Pubblicato sulla rivista Nature, il risultato offre un laboratorio unico per studiare le prime fasi dello sviluppo di un essere vivente. L’embrione, è stato sviluppato nell’Istituto di Medicina rigenerativa dell’Università di Maastricht, dal gruppo guidato da Nicolas Rivron
A poco più di un anno dell’annuncio della creazione di un embrione artificiale di topo a partire da cellule staminali prosegue la ricerca che un giorno potrebbe portare ai primi esseri viventi artificiali. Anche l’embrione del tutto artificiale, ossia non generato a partire da ovuli e spermatozoi, ma da cellule staminali, ottenuto in Olanda, è di topo e ha continuato a svilupparsi nell’utero, anche se non si è dimostrato in grado di arrivare alla fase matura.
Pubblicato sulla rivista Nature, il risultato offre un laboratorio unico per studiare le prime fasi dello sviluppo di un essere vivente. L’embrione, è stato sviluppato nell’Istituto di Medicina rigenerativa dell’Università di Maastricht, dal gruppo guidato da Nicolas Rivron.
Il punto di partenza sono state due famiglie di cellule staminali: quelle che danno origine alla placenta e quelle da cui si forma l’organismo. In provetta le cellule hanno formato una struttura simile a quella di un embrione nella fase iniziale dello sviluppo chiamata blastocisti, in cui si forma la sacca che racchiude le cellule staminali. L’embrione artificiale che ha raggiunto una struttura analoga è stato chiamato ‘blastoide’ ed è una sferetta fatta di sottili strati. Uno studio che rappresenta un laboratorio senza precedenti per studiare le fasi iniziali dello sviluppo dell’embrione, quelle in cui si forma la placenta e avviene l’impianto nell’utero e che, in molti casi, sono all’origine del fallimento di molte gravidanze.
Per il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’università di Roma Tor Vergata “l’esperimento conferma la natura totipotente della cellule staminali embrionali e per la prima volta studia da vicino un organo straordinariamente importante della riproduzione, ossia la placenta”. È un organo “straordinario, attivo da 300 milioni di anni e che permette il dialogo tra madre e feto, composto da cellule specializzate nel fare proprio questo e delle quali sapevamo poco o niente”. La struttura simile all’embrione ottenuta in laboratorio, ha aggiunto, “serve a capire come le cellule in questa fase dello sviluppo dialogano tra loro. Capire questo è importante perché permette di comprendere i meccanismi dell’infertilità che nasce da un difetto nell’impianto dell’embrione. Ad esempio la placenta previa è un problema in 5 gravidanze su su 100, il distacco della placenta riguarda l’1% delle gravidanze e un difetto di vascolarizzazione del quale non si sa nulla è all’origine di molti parti prematuri”.
Per Novelli l’autentica protagonista della ricerca pubblicata su Nature è quindi la placenta, ossia la struttura embrionale che la genera, chiamata trofoblasto: l’obiettivo è “capire come si forma il trofoblasto, come dialoga con l’utero e quali geni si attivano”. Una placenta ottenuta con le cellule staminali, infine, secondo Novelli non potrà mai portare a un embrione perché deve contenere informazioni da entrambi i sessi: “È per questo – ha concluso – che gli pseudo-embrioni non vanno avanti“.
La prospettiva di poter un giorno arrivare alla creazione interamente in laboratorio di un uomo ‘artificiale’, “desta molti dubbi in merito a quale possa essere, ammesso che sia, la reale finalità a fin di bene dell’’uomo artificiale” sottolinea con l’Ansa il presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) Francesco D’agostino, secondo il quale il rischio sarebbe invece quello di arrivare a creare esseri umani di laboratorio finalizzati a scopi non etici. “Premesso che si tratta ancora di uno studio sui topi – ha affermato il bioeticista – mi chiedo se abbia senso creare un uomo artificiale. Il rischio, invece, è che possa alla fine rivelarsi un essere umano di laboratorio pensato come sottoposto o schiavo o prodotto, ad esempio, al fine di fornire organi da trapiantare. Il che sarebbe inaccettabile“. Tuttavia, “prima di giungere a tale conclusione – rileva – bisogna dare fiducia alla scienza e agli scienziati”. La bioetica infatti, spiega D’Agostino, “deve sempre ribadire due principi fondamentali: il primo è che la conoscenza ha sempre il primato sull’ignoranza e, dunque, qualunque tentativo degli scienziati di conoscere maggiormente la realtà del vivente va considerata positivamente. Sono dunque contrario a qualunque visione bioetica – afferma – che esalti l’ignoranza“. Il secondo principio, prosegue, “è che però la conoscenza deve essere orientata sempre al bene dell’essere umano”. Pertanto, conclude D’Agostino, “non bisogna essere catastrofisti: non si deve avere paura del nuovo, a patto che il nuovo sia orientato al bene dell’essere umano”.