DI

NAFEEZ MOSADDEQ AHMED
Ceasefire.co.uk

 

 

 

 

 

 

 

 

Una nuova ondata di report ufficiali delle società di energia prevede un futuro roseo per la crescita economica basata sull’abbondanza del petrolio a buon mercato. Tuttavia, come dimostra Nafeez Mosaddeq Ahmed, le prove scientifiche, ampiamente ignorate dai media dominanti, confermano che, nonostante ci sia petrolio a sufficienza per giungere alla catastrofe climatica, l’era dell’abbondanza di petrolio a basso costo è soltanto una leggenda.
I titoli di quest’anno del World Energy Outlook (WEO) (Prospettive Energetiche Mondiali, n.d.t.) dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), uscito a metà novembre, vi farebbero pensare che stiamo letteralmente sguazzando nel petrolio.
Tali report preannunciano che entro il 2017 gli USA supereranno l’Arabia Saudita come maggiori produttori mondiali di petrolio, diventando “quasi autosufficienti, parlando al netto” in termini di produzione dell’energia- tema riportato quasi pedestremente dalle agenzie di comunicazione in tutto il mondo dalla BBC News a Bloomberg . Damian Carrington, capo di Environmental al Guardian, si espone anche oltre e titola il suo blog” IEA report reminds us peakoil idea has gone up in flames“ (il report dell’AIE ci ricorda che l’idea del picco del petrolio è andata in fumo, n.d.t.) (3).
Le conclusioni generali del rapporto dell’AIE sono state confermate da molti altri report quest’anno. Il rapporto della Exxon Mobil preannuncia che la domanda di petrolio crescerà del 65% entro il 2040, con il 20% della produzione mondiale proveniente dal Nord America, prevalentemente da fonti non convenzionali. Conclude dicendo che la rivoluzione dello shale gas (gas di scisto) farà sì che gli USA possano diventare un esportatore netto entro il 2025. Lo US National Intelligence Council (Consiglio Americano dell’Intelligence, n.d.t.) preannuncia l’indipendenza degli USA entro il 2030.
L’estate scorsa si è susseguito un coro di titoli simili a quelli citati in seguito al rilascio del report ufficiale dell’Università di Harvard, scritto da Leonardo Maugeri, ex dirigente dell’Eni, la più importante società petrolifera italiana.
We were wrong on peakoil (“Ci sbagliavamo in merito al picco del petrolio”, n.d.t.), titola la testata del Guardian dell’ambientalista George Monbiot. “Ce n’è a sufficienza per friggere tutti noi”. Monbiot fa eco ad una serie di titoli analoghi. Nei mesi precedenti la BBC si chiedeva Shortages: Is ‘PeakOil’ Idea Dead? (“Carenza di scorte: l’idea del ‘Peak Oil’ è superata?”, n.d.t.) . Il Wall Street Journal riflette: Has Peak Oil Peaked? (“Il picco del petrolio ha raggiunto il culmine?”, n.d.t.) mentre il più importante opinionista ambientalista del New York Times Andrew Revkin “took A Fresh Look At Oil’s Long Goodbye” (osserva sotto “una nuova luce il lungo addio al petrolio”, n.d.t.).
Quanto sopra esposto si basa sull’idea che il picco del petrolio non sia altro che un’irrilevante credenza diffusa, che non trova riscontro nei dati, e che viene fortemente smentita dall’attuale abbondanza di gas e petrolio alternativi a buon mercato.
Bruciando i ponti
Da un lato, è vero: ci sono combustibili fossili a sufficienza nel sottosuolo per sostenere una corsa sfrenata verso i più tragici scenari di una catastrofe climatica.
Il crescente passaggio dai comuni gas e petrolio alle loro forme chiamate “unconventional” (quindi non convenzionali, n.d.t.) – sabbie bituminose, olio di scisto, shale gas (gas di scisto, gas naturale non convenzionale, n.d.t.), preannuncia un inquietante aumento delle emissioni di carbonio, anziché la diminuzione che avevano promesso i promotori dello shale oil come ponte verso l’utilizzo di energie rinnovabili.
