DI
FEDERICO MANCONI
ilribelle.com
Vladimir Putin mette a segno un altro goal nel suo confronto con Barack Obama e questo è un goal pesante perché segnato fuori casa: addirittura l’11 settembre e sulle pagine del New York Times, una delle roccaforti della propaganda mediatica statunitense, specie per quanto riguarda il quadrante mediorientale.
Il giornale di cui bisogna cercare di capire gli effetti sull’uomo, come cantavano i Bee Gees nel ‘77, non poteva lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di pubblicare un articolo scritto di suo pugno dal Presidente russo, nonostante questo potesse essere contrario alla linea ufficiale o disturbare il potere. Anche se qualche maligno osservatore potrebbe vedervi un segnale del fatto che Israele non è poi così convinto della validità di un attacco USA alla Siria. Meglio avere un nemico di fiducia, con cui si è convissuti per anni e che abbia pieno controllo del territorio, che trovarsi ai confini una “Libia” dominata, ma non controllata, dall’integralismo islamico al soldo di Riad.
A seguito, “NON PROTEGGIAMO DAMASCO MA IL DIRITTO INTERNAZIONALE” (Vladimir Putin, nytimes.com);
Opinione questa non condivisa in certi ambienti sionisti italiani, specie quelli che fanno riferimento al PD, dove la decisione di Assad di aderire alla Convenzione sulle Armi Chimiche suscita ilarità, ma sarebbe meglio dire irritazione, ritenendo costoro che il tiranno non porrà mai sotto controllo dette armi. A questi fondamentalisti, che sono l’esatto rovescio della medaglia di quelli islamici e la cui ostinazione religiosa ha portato all’attuale instabilità della polveriera mediorientale, va ricordato chiaro e forte che Israele, pur avendo firmato il trattato di cui sopra, non lo ha mai ratificato ed i suoi depositi non sono sotto controllo di alcuno. D’altronde lo Stato ebraico neppure ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare o la Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali, che permette loro di usare il fosforo bianco, arma chimica non considerata tale dallaConvenzione sulle armi chimiche.
È naturale che l’adesione di Assad alla Convenzione sulle armi chimiche possa mettere a disagio Tel Aviv: al controllo degli arsenali di distruzione di massa di Damasco potrebbe, anzi dovrebbe, seguire un’analoga richiesta per quelli israeliani. Al contrario, però, dei sionisti de noantri, quelli veri preferiscono evitare un conflitto che destabilizzi la regione e possa finire per dar forza all’Iran, identificato dal sionismo DOC come il principale nemico da abbattere. Inoltre, non essendovi alla Knesset iscritti al PD, questi non hanno bisogno di nascondersi dietro pruderie da diritti umani: anche perché non potrebbero dato che li violano sistematicamente nei territori, usando pure quelle armi chimiche che, per convenzione, tali non sono.
Questo a pensar male, che comunque potrebbe non essere sbagliato, ma anche non fosse così non si poteva ignorare il contributo Op-ed di una firma quale quella di Vladimir Putin e così sul New York Times è arrivata finalmente una opinione diversa dalle veline ufficiali e capace di squarciare il velo della propaganda USA, opinione che ovviamente è rimbalzata di agenzia in agenzia infrangendo il muro di silenzio e non solo negli States.
La pochezza delle argomentazioni di Obama e di Kerry ha fornito ulteriore forza all’intervento del Presidente russo, che ha saputo colpire l’opinione pubblica statunitense proprio l’11 settembre e giusto il giorno prima degli incontri previsti fra il Segretario di Stato degli Skull&Bones ed il Ministro degli esteri russo Lavrov, quello che tempo fa aveva coniato il termine pace fredda per descrivere le relazioni russo-statunitensi, che sono ormai degenerate in un clima di aperta guerra fredda.
Per cominciare, Vladimir Putin ha sbattuto in faccia a lettori statunitensi che gli appelli alla nazione del loro Presidente possono contenere una menzogna di base, degna di quelle del Bush dei bei tempi, sui gas: «Nessuno dubita del fatto che gas letali siano stati utilizzati in Siria. Ma esiste ogni ragione per credere che non siano stati utilizzati dall’esercito siriano, ma dalle forze dell’ opposizione, al fine di provocare l’intervento da parte dei loro potenti padroni stranieri, che appoggiano i fondamentalisti. Indiscrezioni secondo cui i ribelli starebbero preparando un altro attacco – questa volta contro Israele – non possono essere ignorate». Con somma abilità ha anche inserito un riferimento ad Israele, che Andrew Rosenthal, responsabile delle pagine delle opinioni esterne e figlio d’arte del defunto editore esecutivo della testata, non ha potuto non prendere in considerazione nel decidere di pubblicare, visto anche che appare coerente con l’attuale attitudine del governo di Tel Aviv, cui il NYT è particolarmente sensibile, nei confronti della crisi siriana.
