa area di più di 310.000 chilometri, anche se in gran parte desertici, vivificata tuttavia dai corsi dell’Eufrate, dell’Oronte e dal Giordano e coincidente pertanto con gran parte della cosiddetta “fertile mezzaluna”, la fascia fertile e popolata attigua a quei grandi fiumi. Ma oggi, con la parola Siria s’intende un paese che l’impero ottomano aveva organizzato in una provincia dipendente dal governatorato di Adana e che dopo gli infausti accordi segreti Sykes-Picot del 1916 – in violazione con gli accordi presi con le popolazioni arabe locali – fu occupato tre anni dopo, nel ’19, dalle truppe francesi che vi stabilirono un “mandato” purtroppo legittimato tra ’20 e ’22 dalla Società delle Nazioni. Dopo oltre un quarto di secolo di dure lotte, l’indipendenza fu conquistata solo nel ’46. Nacque così la Repubblica Araba di Siria, 185.180 chilometri quadrati in gran parte desertici, con una popolazione di oltre 22 milioni di abitanti della quale più della metà concentrata nelle grandi città di Damasco, Aleppo e Homs. Dopo l’effimera unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita, fra 1958 e 1961, dal ’63 lo stato siriano è dominato dal regime monopartitico del Baath (“rinascita”), a tendenza nazionalista e socialista originariamente nasseriana; dopo la crisi della guerra arabo-israeliana del ’67, conclusasi tra l’altro con l’occupazione da parte d’Israele delle alture del Golan (che implica lo sfruttamento israeliano della sorgente idrica di Baniyas e la perdita da parte della Siria dell’accesso alle acque del lago di Tiberiade), dal ’70 il potere è nelle mani della famiglia del generale Hafez el-Assad, deceduto dopo una lunga infermità nel 2000 dopo aver assicurato il passaggio dei poteri al figlio Bashar, il cui ruolo presidenziale è stato confermato nel 2007 da un referendum.
Hafez el-Assad era stato un uomo duro (tristemente celebre la repressione dei ribelli sunniti ad Homs) e le accuse che da parte internazionale pesano sul governo siriano riguardano la violazione dei diritti umani in politica interna, il costante atteggiamento favorevole all’Iran in politica estera, l’atteggiamento egemonico in Libano culminato nel 2007 nell’assassinio del presidente libanese, il sunnita Hariri e nell’appoggio al partito Hizbollah. Tuttavia, sotto altri aspetti, gli osservatori internazionali sono finora stati concordi nel sottolineare alcuni caratteri non negativi del governo di Bashar, che personalmente non ha certo ereditato la spietatezza paterna. Lo stato sociale siriano si è distinto per un buon funzionamento, le istituzioni e le strutture pubbliche reggono bene, il sistema di welfare è nettamente migliore di quanto non sia nella maggior parte dei paesi vicino-orientali. Le sanzioni imposte dal 2004 alla Siria, sulla base di presunte e mai ben precisate connivenze con il “terrorismo islamico”, erano state finora debolmente applicate e il clima diplomatico, anche rispetto agli USA, era nettamente migliorato nel 2009. Diversamente vanno le cose con Israele, rispetto al quale pesa il contenzioso per il Golan e i postumi del raid aereo israeliano del 2007 contro presunte installazioni nucleari siriane (la cui esistenza non è mai stata comprovata).
Ma con queste premesse, a parte la “rivolta di popolo” (che è sempre difficile capire quanto e in che misura sia spontanea e da che punto in poi eterodiretta), quali sono le premesse della situazione siriana? Per una sua più corretta comprensione, bisogna valutare anzitutto quattro cose: la Siria è dagli Anni Sessanta la più costante, sicura e valida interlocutrice-alleata in Vicino Oriente dell’URSS prima, della Russia poi; il governo di Assad, di famiglia alawita, controlla un paese all’80% di osservanza sunnita (gli alawiti, non più dell’11%, sono piuttosto un gruppo “sciita-ereticale”) ed è altresì stato sempre, dal ’79, in buoni rapporti con il governo della repubblica islamica dell’Iran, paese sciita; permane l’occupazione israeliana del Golan, con relativo sfruttamento delle sue risorse idriche, nonostante le risoluzioni dell’ONU al riguardo. A margine di questo, andrebbero messe in conto anche l’annosa tensione tra Siria e Turchia dovuta a questioni tanto etnoreligiose quanto confinarie e idriche (le sorgenti dell’Eufrate stanno in territorio turco), nonché la recente scoperta di giacimenti sottomarini di gas nelle acque territoriali turca, cipriota, libanese e siriana.
