DI

TERSITE ROSSI
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Del drammatico attentato di domenica 28 aprile a Roma, di cui sono rimaste vittime due carabinieri, si è detto e si sta dicendo molto. E a due scrittori, da anni abituati a rimestare nel torbido della storia e della politica italiana, non possono non risaltare alcuni aspetti davvero sorprendenti. Procediamo con ordine, come nello studio di un detective, lasciando per ultimo l’elemento a nostro avviso più sinistro. Premettiamo che la nostra riflessione presuppone la sanità mentale dell’attentatore, così come sembra emergere dalle indagini dei magistrati.

La pistola. Una Beretta 7.65 con matricola abrasa. L’attentatore dice di averla comprata clandestinamente quattro anni fa a Genova. Perché un piastrellista calabrese da vent’anni in Piemonte, sposato con un figlio, deve comprare una pistola al mercato nero? Armi come quelle si comprano per delinquere e per nessun altro motivo. Un delitto da svolgersi quattro anni dopo, a causa di una crisi economica e personale che non si era ancora manifestata?

I proiettili. L’attentatore dichiara che era sua intenzione uccidersi, dopo aver compiuto il suo atto. Perché non l’ha fatto, pur avendo 3 colpi ancora inesplosi nel caricatore?

La mira. Una persona che non ha mai sparato, anche se si trova vicina al suo obiettivo, difficilmente riuscirà a colpirlo con la precisione con cui sono stati colpiti i due carabinieri (precisamente in punti non coperti dal giubbetto antiproiettile). L’immagine che lo ritrae prendere la mira sembra lasciare pochi dubbi sull’abilità balistica dell’attentatore. Dove ha imparato a sparare?

Il chiodo. Tra i suoi effetti personali è stato trovato un chiodo con cui gli inquirenti suppongono sia stata abrasa la matricola della pistola. Perché l’attentatore avrebbe dovuto portarlo con sé? Per suggerire un indizio agli inquirenti affinché mettessero in dubbio il suo acquisto a Genova quattro anni fa?

Il vestito. L’attentatore era vestito di tutto punto, come se volesse mimetizzarsi con gli agenti di scorta che girano attorno ai palazzi della politica romana. Casuale?

Prima di passare all’ultimo – per noi decisivo – elemento una breve riflessione. Gli indizi precedenti sembrano portarci in direzione di un attentatore freddo, che ha pianificato il suo delitto, e non di un povero disperato, mezzo depresso e arrabbiato con i politici. Bene. Ora caliamo l’ultima carta.

Il movente. Inutile girarci intorno. Il punto per molti più ovvio, è invece il vero enigma di questo fatto. L’attentatore ha dichiarato di essere venuto a Roma per sparare ai politici, rei di non fare nulla per i disoccupati disperati come lui.

Ragioniamo e mettiamoci nei suoi panni. Sono disperato, depresso. Ho dovuto subire l’umiliazione di tornare a casa, in Calabria, dopo vent’anni senza lavoro. Mia moglie se ne è andata portando via mio figlio. Nutro una rabbia enorme. Voglio scaricare questa rabbia con un gesto dimostrativo contro i politici, quella casta corrotta e arrogante che non fa niente mentre io vedo la mia vita andare a rotoli. Decido di andare a sparare ad un politico durante l’insediamento del nuovo governo. Mi preparo, recupero l’arma, mi porto i proiettili, mi vesto per mimetizzarmi, segno su una cartina il percorso per arrivare dal mio albergo vicino alla stazione a Palazzo Chigi. Seppur infuriato con il mondo, la mia mente è fredda: voglio lasciare un segno, la politica deve pagare il suo prezzo. Arrivo a Roma, alloggio in albergo, mi sveglio, carico la pistola, mi dirigo determinato davanti a Palazzo Chigi e una volta là, dato che non ho la fortuna di incontrare nessun politico, prendo la mira e sparo alle gambe e alla gola di due carabinieri.

