DI
MAURO BOTTARELLI
Prima di tutto, scusatemi in anticipo per la lunghezza dell’articolo di oggi. Immagino che pochi di voi abbiano visto la serie tv “Il prigioniero”, io stesso l’ho scoperto da poco, grazie alla lettura di un articolo del “Boston Globe”. Andata in onda sulla tv britannica 50 anni fa, 17 episodi in tutto, racconta la storia di un agente segreto – il cui nome è semplicemente un numero di matricola, “Numero 6”- che abbandona il suo lavoro ma che si ritrova recluso in una fortezza chiamata “The Village”, dove è controllato, interrogato, sottoposto a test ed esperimenti di controllo sociale in continuazione.
Quello che vedete nella foto di copertina è il protagonista e regista, Patrick McGoohan, di cui rimane famosa una frase: “Siamo governati dal Pentagono, siamo governati da Madison Avenue, siamo governati dalla televisione e fino a quando accetteremo queste cose e non ci rivolteremo, dovremo continuare a scorrere con il flusso della valanga… Fino a quando continueremo a comprare cose, saremo alle loro mercé… Viviamo tutti in un piccolo Villaggio. Il tuo Villaggio può apparirti differente dal Villaggio degli altri ma alla fine siamo tutti prigionieri”.
“Il prigioniero” venne descritto da un critico dell’epoca come “una serie televisiva basata sulla distopia, qualcosa che ricorda James Bond che incontra George Orwell, filtrato attraverso Franz Kafka”. I temi trattati, d’altronde, erano decisamente all’avanguardia: la nascita di uno stato di polizia, la libertà dell’individuo, la sorveglianza h24, la corruzione del governo, il totalitarismo, la corsa agli armamenti sia degli Stati che delle società civili, il pensiero di gruppo e il marketing di massa, fino al dato più devastante.
Ovvero, la tendenza dell’uomo ad accettare di essere prigioniero di un carcere che lui stesso ha contribuito scientemente a costruire. Non a caso, “The Village” ha le sembianza tranquillizzanti e positive di un paradiso cosmopolita in riva al mare ma dove gli abitanti non godono di reale libertà: non possono andarsene, sono sotto costante sorveglianza, ogni loro movimento è tracciato da telecamere o droni e la loro personalità è stata annullata. Sono soltanto identificati attraverso numeri. Come con le fidaty card.
Bene, nel primo episodio della serie, conosciamo appunto il protagonista, “Numero 6”, il quale ha il proprio mantra, ripetuto a ogni episodio: “Io non sono un numero, sono un uomo libero”. La colpa del protagonista, che corrisponde al motivo per cui è rinchiuso in “The Village”, è proprio il suo essere un ex agente segreto: al suo arrivo, gli viene infatti reso noto che dentro la sua testa sono stoccate troppe informazioni, una fattispecie che lo rende troppo prezioso per essere lasciato vagabondare nel mondo esterno. Nel corso della serie, esiste un fil rouge: “Numero 6” viene interrogato con tattiche differenti, viene torturato, costretto ad assumere droghe allucinogene, diviene oggetto di furto d’identità, controllo mentale, manipolazione onirica e altre forme di indottrinamento e coercizione sociale al fine di farlo arrendere e soggiogare al potere, allo status quo. Ma “Numero 6” non molla mai. Resiste.
“Non scenderò mai a patti con te. Mi sono licenziato e non sarò spinto, classificato, indicizzato o numerato. La vita è mia”, è la risposta a ogni tentativo di distruzione dell’identità e superamento dei gradi di resistenza sociale e individuale. Ma c’è un contraltare a questa eroica lotta: per quanto resista, “Numero 6” non può scappare. Per quanto combatta, lo sforzo non è mai sufficiente. E’ il principio del panopticon, il carcere ideale progettato a fine Settecento da Jeremy Bentham: un unico soggetto riesce a controllare tutti i carcerati, senza far loro capire quando sono sorvegliati e quando no. Telecamere, droni e altri strumenti di sorveglianza rendono “The Village” una trappola inespugnabile, mentre i cosiddetti “rovers” – gli omini bianchi della foto di copertina – si prodigano al fine di blindare tutte le vie d’uscita di “Numero 6”: “A differenza mia, molti di voi hanno accettato la situazione di prigionia e moriranno qui come cavoli marci”, ripete il protagonista ai suoi compagni quasi a spronarli, a ottenere solidarietà nella lotta, a fomentare la rivolta.
E, soprattutto, per rivendicare la propria diversità, la propria resistenza, la propria superiorità morale di fronte a un mondo che precipita nel totalitarismo più bieco senza battere ciglio. Ma “Numero 6” in cuor suo sa una cosa – e la serie lo fa capire in maniera chiara – e la sua lotta ne è la riprova: ogni sforzo è soltanto esaltazione della futilità della sua stessa volontà di resistenza. Lui combatte, per sé e per gli altri ma sa che non serve a nulla, nel concreto: quando McGoohan morì nel 2009, un critico scrisse che “la serie era un’allegoria dell’individuo, un qualcuno che sta cercando di trovare pace e libertà in una mascherata dispotica spacciata per utopia”.
