In campagna elettorale il miliardario accusava i vertici della banca di derubare la “working class” e mettere “quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporation ed entità politiche”. Ora il presidente eletto mette alti dirigenti della banca d’affari nei ruoli chiave dell’economia: così la grande finanza sta riprendendo il ruolo per anni giocato nella politica americana. Che Obama aveva provato a limitare
di
Roberto Festa
Con la nomina di Gary D. Cohn a direttore del National Economic Council, si completa l’operazione di ritorno di Goldman Sachs ai vertici del governo Usa. Cohn, attualmente Chief Operating Officer(COO) della banca, sarà dunque responsabile dell’organo incaricato di pianificare la politica economica dell’amministrazione. Oltre a Cohn, ai vertici dell’amministrazione ci sarà un altro ex uomo Goldman, Steven Mnuchin, nominato segretario al Tesoro. In pratica, l’intera politica economica e finanziaria del futuro governo di Donald J. Trump verrà decisa da veterani del colosso di Wall Street.
Si tratta, per il presidente eletto, di un deciso cambiamento di rotta rispetto agli attacchi contro l’élite finanziaria, in particolare proprio contro Goldman Sachs, che hanno segnato tutta la campagna elettorale. In uno spot trasmesso nei giorni conclusivi della campagna, Trump metteva in guardia contro “una struttura di potere globale che è responsabile delle decisioni economiche che hanno derubato la nostra working class, privato il nostro paese della sua ricchezza e messo quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporation ed entità politiche”. Le parole erano accompagnate dall’immagine di Lloyd C. Blankfein, CEO di Goldman Sachs e amico strettissimo di Cohn (nello spot comparivano anche George Soros e Janet Yellen, in un’indiretta ma chiarissima allusione alla vecchia tesi razzista dell’influenza ebraica nel mondo finanziario).
Cohn, figlio di un immobiliarista di Cleveland, ha un passato di trader nel settore dei metalli preziosi ed è entrato in Goldman nel 1990. Partner dal 1994, è co-chief operating officer nel 2006, quando l’amico Blankfein diventa CEO. Diventa chief operating officer, quindi di fatto numero 2 di Goldman Sachs, nel 2009 e da allora è l’immagine internazionale della banca d’investimento, spesso presente a Davos e ai grandi appuntamenti internazionali. Possiede 872.712 azioni di Goldman (dati di Standard & Poor’s Global Market Intelligence), per un valore di 209 milioni di dollari (alla chiusura dei mercati la settimana scorsa). Le sue idee, in tema di politica finanziaria ed economica, sono molto diverse da quelle autarchiche propugnate da Trump in campagna elettorale (del resto, come altri settori del mondo finanziario Usa, Cohn vota democratico e ha generosamente finanziato i candidati democratici).
“A Goldman Sachs abbiamo una forza lavoro globalizzata – ha spiegato Cohn – quindi quando mi metto alla ricerca di un lavoratore che costituisca un incremento per noi, mi rivolgo al mondo intero”. La sua partenza da Goldman Sachs apre un vuoto importante e una battaglia per la successione. Ma il suo addio è anche destinato a influire positivamente sulla sua fortuna personale. Per evitare conflitti d’interesse, Cohn sarà costretto a vendere le partecipazioni in Goldman. Non dovrà pagare immediatamente le tasse – che sarebbero molto alte – perché una legge esplicitamente rivolta a chi viene nominato a un posto di governo gli consente di investire il ricavato della vendita in titoli del Tesoro.
Gary Cohn e Steven Mnuchin non sono però i soli uomini-Goldman che arrivano ai vertici del potere Usa nella nuova amministrazione Trump. Ha un passato in Goldman Sachs anche Stephen K. Bannon, guida e ispiratore del sito di estrema destra Breitbart News e ora capo stratega di Trump. Ed è stato un banchiere di Goldman anche Anthony Scaramucci, consigliere chiave della squadra di transizione che prepara la nuova amministrazione. La loro ascesa dimostra che la grande finanza Usa – e in particolare Goldman Sachs, la sua espressione più influente – stanno riprendendo il ruolo per anni giocato nella politica americana. Va ricordato che il National Economic Council che Cohn va ora a dirigere è stato creato da Bill Clinton nel 1993 per Robert E. Rubin, altro uomo Goldman diventato poi segretario al Tesoro dello stesso Clinton. Sempre da Goldman Sachs veniva Stephen Friedman, direttore del National Economic Council di George W. Bush, che alla guida del tesoro mise Henry Paulson, anche lui ex CEO di Goldman.