Stop. Rileggiamo l’ultimo periodo. Ma che c’azzecca? Perché una persona che a mente fredda ha pianificato un’azione simile sostituisce all’improvviso il vero obiettivo (a suo dire) dell’attentato con due poveri disgraziati che non c’entrano nulla? Perché un criminale non solo modifica all’ultimo il cuore del suo movente, ma non fa proprio nulla per realizzarlo? Di questo si tratta: l’attentatore dice di avere un movente che però non ha mai – mai! – cercato di realizzare seriamente. Perché? È completamente irrazionale, senza senso. Chiunque agisca lo fa in vista di un fine e cercherà di realizzarlo. L’attentatore di Palazzo Chigi no. Si tratta del caso più unico che raro di un criminale che spara a sangue freddo per “non” realizzare il suo movente. Perché? O è un folle. O quello non era il suo vero movente.

Qua due scrittori devono fermarsi, lasciare spazio ai veri investigatori e dedicarsi, se proprio, solo alla creatività e alla fantasia. Ebbene, vogliamo concludere raccontandovi una storia. Una strana storia.

Immaginate di essere in un Paese sull’orlo della rivolta sociale, stretto da una crisi economica che non sembra avere fine e con una vecchia classe dirigente incapace o non interessata a individuarne le cause e a trovarne i rimedi. Immaginate che quel Paese vada alle elezioni e ne esca spaccato in tre. Immaginate che, ciò nonostante, tra la gente emerga l’esigenza di un cambiamento, anche simbolico, per poter sperare. Immaginate che due terzi del Parlamento si accordino tra loro, pur essendo su posizioni (teoricamente) opposte e facendo riferimento ad un elettorato (realmente) incompatibile l’uno con l’altro. Immaginate che ciò scateni una tensione maggiore nel Paese, con scene di vera e propria delegittimazione dei propri referenti politici. Immaginate che, tuttavia, i due terzi incompatibili vadano avanti e formino un governo. Immaginate che quel governo agli occhi dei palazzi del potere economico (nazionale e internazionale) e del potere malavitoso (nazionale) rappresenti una docile garanzia da puntellare ad ogni costo. Sì, ad ogni costo. Immaginate che si avvii una misterioso catena telefonica che dice e non dice, ma lascia intendere molto bene. Immaginate che quella catena si concluda in una terra ad alto tasso malavitoso e che l’ultimo a rispondere alla chiamata sia un povero esemplare di “emigrante al contrario”, pieno di debiti, che deve favori a persone molto potenti e soprattutto spietate. Immaginate che siano proprio quelle persone a dirgli cosa deve fare: un viaggio, una passeggiata, un tiro al bersaglio contro un paio di innocenti vestiti in divisa (“Innocenti, eh, mi raccomando!”). Immaginate che lo scopo sia di fare in modo che di fronte a quel sanguinoso tiro al bersaglio il Paese in subbuglio si fermi, smetta di ascoltare gli inviti alla ribellione, lasci cadere il pugno arrabbiato e si commuova per la tragedie di tre famiglie: quelle della vittime e pure quella del disgraziato depresso attentatore. Immaginate che l’ultimo a ricevere questa telefonata sappia di non avere scelta, perché quelli a cui deve così tanti soldi, se non obbedisse, sarebbero capaci di fargli di tutto. Pure ai famigliari. Immaginate che lui sappia, però, che obbedendo conquisterebbe la pietà di quei potenti, la cancellazione dei debiti e pure un trattamento di favore dai compagni di cella.

Immaginate, eh, immaginate. In fondo, è solo un strana storia.

Tersite Rossi (1978 & 1978) ama considerarsi l’erede contemporaneo del Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì bastonato e deriso.
A guardare bene, dentro di lui convivono due anime distinte: quella del professore e quella del giornalista. Entrambe, però, gli stanno un po’ strette.
Esordisce con il romanzo “È già sera, tutto è finito” ( Pendragon 2010), appartenente al genere della Narrativa d’Inchiesta ( finalista al Premio Alessandro Tassoni 2011 e al premio Penna d’Autore 2011).
Nel 2012 esce il suo secondo romanzo con le “ edizioni e/o, intitolato “ Sinistri”, all’interno della collana “ SabotAge” curata da Massimo Carlotto

Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/10191-una-strana-storia.html