Non notate qualche somiglianza con la situazione attuale? Le nostre società cosmopolite, integrazioniste, super-tecnologiche non sono in fondo tanti “The Village” ultra-sorvegliati e che non ci lasciano via d’uscita, pena l’isolamento, la criminalizzazione sociale e la ghettizzazione ideale? La televisione, i media in generale, la logica delle fake-news e della post-verità, non sono moderne e meno invasive forme di condizionamento e controllo sociale, esattamente come gli esperimenti cui venivano sottoposto “Numero 6”? Non siamo, forse, già un uno stato di polizia? Anzi, in un prodromo di legge marziale, de facto? Pensateci: la più grande democrazia al mondo, il faro di libertà, non è forse guidata da un uomo che, a sua volta, non si azzarda a prendere nemmeno un caffé senza l’ok dei suoi generali? E lui li chiama proprio così, quando parla delle iniziative di politica estera che presenta al mondo: “Me lo hanno detto i miei generali”.
Di fatto, gli USA sono retti da una “junta” militare, esattamente come fu negli anni per Cile, Argentina, Turchia e Grecia: meno plateale, non abbiamo i colonnelli alla Bruce Willis in “Attacco al potere”, né i carrarmati a presidiare il ponte di Brooklyn ma, guardando in faccia la realtà, chi governa davvero in America, con il beneplacito e la copertura “sociale” del comparto bellico-informativo-industriale? E’ la classica “junta” militare a tre: il generale James Mattis, capo del Pentagono, il generale John Kelly, chief of staff del presidente e il generale H.R. McMaster, consulente per la sicurezza nazionale. Casualmente, i tre uomini che il Deep State voleva in quei posti, dopo le sliding doors poste in essere alla Casa Bianca, con licenziamenti davvero degni di “The apprentice” e il Russiagate a facilitare il lavoro. E’ stato Mattis a bloccare reazioni “di pancia” verso la Corea del Nord, Kelly ha imposto l’ordine allo staff della Casa Bianca e McMaster si è distanziato con grande rapidità e fermezza dalle parole del presidente rispetto ai fatti di Charlottesville: di fatto, hanno mano libera.
E le leve del comando reale: non a caso, è di stamattina la notizia che altri 3mila soldati USA partiranno per l’Afghanistan. L’atto di cessione di potere verso il Pentagono firmato da Trump ad aprile e ratificato a tempo di record dal Congresso a luglio, sta entrando nel vivo. L’America è in mano a generali che, insieme, vantano 119 anni in divisa, gente che vede il mondo e le sue dinamica da una naturale prospettiva marziale e bellica. Gente che ai problemi offre risposte militari, non diplomatiche. Nè, tantomeno, politiche. Gente che parla poco e twitta ancora meno. E, caso strano, quel tipo di risposte sono quelle che il Deep State e il comparto bellico industriale, preferiscono. E la gente è pronta ad accettare di buon grado, visto l’ottimo lavaggio del cervello fatto dai media attraverso la strategia della paura permanente.
E i media, quale parte giocano nell’enorme Village globale, nel panopticon invisibile in cui viviamo ogni giorno di più? Un esempio arriva fresco fresco dagli USA, notizia di ieri pomeriggio. Se non lo sapete, l’informazione locale negli Stati Uniti è stata, di fatto, una sorta di siero anti-vipera rispetto all’offensiva mainstream, soprattutto per quanto riguarda tematiche spinose come il linguaggio dell’odio, le fake news, il gender e il politicamente corretto. Insomma, la censura delle elites. La spina dorsale di questo contropotere fatto dalle varie “gazzette” ed “eco” è la Report for America (RFA), la quale però, non godendo di laute inserzioni pubblicitarie o danarosi editori o tantomeno stanziamenti federali, vive con le disponibilità all’osso. E, ultimamente, quell’osso ha cominciato anche a rosicchiarlo, per sopravvivere. Bene, da ieri e per i prossimi cinque anni, cambia musica, come mostrano queste immagini:
Google, attraverso il progetto Google News Lab Summit, piazzerà 1.000 giornalisti fidati nelle newsroom di tutta l’America, le quali fino al 2022 potranno attingere a fonti di notizie notoriamente indipendenti ed equidistanti come Peace Corps, Americorps, Teach for America e altri media pubblici. La seconda immagine, vi mostra l’imparzialità di cui l’America potrà godere di qui in poi, visti i nomi presenti nell’advisory board del progetto di Google. Come vedete, nulla – ma proprio nulla – è lasciato al caso. Non vi sentite nemmeno un po’ dei “Numero 6” chiusi in un Village di iPhone ultimo modello, Starbucks, informazione e fonti a direzioni unificate e sospensione, de facto, della democrazia rappresentativa? Non sentite su di voi il controllo di droni, camere a circuito chiuso, password, pin, fidaty card, fra poco chip sottopelle al lavoro e quant’altro trasforma la nostra vita in un codice tracciabile? E controllabile.
E quelli che di voi utilizzano Facebook e hanno dato il loro “like” alla pagina di RischioCalcolato, non hanno notato che dal 7 settembre scorso non vengono più aggiornati i nuovi post pubblicati? Pensate sia una scelta del blog? Siamo tutti dei “Numero 6”, destinati alla futilità da un potere troppo più grande di noi e troppo facilitato nel tagliarci le gambe dalla sera alla mattina, per quanto duri e determinati siano i nostri sforzi di resistenza. E’ giunto il tempo della riflessione. E delle decisioni. Serie.