di
Salvatore Altiero
Il privato su ogni forma di controllo pubblico, il mercato sullo Stato, la deregolamentazione ambientale ed economica sulla tutela del bene comune. Se dagli anni ’90 ad oggi l’incremento del Pil mondiale è stato sempre compreso tra il 2 ed il 5%, escluso il periodo a cavallo tra 2008 e 2009, in piena crisi economica, è anche grazie alla spinta verso la sostituzione di una regolamentazione di tipo contrattuale o pattizio a quella legislativa o costituzionale. Vale soprattutto per l’assoggettamento di lavoro e ambiente ad un regime di scarsa tutela.
Su questo principio fonda il TTIP – Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP) su cui Unione europea e Stati Uniti negoziano dal luglio 2013.
Negoziazioni sottratte al dibattito pubblico e ad ogni forma di responsabilità politica dei governi nazionali, senza consultazione con le parti sociali. Il mandato negoziale, le direttive da seguire nelle trattative Ue-Usa, sono state rese pubbliche solo di recente, quasi due anni dopo l’inizio dei negoziati.
Obbiettivo del trattato è la rimozione degli “ostacoli” alla libera circolazione dei prodotti derivanti da differenze normative in materia di tutela ambientale, diritti del lavoro, tutela della salute. In sede negoziale, i differenti regimi a cui merci e servizi possono essere sottoposti a fini di tutela di diritti fondamentali, vengono definiti barriere non tariffarie, «generatrici di problemi», «irritanti commerciali».
Se obbiettivo primario rimane l’incremento del Pil, è facile: il commissario del commercio Karel De Gucht ha diffuso stime per cui saranno creati 2 milioni di posti di lavoro in Europa, 119 miliardi di euro l’anno di Pil per l’Europa e 130 per gli Stati Uniti. In realtà, questa “enorme” crescita economica, non beneficia i cittadini. Se anche fosse equamente ripartita, si tradurrebbe in 545 euro in più l’anno per ogni famiglia europea e in 901 dollari negli Stati Uniti, per altro solo entro il 2027. La realtà è che questa redistribuzione è un criterio fittizio, mentre i reali beneficiari dei negoziati sono chiari se si osservano i dati sulle diseguaglianze: quelli pubblicati da Oxfam nel gennaio 2015 affermano che, nel 2014, “l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale”. Non sono barriere ma diritti quelli che il TTIP vuole abbattere per incrementare il Pil. E l’obbiettivo non è dare qualche euro in più all’anno alle famiglie europee e statunitensi, ma favorire i grandi profitti.
Si discute così della possibilità di monopoli privati per la gestione dei servizi, della necessità che le imprese statunitensi e quelle europee abbiano pari trattamento reciproco sui rispettivi mercati nella gestione del servizio sanitario, di quello idrico e dei servizi sociali. Non può esservi altro che una finalità puramente economica per un’azienda, privata o pubblica che sia, a gestire i servizi essenziali di un altro Paese in completa assenza di responsabilità politica.
Il TTIP discute anche la rigida applicazione del libero mercato al settore energetico. Questa impostazione è ciò che in Italia ha spinto la corsa alle trivellazioni, alla costruzione e al sostegno economico di centrali termoelettriche e alla realizzazione di inceneritori: “risolvere” il problema energetico moltiplicando l’offerta in un’ottica di mercato, rinunciando ad una politica strategica volta a regolare la domanda e ad adeguare ad essa la produzione. In questo modo, a fronte di un picco massimo dei consumi di 56.822 MWh richiesti alla rete italiana, dal 2002 ad oggi, nuove centrali a gas e riconversione a carbone di centrali ad olio, hanno portato al raggiungimento delle 78mila MW di energia prodotta da centrali termoelettriche, a cui si aggiungono almeno 45mila MW da fonti rinnovabili. L’offerta sopravanza la domanda e, quindi, per rendere conveniente la produzione o intervengono sovvenzionamenti pubblici o si mantengono alti i prezzi. Contraddicendo le stesse regole del libero mercato.
Emblematico quanto sta avvenendo proprio negli Stati Uniti con il perseguimento dell’autosufficienza energetica attraverso un forte investimento nelle tecniche di estrazione del cosiddetto combustibile non convenzionale, sabbie bituminose, shale gas, shale oil. Si tratta di combustibili non solo ad elevato impatto ambientale ma dall’alto costo economico. Un nuovo impulso alle fonti fossili che ha potuto reggersi in condizioni di prezzi elevati, il recente crollo dei prezzi ha messo subito in crisi il settore. Nei Paesi europei si discute sulla possibilità di vietare l’estrazione tramite fratturazione idraulica (fracking) per motivi ambientali o di sicurezza pubblica. In tale direzione, in Italia, la Commissione ambiente alla Camera ha approvato un emendamento al collegato Ambiente alla legge di Stabilità 2014. Il TTIP tende ad aggirare questo tipo di divieti per garantire l’accesso al mercato europeo di questi combustibili e la concessione dei permessi di ricerca ed estrazione.
Centrale nei negoziati, è l’istituzione del sistema di arbitrato internazionale Isds (Investor-state dispute settlement), un meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato svincolato dalla giurisdizione ordinaria dei tribunali nazionali. Una sorta di tribunale commerciale il cui giudizio fonda sulle regole del mercato e non sulla garanzia dei diritti fondamentali o della tutela ambientale.
Nel maggio 2013, ad esempio, il Quebec vietò proprio l’estrazione di gas e petrolio tramite fracking. Le industrie Usa fecero ricorso al tribunale arbitrale del Nafta (North American Free Trade Agreement) a tutela dei propri interessi economici. È questo tipo di meccanismi che il TTIP vuole potenziare.
Così, se l’Italia approvasse la legge d’iniziativa popolare del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, indirizzando il paese verso nuove forme di gestione pubblica del servizio idrico, potrebbe subire la reazione delle multinazionali del settore.
Con il termine “armonizzazione” si descrive ciò che è invece un gioco al ribasso sugli standard ambientali, sociali, lavorativi, di tutela dei consumatori e della salute. Gli Usa, ad esempio, non hanno mai ratificato alcune fondamentali norme e convenzioni sul lavoro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), concernenti la libertà di associazione e sindacale. In quest’ottica, non è un caso che il piano di risanamento Fiat di Marchionne abbia puntato contemporaneamente su lotta al sindacato e accesso al mercato Usa. Qui, la legislazione anti-sindacale nota col nome “Diritto al lavoro”, ha abbattuto le libertà di associazione per i lavoratori e indebolito i loro diritti, generando una corsa all’abbattimento dei salari dovuta alla corsa degli Stati a garantire il più basso costo possibile del lavoro nel tentativo di trattenere i capitali esteri.
Guardando all’Italia, le trasformazioni in atto replicano a livello nazionale le tendenze che orientano i negoziati in sede transatlantica. Così l’attacco spietato ai sindacati e il Jobs Act. Il nuovo impulso alle fonti fossili e l’accentramento dei poteri riguardanti le concessioni per la ricerca e le estrazioni nello Sblocca Italia. Le spinte alla ulteriore privatizzazione dei servizi nella Legge di Stabilità.
La strada tracciata è semplice, riproporre un modello di sviluppo anacronistico imponendo un parallelo incremento dei costi sociali ed ambientali. Contro il TTIP è in rete una petizione online e tante sono le iniziative di mobilitazione civile in programma nei prossimi mesi.
Fonte: Il Fatto Quotidiano