DI

PEPE ESCOBAR

 

Il neoliberismo sta bruciando, letteralmente. Dall’Ecuador al Cile, è il Sud America, ancora una volta, ad indicare la strada. Contro le prescrizioni di austerity da parte dell’FMI, il continente sembra finalmente pronto a rivendicare il potere di scrivere la propria storia.

Tre sono le elezioni presidenziali in ballo. Quella boliviana sembra essersi risolta domenica scorsa – ancorché i soliti sospetti paventino dei brogli. Ad Argentina ed Uruguay tocca domenica prossima.

Il contraccolpo alle espropriazioni subìte sarà travolgente. Alla fine raggiungerà anche il Brasile, che al momento continua ad esser fatto a pezzi dagli epigoni di Pinochet.

Il Cile privatizza tutto

I cittadini cileni si chiedono: “Cos’è peggio, non pagare le tasse o bloccare la metropolitana?”. Basta dare uno sguardo ai numeri. Lo scorso anno il PIL del paese è cresciuto dell’1,1%, mentre i profitti delle più grandi aziende sono cresciuti dieci volte tanto. Non è difficile intuire da cosa sia causato l’enorme divario. Il popolo sottolinea il fatto che acqua, elettricità, gas, istruzione, sistema sanitario, trasporti, le saline di Atacama, e persino i ghiacciai, siano stati tutti privatizzati.

Su questo si basano le espropriazioni: il costo della vita è divenuto insopportabile per la stragrande maggioranza dei 19 milioni di cileni, il cui reddito mensile medio non supera i $500.

Paul Walder, direttore del portale Politika ed analista del Latin-American Center of Strategic Analysis (CLAE) nota come meno di una settimana dopo la fine delle proteste in Ecuador – che hanno costretto l’avvoltoio neoliberista Lenin Moreno a desistere dall’aumentare i prezzi del gas – la gente del Cile si sia ribellata in un modo molto simile.

Il presidente Sebastian Pinera è solo la preda grande, in realtà il problema coinvolge l’intera classe politica. Non c’è da stupirsi che il popolo ora non faccia distinzioni tra governo, partiti e polizia. Pinera, come prevedibile, ha criminalizzato tutti i movimenti sociali; ha schierato l’esercito in piazza per una repressione senza riserve, ed ha istituito un coprifuoco.

Pinera è il settimo uomo più ricco del paese, con un patrimonio stimato di 2,7 miliardi di dollari, distribuito tra calcio, carte di credito, compagnie aeree, supermercati e tv. È una sorta di turbo-Moreno, un Pinochet neoliberista. Suo fratello, Jose, è stato un ministro della dittatura, ed è colui che ha privatizzato il welfare nazionale. È tutto interconnesso: l’attuale ministro delle finanze brasiliano Paulo Guedes, un Chicago boy, all’epoca viveva e lavorava in Cile. Ora vuole ripetere in Brasile il disastroso esperimento.

La principale risorsa del Cile è il rame. Le miniere, storicamente, sono sempre state di proprietà degli Stati Uniti. Allende le nazionalizzò nel ’71, inimicandosi non poco Kissinger, il quale architettò il golpe ai suoi danni nell’originale 11 settembre, quello del ’73.

Pinochet in séguito le ha nuovamente privatizzate. La più grande di tutte, Escondida, nel deserto di Atacama – che rappresenta il 9% del rame di tutto il mondo – appartiene al gigante anglo-australiano Bhp Billiton. Il più grande acquirente di rame nei mercati mondiali è la Cina. Almeno i due terzi delle entrate generate dal rame cileno non vanno dunque al popolo, ma a multinazionali straniere.

La débâcle argentina

Prima del Cile, era l’Ecuador ad essere semi-paralizzato: carenza di cibo, gravi disturbi alle esportazioni di petrolio, nessun trasporto urbano, scuole chiuse, speculazioni dilaganti. Vedendo la mobilitazione nelle strade di 25.000 indigeni, il presidente Lenin Moreno ha codardamente lasciato un vuoto di potere a Quito, trasferendo la sede del governo a Guayaquil. I popoli indigeni hanno dunque assunto il controllo in molte importanti città. L’Assemblea Nazionale è rimasta vuota per quasi due settimane, senza la volontà di provare a risolvere la crisi politica.

Annunciando uno stato di emergenza ed un coprifuoco, Moreno ha steso un tappeto rosso alle forze armate. Pinera non ha fatto altro che ripetere debitamente la procedura in Cile. La differenza è che in Ecuador Moreno punta a compiere un ‘dìvide et ìmpera’ tra i movimenti degli indigeni ed il resto della popolazione; Pinera invece ricorre direttamente alla forza bruta.

Oltre ad applicare la vecchia tattica dell’aumento dei prezzi per ottenere ulteriori fondi dall’FMI, l’Ecuador ha anche mostrato un classico caso di collusione tra governo neoliberista, multinazionali ed il proverbiale ambasciatore americano. In questo caso abbiamo Michael Fitzpatrick, ex Segretario Aggiunto per le questioni dell’Emisfero Occidentale, fino al 2018 a capo della regione andina, del Brasile e del Cono Sud.

