di
Luciano Gallino
«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa – una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato – e spero lo abbiano capito nel modo giusto – di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo di Firenze nel giugno 2010.
Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita – non prevista nemmeno dai trattati Ue – della sovranità degli Stati stessi.
Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche.
Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact, che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale».
I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno – la modifica dell’art. 81 della Costituzione.
Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio.
L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa.
Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.
Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite.
La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.
Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono – nientemeno – che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di“democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.
Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati.
Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo – nemmeno il Parlamento Europeo – che possa interferire con quanto tale gruppo decide.
Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione – come vari giuristi hanno messo in luce – viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale.
Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce – meglio se sono tante – per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?
Fonte : Repubblica