DI
MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Quando al V-Day di Genova Grillo, abbandonato per un momento il mantra del “Tutti a casa”, che campeggiava anche sulle magliette distribuite in Piazza della Vittoria è tornato sul tema del lavoro (già sfiorato in altre occasioni senza ottenere molta attenzione) visto però in un’ottica completamente diversa da quella attuale (“Chi non lavora non mangia”) affermando che “il lavoro è schiavitù e deve essere ripensato”, la folla osannante che gremiva la piazza non lo ha seguito e non lo ha capito.
Eppure questa visione del lavoro è centrale se non nell’intero Movimento 5Stelle, certamente lo è, anche se in modo un po’ confuso, nel pensiero del suo leader, così come per la Lega delle origini lo era l’identità prima che tracimasse in xenofobia.
Prima della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato un valore.
Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. C’è qualche studioso (R. Kurtz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri, 1997) che ipotizza che in epoca pre-industriale non esistesse il concetto stesso di lavoro così come noi modernamente lo intendiamo, semmai quello di mestiere che è cosa diversa.
Anche la Chiesa, almeno stando a San Paolo, considerava i lavoro “Uno spiacevole sudore della fronte”
È l’Illuminismo che, razionalizzando gli straordinari sconvolgimenti portati dall’industrialismo, fa del lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per Marx il lavoro è “l’essenza del valore”, per i liberisti (Adam Smith, David Ricardo)è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso “plus valore”. Da questo punto di vista, liberismo e marxismo si differenziano molto poco (Stakanov è un’eroe dell’Unione sovietica e Lulù, nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volonté è, almeno nella prima parte del film, lo Stakanov italiano nel beffardo capolavoro di Elio Petri, La classe operaia va in Paradiso).
È da qui che ha inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi oggi non produciamo nemmeno più per consumare, ma consumiamo per poter continuare a produrre.
E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute.
O la cassiera di un supermarket deve considerare vita passare otto ore al giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in un call-center.
Volete altro ? Che senso ha aver inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il tempo così guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione di strumenti ancor più veloci in un circolo vizioso che non ha mai fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l’abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario.
Ciò a cui, sia pur confusamente, pensa Grillo (e non so se i suoi giovani seguaci, tantomeno i suoi elettori, l’hanno capito) è un ritorno al passato. Non è un rivoluzionario ma un reazionario (anche se, a questo punto, le due cose finiscono per coincidere). Pensa a un ritorno all’agricoltura, all’artigianato, a una piccola impresa che non superi le dimensioni dell’antica bottega.
Utopia? Oggi certamente sì. Domani forse no. Ed è qui che l’ormai vecchio Beppe si differenzia dal giovane paraculo Renzi. Rottamare tutti, mandare “tutti a casa”non ha senso se poi si continua col modello di sempre.
Massimo Fini
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