di
Cristiano Puglisi
Mentre la pandemia da Coronavirus sembra scemare, almeno in Europa, e diversi Paesi si approcciano alla cosiddetta “Fase 3”, quella di un progressivo ritorno a quella che con una raccapricciante definizione da neolingua viene chiamata “nuova normalità”, infiamma il dibattito sulle conseguenze economiche e sociali del Covid-19. O, per meglio dire, delle misure adottate per contrastarlo. Già, perché, come era chiaro fin dal principio, se il lockdown ha permesso di salvare delle vite umane, alleggerendo la pressione sugli ospedali e la sanità, d’altro canto ha prodotto delle conseguenze devastanti sulle società dell’intero pianeta.
In un articolo di analisi pubblicato dal portale Voxeu.org, quattro economisti (di cui tre appartenenti al Fondo Monetario Internazionale), Davide Furceri, Prakash Loungani, Jonathan D. Ostry e Pietro Pizzuto, descrivono la situazione: “Nel marzo di quest’anno – scrivono – sono stati persi più posti di lavoro negli Stati Uniti rispetto all’intera Grande Recessione del 2008-09 (Coibion et al. 2020), con i lavoratori con un’istruzione inferiore all’università che hanno subito il colpo maggiore secondo i primi dati. A livello globale, la perdita di posti di lavoro è stimata in oltre 200 milioni, con il 40% della forza lavoro globale impiegata in settori ad alto rischio di sfollamento e con accesso limitato ai servizi sanitari e alla protezione sociale (ILO 2020). Tali lavoratori dovranno affrontare le sfide per riguadagnare i propri mezzi di sussistenza anche dopo che le economie avranno iniziato a riprendersi”. Il che significa, in toni edulcorati, che, stante la crescente precarietà del lavoro e la galoppante riduzione di posti per impieghi poco specializzati e quindi sostituibili con l’automazione, queste persone saranno condannate a patire la fame per il resto della loro esistenza.
Il breve studio prosegue illustrando, facendo riferimento alle precedenti pandemie, come il Coronavirus possa influire sulla crescita dell’Indice di Gini, quello che, cioè, misura la diseguglianza presente in una data società. Questo, secondo il modello proposto, potrebbe crescere anche di tre punti percentuali in un periodo di cinque anni in Paesi con PIL a bassa crescita. Maggiormente in difficoltà si trovano a essere quei lavoratori per i quali è stato impossibile ricorrere allo smart working, quali, per esempio, certe tipologie di operai ma anche i commessi dei negozi. Per questi lavoratori “gli ampi periodi di lockdown associati agli sforzi per limitare la diffusione di Covid19 possono quindi esercitare un impatto particolarmente negativo su tali lavoratori in assenza di politiche per alleviarne i risultati”.
GIOVANI E PRECARI: L’IDENTIKIT DEL LAVORATORE PIU’ A RISCHIO
A essere colpiti in maniera più dura dalla crisi conseguente alla pandemia sono quei lavoratori i cui diritti, in questi ultimi anni, erano già stati sensibilmente ridotti: i giovani. Lo ha detto l’ILO – Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo cui, nel mondo, un giovane su sei ha smesso di lavorare da quando è scoppiata la pandemia. Questo accade su lavoratori che, purtroppo, erano già stati abituati a una perenne condizione di precarietà (definita “flessibilità” dai sostenitori degli effetti benefici di quest’ultima).
Sì, perché già nel 2019 il tasso di disoccupazione era più elevato tra i giovani rispetto che ad ogni altra categoria, fissandosi su una media globale del 13,6%, con circa 267 milioni di giovani senza un lavoro e non occupati in un percorso di educazione o formazione. In generale, comunque, tutti i soggetti tra i 15 e i 24 anni con un lavoro erano comunque più vulnerabili, con paghe ridotte e situazioni contrattuali più fragili rispetto al resto della popolazione attiva. Il 77% dei giovani lavoratori, circa 328 milioni di persone, svolgevano, prima della crisi, incarichi privi di tutele economiche e sociali.
Ma, ovviamente, la catastrofe del Covid ha investito tutte le fasce d’età: in base ai calcoli dell’OCSE, nei Paesi più sviluppati e in Cina, Brasile e Russia i posti di lavoro a rischio sarebbero tra il 15 e il 35% del totale. Secondo l’economista Simona Costagli “500 milioni di persone a livello mondiale rischiano di cadere in povertà, 170 paesi registreranno un calo del reddito pro capite”.
MA I SUPER MILIARDARI DELL’HI-TECH SE LA RIDONO
Tutto male per tutti? No. Perché la pandemia ha allargato la forbice tra ricchi e poveri non solo in un senso, ma anche nel suo opposto. Vale a dire, come ha recentemente rilevato anche PiccoleNote, che il patrimonio personale dei miliardari è invece aumentato. Basti dire che, nella primavera del 2020, i patrimoni combinati di Jeff Bezos (Amazon) e Mark Zuckerberg (Feceboook) sono cresciuti di circa 60 miliardi, mentre il patrimonio netto totale di oltre 600 miliardari statunitensi è salito da 2,948 trilioni di dollari a 3,338 trilioni.
LA FINESTA DI OVERTON E LA CESSIONE DELLE LIBERTA’
E così, mentre i “poveri cristi” di tutto il mondo e l’ormai ex classe media si vedono costretti a gioire di quelle poche libertà loro concesse, avendo ormai sostanzialmente digerito il fatto che una restrizione anche pesante dei diritti individuali possa avvenire in barba a qualsiasi principio costituzionale dall’oggi al domani, pronti a farsi tracciare e vaccinare alla bisogna grazie a un processo psicologico di progressiva accettazione di tale situazione guidato dal mainstream mediatico-politico accostabile a quella che è nota come “Finestra di Overton”, godendo del senso di sicurezza infuso loro dal “distanziamento sociale”, concetto che nella pratica si traduce in una ulteriore riduzione degli spazi di protesta e atomizzazione dell’individuo-consumatore, i signori di quello che in un precedente articolo su questo blog veniva già definito “capitalismo di sorveglianza globale” si arricchiscono sempre di più e allungano così inevitabilmente le loro mani sulle leve del potere politico mondiale.
Ma va tutto bene, non si preoccupino i lettori. Anzi… #Andràtuttobene. Sì, certo, come no…