Secondo il CO2 Scorecard Group, al contrario di quanto sostengono i rappresentanti delle grandi industrie, allo shale gas non può essere riconosciuto il merito della riduzione di emissioni negli ultimi 5 anni. Circa il 90% della riduzione è “attribuibile al calo nell’uso di petrolio, al dislocamento del carbone” con finalità “non-price diverse da gas naturali non convenzionali, e l’impiego di energie rinnovabili derivanti dallo sfruttamento del vento e delle risorse idriche o altro, al posto del carbone”. E come se non bastasse, se il gas naturale ha risparmiato 50 milioni di tonnellate di carbone sostituendolo nella produzione di energia in quanto meno caro, ne ha generati lateralmente 66 milioni nel settore commerciale, edilizio ed industriale.
Ci sono infatti studi che dimostrano come le fuoriuscite di metano si fondano con le emissioni di CO2 derivanti dallo shale gas, e come i gas naturali superino il carbone in termini di impatto sull’ambiente. Per quanto riguarda invece le sabbie bituminose e lo shale oil, le emissioni sono da 1,2 a 1,75 volte maggiori del petrolio cosiddetto “convenzionale”. Non sorprende quindi che Fatih Birol (14), capo economista dell’ AIE abbia sottolineato pessimisticamente che “il mondo sta andando nella direzione sbagliata in termini di cambiamento climatico”.
Ma se le nuove prove quasi screditano gli scenari catastrofici di cui parlano i pessimisti(15) devoti all’idea del picco del petrolio, il discorso sull’energia globale è molto più complicato di tutto ciò.
Verso il picco
Esaminando più a fondo i dati disponibili è chiaro che, nonostante la possibilità di innescare un pericoloso riscaldamento globale, siamo già nel pieno vortice della transizione energetica in cui l’età del petrolio a basso costo è già in realtà superata. Per un gruppo di studiosi più affidabili, il picco del petrolio, che non indica il momento in cui il mondo rimarrà senza petrolio, si riferisce invece semplicemente al punto in cui, a causa di una combinazione di fattori geologici sotterranei, e di altri fattori economici in superficie, il petrolio diverrà irreversibilmente sempre più caro e difficile da produrre.
Quel momento è già arrivato. I dati dello US Energy Information Administration (EIA), (sistema USA per l’informazione energetica, n.d.t.), confermano che, sebbene gli Stati Uniti producano un totale di 10 milioni di barili al giorno (un incremento di 2.1 milioni di barili al giorno da gennaio 2005), la produzione mondiale di greggio e condensato (gas naturali liquefatti, n.d.t.) – prodotti convenzionali- continua ad essere allo stesso punto, con una produzione stabile o oscillante, in cui è stata da quando smise di crescere di circa 74 milioni di barili al giorno ogni anno.
Secondo John Hofmeister, ex presidente della Shell Oil, “il mancato aumento della produzione” soprattutto negli ultimi 10 anni coincide con i tassi di diminuzione annui dei giacimenti esistenti pari a “4-5 milioni di barili al giorno”. E continua dicendo che quanto sopra, unito all’ “aumento costante della domanda”, in particolare da parte della Cina e dei mercati dei paesi emergenti, porterà ad una crescita dei prezzi per il prossimo futuro.
Il World Energy Outlook dell’AIE conferma quanto sopra descritto- ma l’aspetto demoniaco sta in alcuni dettagli molto spesso trascurati. In primis, la ragione principale per cui gli Stati Uniti supereranno l’Arabia Saudita e la Russia è che le estrazioni di queste ultime andranno diminuendo e non aumentando come previsto in precedenza. E così, mentre le estrazioni USA saliranno furtivamente da 10 a 11 milioni di barili al giorno, quelle dell’Arabia Saudita del post-peak scenderanno a 10,6 e la Russia a 9,5 milioni di barili al giorno.
In secondo luogo, il rapporto sulla previsione dell’aumento della “produzione del petrolio” da 84 milioni di barili al giorno nel 2011 a 97 milioni nel 2035, non si basa sul petrolio comune ma è “totalmente basato sui gas liquidi naturali e risorse non convenzionali” (e metà di esso su gas non convenzionali come lo shale gas)– mentre l’estrazione del petrolio convenzionale grezzo (ad eccezione del tight oil, o olio confinato, n.d.t.) oscilla tra i 65 e 69 milioni di barili al giorno, senza mai raggiungere i picchi storici di 70 milioni di barili nel 2008 e crollando ad un certo punto nel 2012 a 65 milioni. L’AIE non prevede inoltre un ribasso del petrolio come negli anni d’oro che hanno preceduto il 2000, bensì una costante crescita dei prezzi fino a circa 120 dollari americani al barile nel 2035.