Il Presidente russo, inoltre, manda un chiaro avvertimento all’amministrazione USA, destinato ad influenzare fortemente Kerry nei suoi incontri con Lavrov: «È allarmante vedere che l’attacco militare in conflitti interni di paesi stranieri sia diventato un atteggiamento normale per gli Stati Uniti. È nei loro interessi di lungo termine? Ne dubito. Milioni di persone nel mondo guardano sempre di più all’America non come a un modello di democrazia ma come a una società che si affida dalla forza brutale, creando coalizioni sotto lo slogan “o siete con noi o siete contro di noi”». Un avvertimento che potrebbe svegliare dal loro torpore gli statunitensi, anche quelli che considerano normale l’aut-aut “o siete con noi o siete contro di noi”, facendoli tornare coi piedi per terra almeno da un punto di vista pragmatico: se volete continuare a provare ad essere i padroni del mondo dovete porre in atto una condotta più intelligente di quella che stanno portando avanti i vostri imbelli leader.
Quello russo, che è forse l’unico vero leader in campo, dà anche una lezioncina di geopolitica di base ai lettori ed ai loro governanti: «Un potenziale attacco da parte degli Stati Uniti contro la Siria, nonostante la forte opposizione da parte di molti paesi e dei principali leader politici e religiosi, incluso il Papa, risulterà in un numero più alto di vittime innocenti e in una escalation, allargando il conflitto molto oltre i confini della Siria. Un attacco aumenterebbe la violenza e creerebbe una nuova ondata di terrorismo. Potrebbe mettere a rischio gli sforzi multilaterali per risolvere la questione nucleare dell’Iran e il conflitto israelo-palestinese e destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente e il Nord Africa». Interessante notare come i russi siano cambiati dai tempi di Stalin: adesso riconoscono che anche il Papa ha le sue divisioni, che pur non intervenendo direttamente nelle battaglie possono influenzarne l’esito, e che è meglio averle al servizio dei propri fini.
Il riferimento all’Iran è, poi, un’abile carezza data ad Israele, ma anche una lezione sull’uso degli strumenti di propaganda essendo stata data proprio sul NYT. Per quanto noi si rifugga da logiche complottiste ottusamente antiebraiche o antimassonichea prescindere e che vedono “illuminati” dappertutto, non si può non notare che il quotidiano è di proprietà della The New York Times Company, che possiede anche l’International Herald Tribune ed il The Boston Globe, e che ha come attuale chairmanArthur Ochs Sulzberger Jr, il quale è succeduto al padre, Arthur Ochs Sulzberger, a sua volta erede di Arthur Hays Sulzberger e di Iphigene Bertha Ochs, figlia costei di Adolph Ochs, editore del The New York Times e del Chattanooga Times dell’epoca: una genealogia che lascia comprendere come, sia pur legittimamente, la linea editoriale del NYT non possa essere in contrasto con la linea politica di Tel Aviv.
Obama sembra, quindi, in procinto di essere abbandonato anche dai suoi più “leali” amici del settore e questo mentre Putin riceve il continuo sostegno da parte di Assad, che segue pedissequamente la linea diplomatica del Cremlino, accedendo senza riserve alle sue richieste. Anzi, nel caso dei gas il dittatore sottolinea addirittura che se Damasco accetta certe mutilazioni di sovranità, al fine di disinnescare il rischio di escalation bellica, è solo perché sono proposte della Russia e non perché teme gli USA, dando così anche lui, uno schiaffetto all’ego statunitense. Kerry, per parte sua, non riesce invece ad avere alcuna influenza sulla linea politica dei ribelli che premono per la guerra a tutti costi, obbedendo costoro solo ad Allah ed a Riad, che a suo tempo si era apertamente offerta di finanziare l’aggressione, purché fossero gli Usa a condurla e seguendo le direttive dei monarchi del Golfo.
