Dai droni postini alle auto che si guidano da sole (con buona pace dei taxisti), si sapeva che le macchine minacciano parte del lavoro oggi svolto dall’uomo. La grande novità è che nel mirino dei robot ci sono soprattutto i Paesi emergenti: quelli che fino a ieri avevano sviluppato un’industria a basso valore aggiunto contando su una manodopera a costi stracciati. Quella stessa manodopera, domani, potrebbe perdere il lavoro perché superata in economia dalle macchine.
Il campanello d’allarme è stato suonato dall’Onu attraverso un recente report dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo. Che mette in guardia Asia, Africa e America Latina: attenti, dice il report Robot and Industrialization in Developing Countries, perché è da voi che l’impatto dell’era dei robot sarà più pesante.
C’è poi il problema del “reshoring”. I Paesi sviluppati, che con la globalizzazione hanno delocalizzato produzioni a basso valore aggiunto nei Paesi in via di sviluppo, potrebbero decidere di rimpatriarle sostituendo robot tecnologicamente avanzati ai lavoratori “low cost”. E’ uno dei rischi del ritorno di fiamma protezionistico che oggi va per la maggiore: il rimpatrio delle produzioni delocalizzate che però, per restare competitive, dovranno giocoforza puntare sull’automazione.
Come evitare la desertificazione economica? Il primo consiglio che l’Onu dà ai Paesi emergenti è banale ma ovviamente validissimo: abbracciate la rivoluzione digitale, a partire dai banchi scolastici. «Bisogna ridisegnare i sistemi educativi – spiega il report – in modo da creare le competenze manageriali e professionali necessarie a lavorare con le nuove tecnologie».
Il secondo consiglio è controintuitivo ma anch’esso prezioso: se non potete battere i robot, puntate su di loro. Un mix innovativo di lavoro uomo-macchina permetterebbe ai Paesi emergenti di mantenere la competitività della propria struttura industriale, magari evitando il temuto “reshoring”.
Un esempio perfetto in tal senso è quello della Cina, ormai diventato il regno mondiale delle macchine industriali. «In risposta all’invecchiamento della popolazione e all’aumento del costo del lavoro, che sta erodendo i vantaggi della manodopera manuale “low cost”, fin dal 2013 la Cina ha acquistato più robot industriali di ogni altro Paese», spiega lo studio. Entro poche settimane, si stima, il Dragone supererà il Giappone come leader mondiale delle produzioni automatizzate. Un esempio che altri Paesi, a partire dal Messico in ansia per Trump, dovrebbero seguire di corsa.
Fonte: www.ilsole24ore.com
L’era dei robot
La progressiva sostituzione della manodopera e dell’intelletto umano con la tecnologia (robot ed algoritmi) creerà sempre più disoccupati, creando un cortocircuito fra domanda e offerta di beni e servizi. Il reddito garantito è l’unica via di uscita, oltre a quella di ripensare i sistemi di produzione e di consumo
Il capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann pochi mesi fa ha fatto una serie di dichiarazioni che sono un chiaro affresco del presente e del futuro del sistema di produzione capitalistico: “Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone e non verranno rimpiazzate“. Aggiungiamo noi che verranno rimpiazzate dalla tecnologia, in particolare dai robot che fanno ormai lo stesso lavoro, con maggiore velocità e precisione, senza stancarsi e senza protestare e tantomeno scioperare. Aumenteranno semmai i costi di manutenzione, ma anche l’essere umano è soggetto ad assenze e salute cagionevole. Ma il nodo è che il robot costa meno. Ed è proprio questo il punto che Neumann tende a sottolineare: “Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10 […]. Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai 5 euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio”. Tutto chiaro e comprensibile. C’è però un problema. Il ciclo del capitalismo si basa su un legame fra produttore (il padrone), lavoratore (colui che riceve il salario) e consumatore (colui che compra i beni prodotti con il proprio salario). Ma l’immissione diffusa di tecnologia e robot rompe questa storica catena e crea un vuoto.
Chi comprerà i beni prodotti dai robot se una larga parte della forza lavoro si ritroverà disoccupata e senza un reddito? Si potrebbe rispondere che se i robot potranno sostituire il lavoro manuale dell’operaio in catena di montaggio e se la tecnologia sostituirà in toto il benzinaio alla pompa di benzina, ci sarà sempre un essere umano a fare la fase di progettazione oppure quella di stoccaggio e distribuzione oltre al fatto che il terziario (servizi e commercio) è in ascesa e compenserà la perdita di manodopera operaia. Purtroppo non è così perchè se è vero che la progettazione, la logistica e il marketing sono tre fasi che sono state molto sviluppate negli ultimi decenni, non bastano a compensare la perdita di posti di lavoro e anche queste sono soggette ad una progressiva tecnologizzazione e informatizzazione da rendere l’utilizzo di personale umano sempre più marginale.
Come è possibile? Lo abbiamo potuto analizzare e dibattere andando alla presentazione del libro del giornalista Riccardo Staglianò “Al posto tuo – Così Web e Robot ci stanno rubando il lavoro” in una iniziativa della libreria Erasmo quest’estate a Livorno. Un dibattito che ha allargato moltissimo il campo della futura disoccupazione tecnologica. Non si è parlato infatti dell’operaio ormai soppiantato dai robot sulle classiche linee di fabbrica, ma di tutta una serie di professioni, compresa quella del giornalista, che saranno soppiantate dal web, algoritmi in grado di scrivere articoli di giornale di senso compiuto (in particolare le analisi sui flussi finanziari), università digitali e robot-medici. Senza considerare il capitolo dei classici Uber, Amazon o Air B&B che se da una parte rappresentano per molti un’opportunità per consumi e servizi a minor costo, dall’altra parte impoveriscono i territori diventando un trasferimento netto di ricchezze dai luoghi dove viviamo e di cui poi possiamo beneficiare indirettamente (attraverso tasse e circolazione di denaro), a paradisi fiscali, megaziende o proprietari immobiliari che di tasse ne pagano meno anche dei pur numerosi evasori locali. Non molti sanno, ad esempio, che il fenomeno AirB&B ha fatto sì che in molte città siano aumentati vertiginosamente gli affitti perché molti proprietari tengono le case vuote a disposizione di turisti o persone di passaggio con cui guadagnano di più e probabilmente evadono meglio. Come ha detto Staglianò: “Con il nostro modo di consumare ci stiamo scavando la fossa da soli”.
Che fare? Non è certo possibile concludere nelle poche battute di un articolo cartaceo un ragionamento di sistema così complesso su sistemi di produzione, redistribuzione e consumo, ma ci è sembrato molto semplice e chiaro un articolo di Giorgio Gattei su Sbilanciamoci.info da titolo “Prospettive economiche per i nostri (pro)nipoti” ed il cui occhiello è comprensibile a tutti noi: “Nell’era della disoccupazione tecnologica, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quella parte di profitto a cui il capitale rinuncia per garantirsi la domanda di merci”. Ci arriva da un semplice assunto: se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, cioè che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende. È questa la disoccupazione tecnologica. E le parole di Neumann con cui abbiamo iniziato l’articolo ce lo confermano. Il reddito non è dunque niente di rivoluzionario. E’ una misura urgente e necessaria di redistribuzione che favorisce anche il sistema. Per vivere meglio invece servirebbe ripensare il modello di vita e consumi, quello di produzione e la proprietà dei mezzi. Questo sì sarebbe rivoluzionario.
tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.117 (luglio-agosto 2016)