La crisi finanziaria del 2008 interrompe il vortice di “porte girevoli” tra banche e politica e Barack Obama è costretto a porre qualche limite con l’approvazione della Dodd-Frank che regola i mercati, costringe le banche ad accantonare maggiori capitali per fronteggiare futuri rischi, le sottopone a controlli più stringenti dell’authority, limita le remunerazioni degli azionisti in forma di dividendi e buy-back azionari. Non è un caso che, negli anni di Obama, il sistema bancario americano conosca un’improvvisa stasi. Jamie Dimon è alla guida di JPMorgan da 12 anni; Brian Moynihan sta per completare il suo sesto anno come CEO di Bank of America; Lloyd Blankfein, identificato da Trump come mano armata del capitalismo di matrice democratico-clintoniana, entra nel suo secondo decennio alla guida di Goldman. E’ vero che anche Obama deve in qualche modo rendere omaggio al vecchio sistema di potere. Vengono da Goldman Sachs Rahm Emanuel, il suo primo chief of staff, e uno dei suoi primi consiglieri, Gregory Craig; ma è un dato di fatto che l’influenza di Goldman, e di altre istituzioni finanziarie, è meno fortesoprattutto nella prima fase della presidenza Obama.
Le cose cambiano con l’ascesa di Trump. Al di là delle sparate anti-finanza in campagna elettorale, al di là della promessa di “bonificare la palude” dei rapporti tra politica e denaro, il futuro presidente ha espresso una chiara volontà di cancellare o allentare le regole finanziarie imposte dalla Dodd-Frank. Nonostante le frequenti tirate contro quegli imprenditori che trasferiscono posti di lavoro all’estero, Trump non ha mai detto una parola contro Goldman Sachs, che insieme ad altre istituzioni finanziarie ha trasferito migliaia di posti di lavoro all’estero (il quartier generale più importante di Goldman, dopo quello di New York, si trova a Bangalore, in India). Sono del resto anche gli interessi personali di Trump a spingere in quella direzione. Tra i lenders per il complesso immobiliare al 1290 di Avenue of the Americas (partecipato da Trump al 30% insieme a Vornado Realty) ci sono Bank of China e, appunto, Goldman Sachs.
Ecco quindi che, dopo alcuni anni di inerzia, le porte tornano di nuovo a girare vorticosamente. Deutsche Bank segnala un “macro environment favorevole” e invita a comprare titoli bancari. Goldman Sachs, in particolare, aumenta il valore delle proprie azioni del 34% (mai così alto negli ultimi otto anni) e una serie di suoi alums, vecchi alunni, entrano dalla porta principale nel nuovo governo. I tempi della campagna elettorale, quelli in cui Trump accusava Ted Cruz e Hillary Clinton di essere “servi” di Wall Street, sono ormai lontani e il futuro presidente sente di avere mano libera nel delineare le future strategie di politica economica e finanziaria.
Non è ovviamente soltanto Goldman Sachs a beneficiarne. Wilbur Ross, un banchiere specializzato nel comprare, ristrutturare e poi rivendere fabbriche d’acciao e vecchie miniere in crisi, è stato nominato al Commercio. E tra gli altri miliardari collocati in posti chiave nella nuova amministrazione ci sono Betsy DeVos, nominata segretaria all’Educazione, e Todd Ricketts, il co-proprietario dei Chicago Cubs, diventato il vice al Commercio. E’ insomma buona parte del grande mondo economico e finanziario che torna in auge nell’amministrazione che doveva vendicare i diritti del forgotten man.