Terzo, il prezzo del petrolio sarebbe molto più alto se i governi non fornissero un forte supporto finanziario per i combustibili fossili. Il WEO ha affermato che i sussidi per i combustibili fossili sono aumentati del 30 % per un totale di 523 miliardi di dollari nel 2011, facendo quindi passare inosservata la minaccia dell’aumento dei prezzi.
Di conseguenza, la produzione mondiale di petrolio convenzionale ha già un andamento fluttuante e siamo sempre più dipendenti da risorse non convenzionali più costose. L’età del petrolio a basso costo è già giunta a termine.
Dati falsati
Ci sono altri motivi per cui preoccuparsi. Quanto sono affidabili i dati dell’AIE? In una serie di indagini per il Guardian e Le Monde, nel 2009 Lionel Badal dimostrò come i dati chiave fossero deliberatamente compromessi dall’AIE sotto la pressione degli Stati Uniti per gonfiare artificialmente le cifre ufficiali riguardanti le scorte. E non solo, Badal ha in seguito scoperto che già nel 1998, una grande quantità di ipotesi formulate con dati alla mano relative all’ “intensa crescita economica e un basso tasso di disoccupazione”, erano state sistematicamente censurate per ragioni politiche, come testimoniano molti informatori.
Essendo il dipartimento di ricerca dell’AIE sotto un così attento esame politico e oggetto di interferenze da parte degli USA da 12 anni, le sue scoperte non si dovrebbero prendere per oro colato.
Lo stesso vale, e ancor di più, per il premiato report di Harvard di Maugeri. Con ogni probabilità, questa è difficilmente stata un’analisi indipendente sui dati relativi al settore petrolifero. Finanziata da due potenze in campo petrolifero quali Eni e la British Petroleum (BP) la ricerca non è stata revisionata da esperti e conteneva una lunga serie di errori elementari. Tali sono questi errori che il Dott. Roger Bentley, esperto dello UK Energy Research Centre (centro per la ricerca sull’energia britannico, n.d.t.), ha detto all’ex giornalista finanziario della BBC David Strahan: “Il report del Sig. Maugeri non presenta propriamente i tassi di diminuzione di cui parlano i più importanti studi, contiene evidenti errori matematici.. sono sorpreso che Harvard lo abbia pubblicato”.
Cosa dice la comunità scientifica
Contrariamente al report di Maugeri che ha scatenato una forte attenzione da parte dei media, tre studi, revisionati dagli esperti, pubblicati da riviste scientifiche con una buona credibilità da gennaio a giugno di quest’anno mostrano una prospettiva meno esaltante. Un documento di Sir David King, ex capo ricercatore del governo britannico, pubblicato da Nature mostra che nonostante si parli di crescita delle riserve di petrolio, la produzione di sabbie bituminose, gas naturale e shale gas tramite il fracking (abbreviazione di “hydraulic fracturing” cioè fratturazione idraulica, n.d.t.) e lo svuotamento dei giacimenti esistenti aumenta dal 4,5 al 6,7 per cento ogni anno. Hanno respinto con forza le ipotesi per cui un boom dello shale gas potesse evitare una crisi energetica, sottolineando che la produzione dei relativi pozzi crolli dal 60 al 90% nel primo anno di sfruttamento.
Questo documento ha ricevuto pochissima, se ne ha ricevuta, attenzione da parte dei media.
A marzo, il team di Sir King della Smith School of Enterprise & the Environment della Oxford University pubblica un altro lavoro, anch’esso revisionato dagli esperti, su Energy Policy, che in conclusione sosteneva che il settore petrolifero aveva sovrastimato le riserve per un terzo. Le stime dovrebbero essere abbassate da 1150-1350 miliardi di barili a 850-900 miliardi. Di conseguenza l’autore afferma: “Sebbene ci siano sicuramente grandi riserve di combustibili fossili nel sottosuolo, la quantità di petrolio che potrà essere commercialmente sfruttata ai costi abituali dell’economia globale comincerà presto ad esaurirsi.” Lo studio è stato quasi taciuto dai media – fatta eccezione per un report solitario del Telegraph, diamogliene atto.