Il caso più evidente di totale fallimento neoliberista in Sud America è però l’Argentina. Meno di due mesi fa, a Buenos Aires, ho assistito alle disastrose ripercussioni della caduta libera del peso: emergenza alimentare vera e propria, impoverimento di ampie fasce di classe media, inflazione al 54%. Il governo ha letteralmente bruciato la maggior parte del prestito FMI da $58 miliardi – ancorché debbano arrivare ancòra $5 miliardi. Macri perderà le presidenziali, ma saranno gli argentini a dover pagare il salatissimo conto.

Il modello economico di Macri non poteva che essere quello di Pinera – che alla fin fine è quello di Pinochet – ossia servizi pubblici gestiti come un’azienda privata. Un collegamento chiave tra Macri e Pinera è l’ultra-neoliberista Freedom Foundation, sponsorizzata da Mario Vargas Llosa, un tempo un decente romanziere.

Macri, milionario, discepolo di Ayn Rand ed incapace di mostrare empatia nei confronti di chicchessia, è essenzialmente un robot, prefabbricato dal suo guru ecuadoriano Jaime Duran Barba, plasmato come un prodotto di data mining, focus group e social networking. Un’esilarante interpretazione delle sue insicurezze può essere trovata in La Cabeza de Macri: Como Piensa, Vive y Manda el Primer Presidente de la No Politica, libro di Franco Lindner.

Tra le varie, Macri è indirettamente collegato a quella grandiosa macchina di riciclaggio di denaro che risponde al nome di HSBC. Il presidente della banca in Argentina era Gabriel Martino. Nel 2015, presso il ramo svizzero, sono stati scoperti 4mila conti argentini, per un valore totale di $3,5 miliardi. Questa spettacolare fuga di capitali è stato progettata dalla banca. Martino è stato però salvato da Macri, del quale è diventato uno dei più stretti consiglieri.

Fate attenzione alle iniziative da avvoltoio dell’FMI

Adesso tutti gli occhi dovrebbero essere puntati sulla Bolivia. Al momento della stesura dell’articolo, il presidente Evo Morales ha vinto le elezioni al primo turno, ottenendo, con un margine ridotto, il divario del 10% necessario affinché un candidato vinca pur non avendo ottenuto il 50% più uno dei voti. Morales ha vinto praticamente alla fine, quando sono stati pienamente conteggiati i voti delle zone rurali e dall’estero, e dopo che la sua opposizione aveva già iniziato a scendere in strada per fare pressione.

Evo Morales rappresenta un progetto di sviluppo sostenibile, inclusivo e, soprattutto, indipendente dalla finanza internazionale. Non c’è da stupirsi che l’intero apparato del Washington Consensus lo odi a morte. Il ministro dell’Economia, Luis Arce Catacora, è andato dritto al punto: “Quando Morales ha vinto le sue prime elezioni nel 2005, il 65% della popolazione aveva un basso reddito; ora la stessa percentuale dispone invece di un reddito medio.”

L’opposizione, priva di qualsiasi progetto tranne quello di selvagge privatizzazioni, e nessuna preoccupazione per le politiche sociali, può solo aggrapparsi all’accusa di brogli. Nei prossimi giorni, tuttavia, la cosa potrebbe prendere una brutta piega. Nella periferia del sud di La Paz, l’odio di classe contro Morales è lo sport preferito: il presidente viene appellato come “ignorante”, “indio” e “tiranno”. I cholos dell’Altiplano vengono abitualmente definiti dalle élite bianche dei proprietari terrieri come una “razza malvagia”.

Nulla però cambia il fatto che la Bolivia sia ora l’economia più dinamica dell’America Latina, come sottolineato dal grande analista argentino Atilio Boron.

La campagna per screditare Morales è destinata a diventare ancor più molesta. I poteri forti, scrive Boron, fingono di ignorare “la povertà cronica che la maggioranza assoluta della popolazione ha sofferto per secoli”, una condizione che “ha mantenuto la popolazione in totale mancanza di protezione istituzionale” e che ha causato il “saccheggio della ricchezza naturale e dei beni comuni.”

Lo spettro degli interventi dell’FMI in Sud America non svanirà certo con uno schiocco di dita. Anche se i soliti sospetti, secondo i report della Banca Mondiale, sembrano ora “preoccupati” per la povertà: da un lato, gli scandinavi offrono il premio Nobel per l’economia a tre accademici che studiano l’indigenza; dall’altro, Thomas Piketty, in Capital and Ideology, cerca di decostruire la giustificazione egemonica dell’accumulazione della ricchezza.

Ciò che rimane severamente vietato ai guardiani dell’attuale sistema mondiale è il mettere in discussione il neoliberismo sfrenato. Non è più però tempo di palliativi. Le strade del Sud America sono in fermento. La rivolta ora è in pieno svolgimento.

 

Fonte

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG