DI
MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Quando il 25 maggio un soldato francese in normale servizio di pattuglia è stato accoltellato al collo da un uomo, poi arrestato, di cui è stato fornito solo il nome, Alexander, ma non la nazionalità né le origini, François Hollande si è affrettato a dichiarare che l’episodio non aveva alcun collegamento con quello avvenuto pochi giorni prima a Woolwich, sobborgo di Londra, dove un militare britannico, Lee Rigby, reduce dall’Afghanistan, era stato ucciso e decapitato da due cittadini inglesi di origine nigeriana. Fra i due episodi si è inserito l’accoltellamento di un altro uomo (non si sa se civile o militare) ancora a Woolwich.
Casuale anche questo?
Difficile pensarlo visto che l’aggressione è avvenuta praticamente in contemporanea con la cerimonia che era stata organizzata per ricordare Rigby proprio sul posto dove era stato barbaramente trucidato. Dietro questi fatti non c’è l’inesistente al Qaeda o una qualche organizzazione terroristica. Si tratta di azioni di singoli, ma proprio per questo ancora più inquietanti. Perché hanno un terreno comune. Quello che ha spiegato Michael Adebolajo uno dei giustizieri di Rigby: “L’unica ragione per la quale abbiamo ucciso quest’uomo è perché dei musulmani sono uccisi quotidianamente, nei loro paesi, da soldati britannici. Con questo soldato abbiamo fatto ‘occhio per occhio, dente per dente’”.
Lo stesso concetto che aveva espresso, coltello insanguinato ancora in mano, a una donna coraggiosa che gli si era avvicinata per chiedergli il perché del suo gesto.“Mi dispiace – aveva detto Adebolajo – che delle donne abbiano visto tutto, ma nei paesi musulmani le donne sono costrette a vedere scene come queste ogni giorno”.
I musulmani scontano la frustrazione di vedere invasi, occupati, bombardati i loro Paesi o quelli dei loro coreligionari, uccisi a migliaia (Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, Mali) senza poter, in pratica, rispondere data l’enorme sperequazione tecnologica, in fatto di armamenti, delle forze in campo. Come si fa a combattere un drone teleguidato da diecimila chilometri di distanza? Così la risposta diventa questa: e allora noi portiamo la guerra sui vostri territori, come voi la portate sui nostri. Con le armi che abbiamo a disposizione.
Terrorismo? Ma non è terrorismo quello della Cia che, come scrive Sergio Romano sul Corriere (27/5) “Invece di agire come un normale servizio di intelligence, agisce come un esercito nell’ombra” cui è consentito tutto, dai rapimenti alle torture agli assassinii?
Quel bel tomo di Antonin Scalia, giudice della Corte Suprema Usa, dichiara: “La Convenzione di Gine- vra si applica nel caso di una guerra e non si applica a chiunque decida di far esplodere una scuola o un grattacielo”. Ma se una guerra non è dichiarata, e noi non l’abbiamo dichiarata né al- l’Afghanistan, né all’Iraq, né alla Libia, né al Mali, allora un drone che, sia pur per errore, uccide trenta bambini, vale l’attentato a una scuola. Questi sono i voluti equivoci delle “missioni di pace” o “umanitarie” o “democratiche” dove uno solo, in linea di principio, ha diritto di colpire, l’altro può solo subire. Se si oppone è un criminale.
Qualcuno si è stufato di questa manfrina. Per ora episodi come quello di Woolwich sono isolati, ma potrebbero diventare, più rapidamente di quanto si pensi, contagiosi. E allora nessuno, in Europa e in America, militare o civile che sia, potrebbe sentirsi al sicuro. E ci si avvierebbe realmente a quello “scontro di civiltà” preconizzato da Huntington nel 1996. E non è affatto scontato che sia l’Occidente, superpotentemente armato ma svuotato di ogni valore, a uscirne vincente.
Massimo Fini
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