A giugno – stesso mese dell’impreciso studio di Maugeri- Energy ha pubblicato un’analisi approfondita di Gaiv Tveberg sui dati del settore petrolifero, il quale ha scoperto che dal 2005 “le scorte di petrolio (convenzionali) mondiali non sono aumentate”, il che è “la causa prima della recessione del 2009”, e che “l’effetto a cui porterà la riduzione delle scorte” è “il possibile peggioramento della crisi finanziaria”. Ma tutta l’attenzione dei media era rivolta allo studio del report dell’uomo del petrolio finanziato dal petrolio stesso- lo studio di Tveberg, rivisto dagli esperti e pubblicato in una valida rivista di divulgazione scientifica, con questo messaggio così pessimistico, fu totalmente ignorato.
Cosa succederà quando il boom dello shale… farà il botto?
Questi studi scientifici non sono l’unica prova che qualcosa stia andando storto, si considerino le prospettive dell’AIE per la produzione di shale gas e la prosperità economica che da essa deriverebbe.
Infatti il Business Insider sostiene che il settore dello shale gas, tutt’altro che redditizio, stia affrontando molti ostacoli finanziari. “L’economia del fracking è terrificante”, osserva il giornalista finanziario americano Wolf Richter. “La produzione crolla a picco dal primo giorno e continua così approssimativamente per un anno fino a livellarsi a circa il 10 per cento della produzione iniziale”. Ne risulta che “la trivellazione distrugge capitali ad un livello sconcertante e i trivellatori restano con una montagna di debiti non appena i tassi di declino iniziano a creare scompiglio. Per evitare che tale riduzione rovini la loro situazione economica, le compagnie sono costrette a trivellare sempre di più, con nuovi pozzi che bilancino le perdite di produzione dei vecchi. Ma ahimè, questo sistema si è scontrato con il muro della realtà.
Solo quattro mesi fa, Rex Tillerson, amministratore delegato della Exxon, si lamentava perché il crollo dei costi conseguente al surplus di gas naturale degli USA, sebbene abbia favorito la riduzione dei costi dell’energia per i consumatori, ha portato anche al crollo dei prezzi e quindi ad un drammatico calo dei profitti. Questa problematica è generata principalmente dal crollo repentino della produzione dei giacimenti di shale gas, che inizialmente è abbondante ma crolla rapidamente.
Sebbene durante le assemblee degli azionisti e in quelle annuali la Exxon abbia ufficialmente insistito sul fatto che non stava perdendo denaro con il gas, Tillerson disse onestamente in un’assemblea del Consiglio per le Relazioni Internazionali: “Stiamo tutti rimanendo in braghe di tela. Non stiamo facendo profitti. E’ tutto in rosso”.
Il settore petrolifero ha attivamente e deliberatamente cercato di oscurare le sfide che stava affrontando la produzione di shale gas. Una ricerca molto influente del New York Times lo scorso anno ha riscontrato che, a prescindere dall’atteggiamento pubblico estremamente ottimistico, il settore petrolifero americano è “in privato scettico sullo shale gas”. Secondo il Times, il gas “potrebbe non essere estraibile dai giacimenti in profondità nel sottosuolo in modo economico e semplice come sostengono le aziende, secondo centinaia di e-mail e documenti interni del settore e stando all’analisi dei dati provenienti da migliaia di pozzi.” Tali e-mail rivelano che amministratori delegati, avvocati, geologi statali e analisti di mercato esprimono il loro “scetticismo in merito alle elevate aspettative” e si domandano “se le aziende stiano intenzionalmente, e quindi illegalmente, gonfiando la produttività dei loro pozzi e l’ammontare delle loro riserve.” Sebbene sostenute da studi indipendenti, ad un anno di distanza tali rivelazioni sono state ampiamente ignorate da giornalisti e politici.
