Di
Benedetto Tangocci
Il termine italiano “notizia“, dal latino “notitia“, ovvero ciò che è noto, che è conosciuto, ha gradualmente lasciato il posto al termine inglese “news“, col quale la locuzione “fake news” è diffusa e discussa. L’estesa adozione del termine (tralasciando la discutibile tendenza a sostituire i termini italiani con simili inutili anglicismi) porta con sé un diverso significato etimologico: “news” deriva da “new“, con l’estensione della “s” plurale e l’omissione per ellissi del termine “information“, recuperabile nelle definizioni date da Wiktionary (o, in forma analoga da qualsiasi altro dizionario) “new information of interest“, o “information about current events disseminated via media“. “Information” (tramite il francese ed analogamente all’italiano “informazione“) deriva dal verbo latino “informare” (mantenuto invariato in italiano), col significato di “dare forma“. Tirando le fila, dal “comunicare ciò che è noto” (la notizia) siamo linguisticamente passati al “dare nuove forme” (news). E ciò non solo etimologicamente, se anche solo si intravede quanto l’azione di diffondere informazioni strettamente corrisponda al “dare forma” alla realtà.
Riconoscere il potere dell’informazione, e per estensione del suo controllo, è del resto assai semplice. Ogni dittatura presente e passata (con le dovute proporzioni legate ai mezzi disponibili) ne ha limitato la libera diffusione e/o l’ha manipolata tramite la propaganda di regime. Sotto gli occhi di tutti sono la censura vigente in Corea del nord, o le conseguenze subite da chi esprime opinioni non strettamente conformi alla visione mussulmana in molti paesi arabi; mentre in tutti i libri di storia viene riferito del ministero della propaganda gestito da Joseph Goebbels nella Germania nazista. Un po’ meno noto è che quest’ultimo si sia formato sui libri di psicologia delle masse del sociologo Gustave le Bon, nonché lo sono la diffusione, lo sviluppo e l’estesa applicazione di tali studi nella politica sia statunitense che occidentale in genere.
Ma si sa, la storia la scrivono i vincitori, e ci viene pertanto ricordato da qualsiasi libro di scuola che nel 1933 i probabili incendiari del Reichstag siano stati i nazisti, gli stessi che diffondendo “l’informazione” che incolpava i comunisti ottennero il pretesto, e il supporto dell’opinione pubblica, per le misure che portarono alla Legge dei Pieni Poteri. Purtroppo non altrettanta attenzione viene data anche ai dubbi relativi alle vicende di Pearl Harbor,o ai più recenti eventi dell’11 settembre – malgrado la ben poco plausibile concomitanza di un’esercitazione del NORAD (North American Aerospace Defense Command – tra i più inviolabili centri di controllo aereo al mondo) o la straordinaria somiglianza tra la modalità di promulgazione e gli effetti pratici del Patriot Act, con la già citata Legge dei Pieni Poteri nazista. I portavoce di ricerche non allineate vengono invece superficialmente tacciati di “complottismo” e fantasie ritenute inverosimili, perfino dopo che le menzogne di stato, diffuse da tutti i media ufficiali, sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq sono state ufficialmente riconosciute. (e sia chiaro, non propongo le visioni alternative come “verità”, non si tratta di avere certezze, ma di lasciare spazio ai dubbi, sono quest’ultimi lo spunto indispensabile per approfondire e verificare liberamente qualsiasi dichiarazione).
Con rare eccezioni i principali media diffondono sostanzialmente le stesse informazioni, con leggere differenze di taglio giornalistico, di interpretazione o di opinioni personali, contribuendo alla formazione di un pensiero unico “mainstream” che tende ad escludere ogni visione o teoria non allineata. Tale omologazione, lungi dal basarsi sull’oggettiva verifica dei fatti (vedi la già citata divulgazione delle supposte armi di distruzione di massa in Iraq, diffusa acriticamente come certa e solo ad anni di distanza smentita), è principalmente dovuta al ristretto numero di agenzie di stampa da cui tutti i media ufficiali attingono; alla proprietà dei media spesso concentrata nelle mani di poche società per azioni (e supporre, ad eccezione di qualche innocuo editoriale, l’indipendenza di giornalismo svincolata dall’indipendenza economica corrisponde ad un livello di ingenuità cui non vale neppure la pena di rispondere…); ed infine alla naturale tendenza all’omologazione propria degli esseri umani ed ampiamente studiata e dimostrata dalla psicologia sociale.