Ma soprattutto in questo momento, visti anche i “venti di guerra” che sembrano soffiare sia dai paesi arabi e sunniti del Golfo sia da Israele contro l’Iran, l’eliminazione del governo baathista siriano isolerebbe ulteriormente il governo iraniano e indebolirebbe l’influenza della Russia sul “Grande Gioco” vicino-orientale. Da qui l’appoggio dei paesi arabi sunniti (i quali in alcuni casi – come il Bahrein, il Qatar e l’Oman – hanno al loro interno minoranze sciite nei confronti dei quali seguono una politica ferocemente repressiva) al cosiddetto “esercito di liberazione” siriano, in realtà una complessa galassia di gruppi tra i quali sono presenti anche molti volontari non-siriani impegnati nel jihad sunnita.
Una delle considerazioni più importanti da tener presente è anche che gli alawiti chiamati anche nusayri (sciiti “settimimani”, che a differenza degli iraniani riconoscono una sequenza di soli sette imam discendenti di Ali cugino e genero di Muhammad: a differenza della maggioranza sciita, “decimimana”, che ne riconosce dodici), nella cui dottrina musulmana sono presenti anche elementi d’origine cristiana e mazdaica, hanno sempre avuto tutto l’interesse a mantenere in Siria un clima costituzionale che noi definiremmo “laico” in quanto temono l’egemonia sunnita: ciò li ha portati tradizionalmente a fraternizzare con i cristiani che in Siria sono distinti in varie Chiese che in tutto non vanno oltre il 9%, cioè circa 2 milioni distinti tra cattolici greco-melkiti, greco-ortodossi e siriaci d’origine monofisita (ciascuna di queste tre Chiese ha un suo patriarca), oltre a minoranze maronite, armene, e “caldee” che ormai hanno aderito alla Chiesa cattolica ma hanno mantenuto i loro riti liturgici. Il patriarca melkita Gregorio III Laham è più volte intervenuto (autorevole, ma inascoltato dai media) sull’attuale situazione, sottolineando che non risponde a verità il fatto che i cristiani siano favorevoli al regime di Assad, ma come tuttavia fino ad oggi la costituzione e il governo di Damasco abbiano garantito libertà e tutela alle Chiese cristiane, autentico “anello debole” della società civile siriana, e come esse abbiano invece motivo di temere che, nel fronte ribelle, possano prevalere i sunniti fondamentalisti tra i quali le istanze anticristiane si sono di recente appesantite; inoltre egli ha denunziato come all’interno di quel fronte forti siano le presenze e le ingerenze straniere e occidentali. Insomma, una Siria 2012 che comincia stranamente a somigliare per certi versi alla Spagna 1936. Le Chiese cristiane si sono in generale dette favorevoli al piano di pace proposto da Kofi Annan a nome dell’ONU e dalla lega Araba e appoggiato da movimenti siriani non-violenti come l’interreligioso Mussalah. Analoghe posizioni sono nella sostanza sostenute da uno dei più seri e intelligenti conoscitori italiani della questione siriana, il gesuita Paolo dall’Oglio, che pure è stato sostanzialmente espulso dalla Siria nel giugno 2012 dopo che vi viveva da trent’anni e vi aveva fondato la bella comunità di Deir Mar Musa. Dall’Oglio è stato espulso perché fin dall’inizio del movimento che noi definiamo “primavera araba” ha sempre sottolineato la spontaneità e la sincerità di tanti soprattutto giovani, che vogliono libertà e chiedono un futuro migliore, nonché le menzogne e le violenze del governo. Il quale ha ottenuto dalle autorità ecclesiastiche cattoliche il suo trasferimento. Ma Dall’Oglio sottolinea in un’intervista a “Jesus” del settembre 2012 come “il movimento di massa, che all’inizio era di emancipazione