DI
ALBERTO BAGNAI
Il Fondo si smentisce spesso: l’austerità fa male, ma in Grecia no, la flessibilità crea disoccupati e deprime i salari, però va applicata. Motivo: i “tecnici” sono al servizio delle potenze globali o locali dominanti
“Contrordine compagni”. Il popolo di Twitter ha salutato con uno sberleffo la notizia fornita dal ilfattoquotidiano.it il 10 aprile scorso: il Fondo monetario internazionale (Fmi) ci avrebbe ripensato, “liberalizzare il mercato non spinge l’economia”. Nota Mauro Del Corno che questa presa di posizione, sostenuta nell’ultimo numero del World Economic Outlook (Weo), azzoppa il principale cavallo di battaglia dell’ideologia liberista, inforcato dal compagno Renzi per farci adottare il Jobs Act.
Il lettore potrebbe essere colto da un certo sgomento: “Ma come!? Istituzioni così prestigiose sconfessano l’anno dopo ciò su cui spergiuravano l’anno prima? Allora è vero che nel procelloso mare della crisi siamo privi di bussola, perché, come amano ripetere gli epistemologi da bar, l’economia non è una scienza! Certo – concluderà il lettore – siamo proprio messi male!”. Ci sentiamo di rassicurarlo: la verità è che siamo messi peggio, perché a livello scientifico non c’è stato alcun cambiamento di rotta. Che le riforme del mercato del lavoro a base di flessibilità fossero come la Corazzata Kotiomkin di fantozziana memoria (“92 minuti di applausi”) gli studi specialistici lo avevano appurato da tempo e senza appello.
Il problema è un altro, ed è ben noto: gli organismi millantati come “tecnici”, quali il Fmi o la Bce, sono a tutti gli effetti organi di indirizzo politico al servizio delle potenze globali o locali dominanti (Usa e Germania). Il loro messaggio si adatta ai mutevoli diktat del ringhioso potente di riferimento: all’occorrenza, prestigiosi colleghi mentono sapendo di mentire, per salvare il loro scranno in quegli autentici paradisi fiscali che sono le istituzioni multilaterali (Fmi, Ocse, Bce), fatti di stipendi a quattro zeri spesso sottratti a qualsiasi fisco. Il risultato di questo modo di agire è quello di gettare intere popolazioni nella miseria e l’intera professione economica nel discredito. Prendiamo ad esempio l’austerità in Grecia. Il presupposto perché questa funzionasse era che per ogni euro di taglio alla spesa, il Pil diminuisse meno di un euro (o addirittura aumentasse, come sostenuto dai due noti fantasisti del Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi).
In termini tecnici, occorreva che il “moltiplicatore” (il numero che moltiplicato per la variazione della spesa pubblica fornisce la corrispondente variazione del Pil) fosse minore di uno, altrimenti ogni taglio di spesa (quindi di deficit, quindi di debito) sarebbe stato vanificato da un più che proporzionale calo di reddito (quindi di entrate fiscali). Ma siccome la Grecia doveva essere frantumata, per cavarne il succo da servire ai creditori esteri, cosa diceva a marzo 2012 il servile Fmi nel suo Country Report? Che il moltiplicatore della Grecia era solo 0,5, quindi l’austerità non le avrebbe fatto male! Per ogni taglio di un euro il Pil greco sarebbe calato solo di mezzo euro, e tutti sarebbero vissuti austeri e contenti. Tuttavia, come ho mostrato nel mio blog, gli studi disponibili all’epoca chiarivano che il moltiplicatore greco era almeno tre volte tanto (intorno a 1,5) e quindi i tagli avrebbero distrutto l’economia greca. Non solo: lo stesso Fmi in contemporanea affermava che siccome l’economia era ancora depressa e i tassi di interesse bassissimi, era prevedibile che i moltiplicatori fossero piuttosto alti (leggi: maggiori di uno) e quindi terapie d’urto a base di tagli erano sconsigliabili (p. 172 del Weo di aprile 2012). Ciliegina sulla torta, a p. 41 del Weo di ottobre 2012, Blanchard si chiede, anima candida: “Stiamo forse sottostimando i moltiplicatori?” Ma no, che dici! Per avvalorare un piano di aggressione criminale a un paese sovrano avete scelto una stima pari a un terzo di quella comunemente accettata! Se ti tagliassero di due terzi lo stipendio te ne accorgeresti, Olivier?
E la flessibilità? Stessa identica storia. Sentite questa: “Un aumento (della flessibilità del lavoro, ndr) inizialmente genera una diminuzione del salario reale e un aumento della disoccupazione” perché “diminuisce il potere contrattuale dei lavoratori”, anche se dopo una simile riforma il futuro “dovrebbe essere roseo” (per chi ci arriva, ovviamente). Chi sono gli autori di questa ardita asserzione? Tenetevi forte: ancora una volta il candido Blanchard, in compagnia dell’austeroGiavazzi (NBER Working Paper 8120 del 2001). Ora, a voi pare che in una crisi di domanda con disoccupazione alle stelle sia consigliabile una cosa che fa diminuire i salari (quindi la spesa delle famiglie) e aumentare la disoccupazione? Certo che no. E a Blanchard, capo economista del Fmi, sarà sembrata consigliabile? No, visto che, fra l’altro, era stato proprio lui a consigliare il contrario da una tribuna così prestigiosa e in tempi non sospetti. Ma nell’aprile 2012 il Weo, emesso dall’organizzazione di cui lui è chief economist, si sperticava in lodi sulle riforme del lavoro che “avevano stabilizzato l’Eurozona” (a pag. XV). Ora che gli Usa si preoccupano, perché è successo nel 2015 quello che Blanchard aveva previsto nel 2001 (calo della domanda in seguito alle riforme, con pericolo per la ripresa mondiale), ecco che il docile Blanchard, a un fischio del padrone, dice la verità, sconfessando le baggianate avallate nel 2012. Se questo è un economista… Per “errori” venali e intenzionali come questi non ci sarà alcun tribunale se non quello divino, e in questo caso, Iddio mi perdoni, provo una certa insofferenza per i tempi della giustizia.
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it