La “voce grossa” di chi ne ha il potere è d’altronde una naturale e inevitabile conseguenza di tempi caratterizzati da globalizzazione e accentramento di capitale: in una società libera di esprimersi chi ne ha il potere urlerà più forte. Pazienza, e ben venga che ci sia ancora (per ora…) il più grande vanto dell’Occidente, quella libertà di espressione conquistata dall’Illuminismo francese, ratificata dal Primo Emendamento della costituzione statunitense, e giustamente sbandierata con orgoglio in tutta Europa quando contrapposta alla palese censura di tanti regimi. Finché ci sarà libertà di espressione ci sarà anche libertà di ascolto e la possibilità per chi sente “puzza di bruciato” nei media ufficiali di approfondire, di cercare altre voci, di dubitare, di confrontare e di formarsi criticamente un’opinione.
Ma fare la “voce grossa” sembra non basti più… Forse troppe persone sospettano che “l’imperatore sia nudo” e, soprattutto, troppi lo affermano apertamente. Serve un Ministero della Verità di orwelliana memoria che certifichi la giusta informazione e punisca, o meglio proibisca, le “fake news”.
Innanzitutto occorre che sia la popolazione stessa a chiedere a maggioranza che la libertà di espressione sia limitata. Niente di più semplice, le strategie sono sperimentate e consolidate da tempo. Perfino riassunte in un decalogo, sembra erroneamente attribuito a Noam Chomsky (che – secondo Odifreddi – sebbene affermi di non averlo stilato ne riconosce alcune parti), ma non per questo meno valido nella sua analisi della manipolazione della società. Molto utili all’occasione il punto n° 2, “creare problemi e poi offrire le soluzioni” (si crea un problema o un caso apposta per provocare una certa reazione da parte del pubblico, e fargli credere di essere il promotore delle misure che si vuole imporgli) e il punto n° 3, la strategia della gradualità (rendere accettabile una misura inaccettabile mediante una sua applicazione graduale, a contagocce).
Così, nonostante visioni alternative, notizie palesemente false, liberi commenti di semi-analfabeti e quant’altro, siano sempre esistiti; dal 2016 nell’agenda delle priorità statunitensi (e a ruota europee e italiane, ahimè…) è entrata l’emergenza fake news, d’un tratto responsabili – affermano – di stravolgimenti geopolitici, economici, finanziari; ondate di suicidi e chissà quante altre calamità. È bastato ripeterlo con sufficiente intensità per far chiedere a parte della popolazione di intervenire; dando poi risonanza a questa reazione (sfruttando un effetto conosciuto come spirale del silenzio) ecco servita l’emergenza, e pronta la soluzione legislativa (regola n°2 del sopracitato decalogo). Eppure, citando un recente articolo, “che le fake news sono diventate un’emergenza è la prima delle fake news che dovremmo combattere“! E per chi, faziosamente, non legge il giornale in questione perché ritenuto troppo di destra, cito sostanzialmente lo stesso concetto espresso da un rappresentante dal polo opposto: “Fake news è quando una notizia non piace ai dominanti“.
Quest’ultima affermazione potrebbe diventare definizione da vocabolario, poiché ben riassume l’uso che ne viene fatto. “fake news” diventano tutte le visioni non allineate, tacciate di falso, o peggio (…), arbitrariamente dichiarate non scientifiche; dimenticando che la Scienza, quella vera, nasce, si basa e si sviluppa, dal confronto tra teorie in opposizione, la totale libertà di espressione e la libera (non riservata ai “sacerdoti”…) verifica empirica di ogni ipotesi. L’accettazione per fede nell’autorità – ed ancor più la pretesa di detenere “la verità” – è pratica delle religioni ed oggi purtroppo richiesta anche dal sempre più diffuso scientismo (col quale si traveste la manipolazione delle informazioni), che preferisce al confronto l’argomentare alzando la voce. Come non vedere tuttavia, citando letteralmente un articolo online, che “etichettare le notizie che non ti piacciono come notizie false è la forma più sciatta di critica ai media; è come mettersi le dita nelle orecchie e canticchiare ‘la la la’ a voce alta. Sia il governo che i media istituzionali hanno delle ragioni per non volere che il pubblico conosca dei punti di vista che sono una minaccia al loro potere”.
Ecco che “fake” diventa semplicemente l’etichetta applicata a qualsiasi cosa non condivisa (da parte di ogni “schieramento”, ovviamente), ed in quanto etichetta è antitetica allo stesso processo di verifica dell’informazione poiché, per definizione, l’etichetta è “cibo predigerito” per la mente: attiva unicamente i processi mentali definiti dal modello ELM “via periferica”, basati sulle apparenze in sostituzione alla faticosa analisi critica e consapevole. Si tratta al contempo della condizione ideale per qualsiasi propaganda e della “comodità” richiesta da una popolazione come quella italiana che mostra gradi di analfabetismo funzionale (con la conseguente incapacità pratica di approfondire qualsiasi informazione…) vicini al 50% della popolazione: la domanda incontra l’offerta e la manipolazione è servita.