civile, si è presto colorato islamicamente”. Com’è successo in Libia e come potrebbe succedere in Egitto. Dall’Oglio ha certo ragione quando contesta la teoria del “complotto internazionale” sostenuto da americani, europei e israeliani contro il regime di Damasco: una teoria semplicemente ridicola, come sempre sono le teorie complottiste. Egli denunzia anche il fatto che, messi alle strette, gli alawiti ancora al governo (che rappresentano un paio di milioni di persone) potrebbero puntare sulla resurrezione dello stato autonomo alawita insediatosi nella zona attorno a Lattakya (nel sud-ovest del paese), che la Francia aveva riconosciuto nel 1922 e che fu eliminato con la fine del mandato francese del ’46: e sostiene che ormai, messo alle strette, Assad che ha visto fallire il suo primitivo progetto di semplice repressione del movimento ribelle ha tutto l’interesse a prolungare la resistenza: cosa che però rafforza, sul fronte ribelle, la pericolosa componente sunnita fondamentalista.
La posizione del Dall’Oglio è onesta e ragionevole. Essa sembra tuttavia sottovalutare due dati effettivi: primo, la forza e l’intensità con la quale i paesi arabi sunniti si sono impegnati per “islamizzare” la rivolta contro Assad, e che ormai appare irreversibile; secondo, che per accelerare al massimo la soluzione del conflitto occorrerebbe non l’invio di una forza ONU a sostegno dei ribelli (come si è fatto in Libia, con le conseguenze che conosciamo), bensì un accordo internazionale al quale per il momento si oppone con la sua forza di veto al consiglio di Sicurezza la Russia (appoggiata dalla Cina, ma anche da Brasile, India e Sudafrica), in quanto essa chiede attraverso il suo ministro degli esteri Sergheji Lavrov che le trattative si conducano tenendo presenti anche le posizioni del governo di Damasco anziché far di esso un pregiudiziale capro espiatorio. Ma le posizioni russe sono presentate dai media come “unilateralmente” ispirate da una diplomazia che per ragioni legate alla geopolitica e al petrolio sono considerate “unilateralmente” filoiraniane. In modo analogo, è passata sotto silenzio la lettera con la quale l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha denunziato il fatto che “si è insediata in Siria una forza terroristica, ostile a ogni mediazione” e ha smascherato la speculazione mediatica sul famoso massacro di Hula, precipitosamente – e ormai a quel che pare ingiustamente – attribuito alle forze governative (a Hula erano morti anche dei bambini: ne sono morti purtroppo anche in altri casi e in altri contesti: ma allora si è detto che la colpa era delle vittime adulte, che se ne erano servite “come scudi umani”; in altri casi e in altri contesti, i collateral damages e le “scuse” sono sempre pronti a giustificare qualunque infamia).
Ora, sono proprio queste continue forzature interpretative a scoprire una parte importante della realtà. Qui non si tratta dell’isterico complottismo antiamericano giustamente denunziato dal Dall’Oglio: si tratta della più che ragionevole ipotesi che alla base dell’impegno teso ad eliminare il governo baathista dalla scena politica vicino-orientale ci sia la volontà di alcuni ambienti statunitensi e israeliani di portare un attacco militare diretto contro le vere o supposte installazioni nucleari iraniane. E anche quella è una forma d’isterismo complottista uguale e contraria al complottismo antiamericano: solo ch’è molto più forte politicamente e militarmente; e potrebbe prevalere se – Dio non voglia – i repubblicani vincessero le elezioni statunitensi di novembre.