Indipendentemente dalla tifoseria cui si appartiene, ma ancor più se, lucidamente, non si appartiene a nessuna tifoseria, non si può non registrare che Putin e la sua Amministrazione abbiano condotto una partita magistrale che ha chiuso nell’angolo Obama, facendo quasi risultar più degno del Nobel per la Pace il presidente russo rispetto a quello statunitense, anche se in questo ci vuol poco. Va detto, però, che i russi sono stati fortemente aiutati sia dall’atteggiamento di Assad, sia dalla ottusità dei ribelli che, nella loro foga islamizzatrice, sono andati a far strage in una città cristiana dove si parla ancora la lingua del fondatore di quella religione, facendo così crollare il muro di omertà del mainstream sulle atrocità degli insorti e regalando consensi in Occidente al Raìs che si voleva abbattere: all’Islam pare mancare quell’abilità manipolatoria dell’opinione pubblica in cui i gesuiti sono maestri da sempre.
La partita è ancora aperta, ma, nonostante l’aggressione non sia ancora iniziata, Obama sta subendo un rovescio dietro l’altro anche in patria, dove, peraltro, la maggioranza dei cittadini non vuole la guerra. A proposito: in democrazia non dovrebbe essere determinante la voce della maggioranza, oppure questa è solo un bene d’esportazione? La Russia, al contrario, ogni giorno che passa si sta dimostrando di essere più che all’altezza di gestire il “ nuovo Grande gioco”, mentre negli USA sembra non sappiano neppure cosa sia.
Ferdinando Menconi
Fonte: www.ilribelle.com
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“NON PROTEGGIAMO DAMASCO MA IL DIRITTO INTERNAZIONALE”
Putin: l’America non è il padrone del mondo
MOSCA. GLI ultimi avvenimenti concernenti la Siria mi hanno spinto a rivolgermi direttamente agli americani e ai loro leader politici. È un’azione importante in un’epoca in cui la comunicazione tra le nostre società è carente. I rapporti tra noi hanno attraversato diverse fasi. Ci siamo fronteggiati durante la guerra fredda.
Ma siamo stati anche alleati un tempo e, assieme, abbiamo sconfitto i nazisti. Venne allora istituita l’organizzazione internazionale universale, l’Onu, per impedire che una devastazione simile tornasse a verificarsi.
I FONDATORI dell’Onu compresero che è opportuno che le decisioni sulla guerra e sulla pace vengano prese solo all’unanimità e, con il consenso dell’America, venne sancito nello Statuto delle Nazioni Unite il diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Questa previsione profondamente saggia ha favorito la stabilità dei rapporti internazionali per decenni. Nessuno auspica che l’Onu subisca il destino della Lega delle Nazioni, crollata perché non esercitava un reale ascendente. È possibile che questo accada se paesi influenti, scavalcando l’Onu, intraprendono un’azione militare senza previa autorizzazione del Consiglio.
Il potenziale attacco contro la Siria a opera degli Usa, nonostante l’opposizione di massimi leader politici e religiosi, incluso il Papa, causerebbe ulteriori vittime innocenti e un’escalation del conflitto che potrebbe estendersi ben oltre i confini siriani. L’attacco scatenerebbe una nuova ondata di terrorismo. Potrebbe minare gli sforzi multilaterali per risolvere il problema del nucleare iraniano e il conflitto israelo-palestinese, destabilizzando ulteriormente il Medio Oriente e il Nord Africa. Potrebbe squilibrare l’intero sistema internazionale di ordine e legalità.
La Siria non è di fronte a una battaglia per la democrazia, bensì a un conflitto tra governo e opposizione in un paese multireligioso. Sono pochi in Siria i paladini della democrazia, ma ci sono più che a sufficienza combattenti di Al Qaeda ed estremisti di ogni genere in lotta contro il governo. Il dipartimento di Stato Usa ha rubricato come organizzazioni terroristiche il Fronte Al Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che combattono a fianco dell’opposizione. Questo conflitto interno, alimentato dalle armi straniere fornite all’opposizione, è uno dei più sanguinosi del mondo. I mercenari arabi che combattono in Siria e i militanti provenienti dai paesi occidentali, persino dalla Russia, sono per noi fonte di grave preoccupazione. E se rientrassero nei nostri paesi con l’esperienza acquisita in Siria? In fin dei conti dopo aver combattuto in Libia gli estremisti si sono spostati in Mali. È una minaccia per tutti noi.
