L’intesa tra Pechino e Ginevra fa discutere, ma intanto i Cantoni compensano l’esclusione dalla nascente alleanza Usa-Ue (il Ttip) e pongono le basi per diventare la cassaforte europea di Pechino
di
Felice Meoli
Si è fermata al 3,1% la crescita degli scambi commerciali nel mondo nel 2013. Un dato, quello contenuto nel recente Global Survey della Icc, la Camera di commercio internazionale, tra i più deludenti degli ultimi anni. Ancora una volta ben al di sotto dei livelli precedenti l’inizio della crisi del 2008, sottolineano gli esperti di una delle organizzazioni economiche più rilevanti del pianeta. In questi primi mesi del 2014, però, l’andamento sembrerebbe essersi invertito. E se per l’anno in corso si prevede un incremento del 4%, per il 2016 si dovrebbe arrivare a un 5,1% di progresso degli scambi. I fattori principali? Da una parte il commercio tra Paesi del Sud del mondo, che è giunto oggi a rappresentare il 46% del totale, dall’altra la crescita esponenziale delle partnership commerciali tra singoli Paesi, che stanno registrando un vero e proprio boom. Non passa infatti giorno in cui le cronache non registrino un nuovo accordo o l’avanzamento di trattative bilaterali molto complesse.
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Negli ultimi mesi ha catalizzato l’attenzione (e le polemiche) soprattutto il Ttip, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che vede protagonisti Stati Uniti e Unione Europea, giunto al sesto round negoziale. Ma non è l’unico. Sempre gli Stati Uniti proseguono sulla strada della Tpp (Trans-pacific partnership), così come la Ue continua a cercare un’intesa con il Giappone. E non sono unicamente i giganti a muoversi: solo per far riferimento alle vicende degli ultimi giorni si segnalano le aperture dichiarate tra Corea del Sud e Turchia, la conferma da parte del primo ministro australiano Tony Abbott di un prossimo trattato tra Australia e Giappone, la partenza dei negoziati tra Perù e Marocco a ottobre e l’entrata in vigore nello stesso mese del trattato di libero commercio tra Honduras e Canada. Non c’è dunque latitudine o longitudine che tenga: visti i ripetuti fallimenti dei Doha Round, il ciclo di negoziati multilaterali partiti nel 2001 in seno al Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) allo scopo di liberalizzare gli scambi, i governi e le istituzioni sovranazionali come la Ue, alle prese con una situazione economica non esattamente idilliaca, hanno iniziato a fare da sé.
A conquistare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo nelle scorse settimane è stata la partenza del trattato di libero commercio tra la Svizzera e la Cina, operativo da primo luglio scorso dopo la firma arrivata dodici mesi fa al termine di due anni di trattative. L’accordo ha fatto molto rumore e non tanto perché è proprio a Ginevra che il Wto ha sede. Ma perché si tratta della prima storica intesa di Pechino con un Paese dell’Europa continentale, che, sebbene non faccia parte della Ue, potrebbe essere per la Cina un ponte per intensificare le relazioni con il Vecchio Continente. Mentre un successo di questa partnership attenuerebbe le preoccupazioni elvetiche per l’avanzamento del Ttip, dal quale per il momento la Svizzera è tagliata fuori. L’accordo copre il commercio dei prodotti industriali e agricoli, abbattendo le imposte indirette sulle merci per l’84% delle esportazioni svizzere verso il Dragone: soprattutto macchinari, prodotti chimici e farmaceutici, strumenti di precisione e orologeria, per un valore di 7,2 miliardi di euro nel 2013. Ma per il futuro si considera con interesse anche l’export del latte, il cui consumo in Cina è quadruplicato dal 2000. Giù le tasse, viceversa, anche per il 99,7% delle esportazioni cinesi verso i Cantoni, in larga parte elettronica e tessile, ma anche meccanica, per un totale di 9,4 miliardi di euro nello scorso anno.
I rapporti tra i due Paesi si sono già molto intensificati nel tempo, e da oggi ci sarà ulteriore impulso a stringere i legami. Nel 1980 Pechino rappresentava il 39esimo mercato di esportazione per la Svizzera e il 35esimo fornitore. Oggi invece è il sesto sbocco commerciale e il quarto maggior fornitore. L’amministrazione federale delle Dogane scrive in una nota che tra il 2000 e il 2013 le importazioni dalla Cina si sono quintuplicate mentre le esportazioni addirittura sestuplicate. Col tempo gli elvetici hanno imparato ad apprezzare i cinesi e ne sono rimasti colpiti. Il segretario di Stato ed ex ambasciatore svizzero a Pechino Jacques de Watteville ha detto a swissinfo.ch di essere “rimasto molto impressionato dal pragmatismo dei cinesi, dalla loro visione a lungo termine e dalla loro flessibilità a corto termine. Si percepisce bene che hanno una strategia. Sono però molto pragmatici sui mezzi per raggiungere i loro obiettivi. Ed è ciò che li rende molto efficaci”.
Non tutti però apprezzano il pragmatismo del Dragone. Le Ong svizzere e i partiti di sinistra hanno denunciato la mancanza nell’accordo di un esplicito riferimento alla difesa dei diritti umani e alla protezione del lavoro. Per tutta risposta Lu Xiankun, consulente cinese presso il Wto ha dichiarato nel corso delle trattative: “La Cina è sempre aperta a discutere su tutto. Ma questo non deve essere posto come un’esigenza. Abbiamo dialoghi su tutti i temi con l’Ue e gli Stati Uniti. Ma non bisogna mischiare politica ed economia”. E anche per gli svizzeri non bastano queste proteste per frenare l’avvicinamento a Pechino. Il sogno non tanto nascosto degli elvetici (il governo lo ha annunciato ufficialmente nel 2012) è infatti quello di diventare un hub finanziario per lo yuan. Una mossa che, oltre a moltiplicare l’afflusso di capitali transitanti per la Svizzera, garantirebbe agli operatori elvetici minori rischi di volatilità di cambio, l’accesso a una più ampia rete di fornitori in Cina e la riduzione dei costi operativi.
A questo proposito la Banca Centrale Svizzera ha avviato nei mesi scorsi un dialogo con la controparte cinese per un accordo di swap (cioè di copertura) sui cambi. Il trattato di libero commercio potrebbe dare una chance in più agli svizzeri di spuntarla in questa competizione internazionale che vede come protagonista quella che, secondo l’Associazione svizzera dei Banchieri, potrebbe diventare nel 2020 una delle tre valute di riserva del mondo. Che nel frattempo, come riportato dalla Camera di Commercio Internazionale nel suo Global Survey, è già diventata la seconda valuta al mondo nel trade finance (la vasta area che raccoglie il credito commerciale e i servizi a esso collegati), sorpassando l’Euro. Nel giro di due o tre anni, secondo una nota di Hsbc riportata dallo stesso report, la divisa cinese punta a raggiungere la piena convertibilità. Un segnale in più per poter affermare che la ripresa del commercio internazionale passa necessariamente da Pechino.