Che le cose stiano così risulta chiaro da un’analisi pacata di quel che è accaduto da un anno a questa parte: non a caso, il numero 1 del 2012 di “Limes”, Protocollo Iran, collegava già mesi fa correttamente il problema dell’atomica iraniana (“minaccia o pretesto”?) alla questione dell’estrazione e del commercio del petrolio (quindi alle tensioni arabo-iraniane nel Golfo di Hormuz, minacciato dal blocco) e alla crisi siriana, nonché ai “pasticciacci brutti” – come li chiamerebbe Carlo Emilio Gadda – irakeno, afghano e pakistano.
Le effemeridi dell’accaduto parlano il linguaggio dell’evidenza. Fin dalla primavera del 2011, quando sembrava che la “primavera” fosse scoppiata in tutto il mondo arabo, gradualmente si diradavano o cessavano le notizie sulle manifestazioni – e sulle repressioni – dall’Algeria al Marocco alla penisola arabica, mentre si sviluppava il “caso” egiziano (anch’esso almeno in parte fuori del controllo occidentale, come lo era stato quello tunisino) e si addomesticavano le rivolte mettendo in evidenza quelle che servivano e facendo sparire le altre. Tutto bene, quindi, dal Marocco all’Algeria allo Yemen all’Arabia saudita; mentre le folle che chiedevano democrazia divenivano argomento d’informazione quotidiana in Libia e in Siria.
Ma, per quest’ultimo paese, un piano di pacificazione tra governo di Damasco ed “esercito di liberazione” proposto dalla Lega Araba era stato ufficialmente accettato da Assad ai primi di novembre 1011. Tuttavia, invece di dargli corso, si assisté all’escalation nella diffusione di notizie unilaterali, garantite dalla sola autorità del Consiglio Nazionale Siriano in esilio a Istanbul (organizzazione dell’opposizione) sulle violenze governative e sulle pretese basi nucleari nonché al successivo ritiro alla fine del gennaio 2012 degli osservatori della Lega Araba dalla missione internazionale in Siria in attesa delle decisioni dei membri restanti (che, come osservava l’osservatore sudanese, generale al-Dabi, non facevano il loro dovere perché per paura restavano nei loro alberghi invece di recarsi sui luoghi dello scontro). La lega Araba, ritirandosi, non trovava di meglio che auspicare l’invio in Siria dei “caschi blu” dell’ONU.
Tra gennaio e febbraio, vista l’opposizione russa e cinese alle prospettive d’intervento armato in Siria caldeggiato soprattutto da francesi e britannici, i paesi occidentali intensificarono la loro attività di sostegno diplomatico e finanziario alle opposizioni (frattanto il governo italiano veniva indotto da quello statunitense a stanziare 18 miliardi di euri per l’acquisto di alcuni cacciabombardieri F 35), mentre al governo siriano venivano regolarmente imputate anche azioni – come quella di Homs durante la quale perse la vita il giornalista francese Jacque Jacquier – ch’erano piuttosto frutto di attività “patriottiche” (le quali in differenti contesti si sarebbero definite senza dubbio “terroristiche”). Sempre ai primi di febbraio, il “portale” Debkafile, vicino a Israele, annunziava che truppe britanniche e qatariote sarebbero già entrate in Siria, mentre dalla Libia “liberata” giungeva l’auspicio che fossero formazioni turche ad entrare in Siria: trattandosi di musulmani sunniti l’avrebbero accolti meglio che non i “caschi blu”. In seguito al clima internazionale così instaurato, alla fine di gennaio la Russia annunziava il suo rifiuto di partecipare la “gruppo di contatto” sulla Siria previsto nel febbraio successivo e nel quale si profilava addirittura l’eventualità di appoggiare il progetto di un ufficiale siriano disertore in Egitto, Hisamuddin al-Awk, che mirava a mettere insieme un corpo di mercenari per spedirlo a combattere nel suo paese. Il tutto senza tener conto del referendum indetto dal governo siriano, per il 26 gennaio 2012, che prevedeva una riforma costituzionale in senso pluralistico: tale atto fu immediatamente derubricato con noncuranza come demagogico, senza tener alcun conto del suo significato distensivo. Intanto, i media occidentali davano rilievo alle notizia sulle “fughe all’estero” dei capitali dell’élite di governo e sulle defezioni di alcuni collaboratori di Assad, come se tutto ciò non fosse normale in una situazione come quella; e si trascuravano come del tutto irrilevanti le denunzie dell’ambasciatore russo all’ONU, Vitaly Churkin, sull’ingerenza libica nella crisi siriana e sui volontari di al-Qaida addestrati in Libia.