Fin dall’inizio la Russia ha promosso un dialogo pacifico che consentisse ai siriani di elaborare un compromesso per il loro futuro. Non stiamo proteggendo il governo siriano, bensì il diritto internazionale. Dobbiamo ricorrere al Consiglio di Sicurezza e credere che tutelare l’ordine e la legalità nel mondo complesso e turbolento di oggi sia uno dei pochi modi per impedire che i rapporti internazionali scivolino nel caos. La legge è sempre legge e dobbiamo seguirla, volenti o nolenti. In base al diritto internazionale l’uso della forza è consentito solo per autodifesa o su decisione del Consiglio di Sicurezza. Qualunque altro comportamento costituirebbe un atto di aggressione.
Nessuno dubita che in Siria sia stato usato gas venefico. Ma è giustificato credere che non sia stato usato dall’esercito siriano, bensì dall’opposizione, per provocare l’intervento dei loro potenti Stati stranieri. Non si possono ignorare i rapporti secondo cui i militanti stanno preparando un nuovo attacco, stavolta contro Israele. È allarmante che l’intervento militare nei conflitti interni di paesi stranieri sia diventato una pratica comune per gli Usa.
Rientra nell’interesse a lungo termine dell’America? Ne dubito. Nel mondo l’America viene sempre più considerata da milioni di persone non un modello di democrazia, ma un paese che conta solo sulla forza bruta. Ma l’uso della forza si è dimostrato inefficace e senza scopo. L’Afghanistan vacilla e nessuno può prevedere cosa succederà dopo il ritiro delle forze internazionali. La Libia è divisa in tribù e clan. In Iraq la guerra civile prosegue e ogni giorno si contano decine di morti. Negli Usa molti vedono analogie tra l’Iraq e la Siria e si chiedono perché il loro governo voglia reiterare errori recenti. Non conta quanto siano mirati gli attacchi, le vittime civili sono inevitabili, inclusi gli anziani e i bambini, che gli attacchi hanno l’intento di proteggere.
Il mondo reagisce chiedendosi: se non si può contare sul diritto internazionale, allora bisogna trovare altri modi di garantirsi la sicurezza. Così sono sempre più numerosi i paesi che cercano di acquisire armi di distruzione di massa. È logico: se hai la bomba, nessuno ti toccherà. A parole si afferma la necessità di rafforzare la non proliferazione, quando in realtà viene minata. Dobbiamo smettere di usare il linguaggio della forza e tornare sulla via della civile soluzione diplomatica e politica dei conflitti.
Negli ultimi giorni è emersa una nuova opportunità di evitare l’intervento militare. Gli Usa, la Russia e tutti i membri della comunità internazionale devono mettere a frutto la disponibilità del governo siriano a porre il proprio arsenale chimico sotto il controllo internazionale affinché venga distrutto. A giudicare dalle dichiarazioni del Presidente Obama gli Usa la considerano un’alternativa all’intervento militare. Apprezzo l’interesse del Presidente a proseguire il dialogo con la Russia sulla Siria. Dobbiamo collaborare per mantenere viva questa speranza, come concordato al vertice G8 in Irlanda del Nord a giugno, e ricondurre il dibattito verso il negoziato. Se riusciremo a evitare l’uso della forza contro la Siria migliorerà l’atmosfera degli affari internazionali e si rafforzerà la fiducia reciproca. Sarà un successo comune che aprirà la porta alla cooperazione su altri temi critici. La mia azione e il mio rapporto personale con il presidente Obama sono caratterizzati da una fiducia crescente. Ho analizzato con attenzione il suo discorso alla nazione di martedì.
La tesi dell’eccezionalità americana che sostiene quando afferma che la politica degli Stati Uniti «è quello che differenzia l’America, quello che ci rende eccezionali» mi trova piuttosto in disaccordo. Esistono paesi grandi e paesi piccoli, ricchi e poveri, paesi di lunga tradizione democratica e paesi che stanno trovando la strada verso la democrazia. Anche le loro politiche sono diverse. Siamo tutti diversi, ma quando chiediamo la benedizione divina non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati uguali.
Vladimir Putin
Fonte: www.repubblica.it
(© 2013 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)