Ma li ignoriamo a nostro rischio. Arthur Berman, geologo del petrolio con 32 anni di esperienza che ha lavorato per l’Amoco (prima della sua fusione con la BP), lo stesso giorno in cui è uscito il rapporto annuale della AIE del 2012 disse a Oil Price che il calo tendenziale che stanno sperimentando i giacimenti di shale… è incredibilmente elevato”.
Parlando di Eagleford (pozzo non convenzionale di scisti bituminosi, n.d.t.)- “la madre di tutte le commedie sullo shale oil”, sottolinea che “il calo tendenziale annuo supera il 42%.”. Solo per mantenere costante la produzione, dovrebbero trivellare “circa 1000 pozzi a Eagleford, ogni anno… stiamo parlando di 10 o 12 miliardi di dollari solo per sostituire gli approvvigionamenti. Sommando tutto possiamo arrivare alla somma necessaria per il settore bancario. Da dove arrivano questi soldi?”
Chesapeake Energy si è di recente trovata in questa stessa situazione, che ha forzato per vendere azioni e riuscire ad adempiere al proprio dovere. “Schiacciata da grandi debiti”, scrive il Washington Post, Chesapeake disse che “avrebbe venduto 6,9 miliardi di dollari di pozzi e gasdotti – altro passo verso il tracollo della società che, grazie al suo imprudente amministratore delegato, era diventata l’azienda leader nella rivoluzione dello shale gas del paese.” La vendita si rese obbligatoria a causa “dell’abbassamento dei prezzi del gas naturale e dalla richiesta eccessiva di prestiti”.
Lo scenario peggiore che si potrebbe presentare è quello in cui molte grosse compagnie petrolifere si trovino a dover affrontare simultaneamente una crisi finanziaria. Se questo succedesse, secondo Berman, “si potrebbero verificare delle grosse insolvenze o acquisizioni e una corsa al ritiro, i soldi evaporerebbero e tutti i capitali sarebbero in uscita. Questo è lo scenario peggiore possibile. E ancora peggio, Berman ha mostrato in conclusione come, l’esagerazione del settore su EURs (Estimated Ultimate Recovery, stima sulla ripresa) dei pozzi di scisti usando modelli industriali viziati che, alla fine, hanno alimentato le previsioni sul futuro dell’AIE. Berman non è solo- Ruud Weijermars e Crispian McCredie consulenti energetici americani, su Petroleum Review, sostengono che ci sono “basi forti per ragionevoli dubbi in merito all’affidabilità e alla durata delle riserve di shale gas” gonfiate sulla base delle disposizioni della nuova Security & Exchange Commission.
Le conseguenze finali dell’attuale surplus di gas, in altre parole, sono molto più probabilmente una insostenibile bolla fatta di shale che collasserà sotto il suo stesso peso, che precipiterà in un crollo delle forniture e in un’impennata dei prezzi. Anziché una prosperità di carburante, la rivoluzione dello shale porterà invece ad una ripresa temporanea che nasconde profonde instabilità strutturali.
Inevitabilmente tali instabilità entreranno in collisione, lasciandoci con un disordine finanziario ancor maggiore, su una strada sempre più rapida verso una costosa distruzione ambientale.
Quando arriveremo quindi al punto critico? Secondo uno studio della New Economics Foundation uscito il mese scorso, il picco del petrolio – quando cioè il costo delle forniture “supererà il prezzo che le economie sono in grado di pagare senza distruggere le attività economiche stesse”- sarà nel 2014/15. Sembrerebbe che l’oro nero non sia la risposta ai nostri problemi.
Nafeez Mosaddeq Ahmed è amministratore delegato dell’Institute for Policy Research& Development e capo ricercatore della Unitas Communications Ltd dove si occupa di rischi geopolitici. Il suo ultimo libro A User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It 2010, ( Una guida per la crisi della civiltà: e come evitarla , n.d.t.) che ha ispirato il premiato film documentario, The Crisis of Civilization 2011 (La crisi della civiltà, n.d.t.).

Fonte: http://ceasefiremagazine.co.uk
Link: http://ceasefiremagazine.co.uk

Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di CRISTINA REYMONDET FOCHIRA
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I numerosi link dell’articolo sono presenti nella versione originale