Appurato tuttavia che il desiderio di controllo è ormai richiesto dalla popolazione stessa non resta che domandarsi chi controlla, e con che mezzi. La prima risposta, bypassata con eccessiva leggerezza dai promotori stessi, con la quantomai ingenua certezza che il compito sarà svolto da censori illuminati mossi unicamente dai più alti ideali, è in realtà quantomai dubbia. Sia perché, come ricorda un recente articolo, la stessa “pretesa di verità, che nella tentazione dei censori viene data per scontata, come se loro ne fossero gli interpreti autorizzati, i monopolisti esclusivi” ha già di per sé il sapore delle peggiori distopie; sia perché non è chiaro come questa commissione, formatosi in modo non esplicitato, dovrebbe essere immune alla corruzione cui pressoché tutti gli organi di governo hanno mostrato, sia nella storia che nella cronaca, di essere a rischio. Va bene sognare un mondo migliore ma un minimo di realismo è la condizione indispensabile per salvaguardarsi dalla più cieca incoscienza.
Quanto alla seconda domanda, con che mezzi, ecco l’applicazione del punto n°3 del sopracitato decalogo: con mezzi gradualmente crescenti, affinché l’accettazione delle limitazioni più gravi non sia percepita. Inizia pertanto con ipotesi di semplici segnalazioni su social network e motori di ricerca, percepita dai più come positiva (incoscienti dell’immenso potere di manipolazione della realtà che va ad aggiungersi a quello già posseduto da monopoli come Facebook e Google), presto però ritenute insufficienti da ricerche che riscontrano che simili etichette possono avere l’effetto opposto in alcune fasce della popolazione (i minori di 26 anni evidentemente possiedono una qualche indipendenza di pensiero, sia solo sotto la forma di giusta diffidenza, non ancora lavata via del brainwashing sociale…). Serve pertanto una legge, già esistente come disegno di legge, che preveda sanzioni pecuniarie e reclusione per la diffusione di notizie ritenute “esagerate” (ma non si capisce da chi, su che basi, o con che metro di misura, lasciandone di fatto l’applicazione alla totale arbitrarietà), pene dalla quali sarebbero però escluse le testate giornalistiche ufficiali (se diffuse da loro non sono più fake news??) palesando il chiaro intento di censura di qualsiasi voce alternativa.
Siamo ben lontani dai tempi che facevano scrivere a Voltaire (o attribuire a lui – poco importa perché nella sostanza la citazione rispecchia pienamente sia il suo pensiero che quello illuminista) “non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo“. Come pure siamo distanti dalla consapevolezza danese che la libertà di espressione va difesa dalla censura a qualsiasi costo, fino al punto di autorizzare, unica in Europa, e malgrado il ritiro delle sovvenzioni statali come pena per affermazioni estreme, le trasmissioni di un’emittente dichiaratamente neonazista. Ricordo di avere letto diversi anni fa (prima della diffusione dei giornali online) della richiesta tedesca di chiudere Radio Oasen e del rifiuto danese in difesa della più completa libertà di espressione. Similmente, quanto non concordo col contenuto dei messaggi diffusi dall’emittente, altrettanto rimpiango i tempi in cui la difesa incondizionata del diritto di espressione era sentimento molto più diffuso di oggi.
Constato invece purtroppo che il processo di censura è iniziato e – parafrasando il celebre testo del pastore Niemöller (“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“) – che grazie ai soliti ignavi accadrà che prima etichetteranno come false tutte le opinioni dissidenti; poi le sanzioneranno e scoraggeranno la diffusione; poi ne rimuoveranno i contenuti e la possibilità di pubblicarli; poi, mancando voci alternative, il pensiero unico si affermerà completamente e con esso, in nome della sicurezza, sarà la fine di ogni vera libertà.
O forse, spero, come le favole ci insegnano (ed oggi le favole moderne, ovvero i film di fantascienza), l’umanità troverà, o riscoprirà, altre forme di comunicazione “underground” che richiederanno il coraggio di sfidare le regole, ma proprio in virtù di questo prezzo offriranno a chi è disposto a pagarlo la possibilità di una vera conoscenza. Poiché citando il sempre più profetico e attuale Orwell, “in a time of universal deceit, telling the truth is a revolutionary act“.
Sembra, infine, che anche questa nota citazione sia in realtà di dubbia attribuzione e ciò offre l’occasione per l’ultima importantissima riflessione: quello che conta è il contenuto di una frase ed il lungo e faticoso processo personale di verifica, non chi ne sia l’autore e meno che mai chi la garantisce. Questa è la prima e fondamentale differenza tra (vera) Scienza e religione, tra libertà e dittatura.