Il piano di pace dell’ONU fu presentato tra 11 e 12 aprile 2012: secondo l’Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, organizzazione dell’opposizione con sede a Istanbul, il governo siriano vi si è subito opposto e le diplomazie francese e britannica hanno ripreso acriticamente questa notizia. In realtà, una delle ultime scelte del francese Sarkozy, prima di andarsene dall’Eliseo, fu quella tesa a vanificare il piano di pace dell’ONU per favorire invece “corridoi umanitari in modo da tenere in vita l’opposizione” ad Assad (un gran bell’eufemismo, i “corridoi umanitari”). La posizione francese è stata proseguita dal governo Hollande, con l’appoggio concreto in fondi ed equipaggiamenti attraverso l’associazione detta “Amis du Peuple Syrien”. Alla fine di maggio, quando Kofi Annan giunse a Damasco, egli parlava di un cessate-il-fuoco e di una concreta disponibilità governativa: ma le diplomazie occidentali replicavano che ormai in Siria si era alla guerra civile e si formulavano ipotesi unilaterali su no kill zone in territorio siriano garantiti da Qatar e Turchia. Nonostante la grande abbondanza d’informazioni attingibili, i principali medi dell’Europa occidentale hanno occhi e orecchie solo per il network “Al Jazeera” e per alcuni commenti diffusi da Twitter, come fa correttamente notare Eduardo Zarelli su “Diorama” del luglio-agosto 2012, p.14. Tutto il resto non conta. Per esempio, in Siria si sono tenute il 17 maggio 2012 le elezioni amministrative con un’affluenza alle urne del 51,26% che, tenendo conto del contesto, è molto alta: ma naturalmente tutto è a priori “manipolazione”, “intimidazione”, “propaganda governativa. Da Parigi Bernard Henri Lévy, con un linguaggio che il Minculpop avrebbe trovato massimalista ma che “Il Corriere della Sera” diffondeva il 29 maggio, definiva “disfattismo” l’atteggiamento di tutti coloro che a proposito della situazione siriana esigevano prudenza e maggiori informazioni. Oltretutto, se la gente non avesse la memoria corta e la disinformazione facile, il destino di certe Primedonne sarebbe segnato. Il 29 maggio, appunto, Lévy definiva appunto disfattisti “che si sono sempre sbagliati” quelli che “la vigilia della caduta di Tripoli, prevedevano ancora un pantano”. I fatti di Bengasi dell’11-12 settembre – con l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia – dimostrano appunto che, proprio nel caso di Lévy, cattivi profeti e profeti cattivi coincidono sempre.
Insomma: Kofi Annan ha denunziato chiaramente che è impossibile invitare le parti contrapposte a un confronto costruttivo in quanto una di esse – le “forze di liberazione” – non ha una leadership riconoscibile ed è fortemente inquinata da istanze fondamentaliste. Le stesse che si rivelano sempre più importanti in quella “nuova Libia democratica” che piace tanto a Bernard Henri Lévy. Ma il sangue di un diplomatico statunitense in seguito a una sconsiderata provocazione e a una feroce reazione è stato sparso a Bengasi liberata dai democratici fondamentalisti libici, di nuovo alleati dell’Occidente (come lo erano in Afghanistan nei primi Anni Novanta), non dai servi del tiranno di Damasco: quegli democratici che, appena qualche mese fa, erano stati aiutati dalla NATO a liberarsi da un altro tiranno. E allora, Monsieur Lévi, davanti all’ipotesi dei “Caschi Blu” che possano fare domani in Siria quel che ha fatto ieri la NATO in Libia, col Suo permesso sono un disfattista anch’io: anch’io chiedo prudenza e maggiori informazioni.
Franco Cardini
Fonte: http://www.francocardini.net/