DI GIANLUCA FREDA
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Ora che gli artigli economici e militari del drago americano si sono spezzati sulla crisi del dollaro e sulle guerre senza via d’uscita in Medio Oriente, tocca ai valletti adibiti alle pubbliche relazioni fare le veci del grande mostro indisposto, sciorinando il meglio delle proprie baggianate in sua difesa e attendendo con fiducia l’esito della convalescenza.
Prendiamo ad esempio le elezioni in Libano. I media occidentali hanno fatto un ottimo lavoro nel presentarle come “un chiaro rifiuto del programma di coalizione di Hezbollah” (come scrive Thomas Friedman sul New York Times). La realtà è un po’ diversa.
Nella foto: Iran, è scontro tra l’onda verde e la polizia
Intanto, quando si parla di elezioni in Libano bisognerebbe tener presente che la distribuzione dei seggi nel Parlamento libanese è stabilita da un accordo del 1989, che assegna ad ogni gruppo religioso un certo numero di rappresentanti secondo criteri che non hanno nulla a che fare con la rilevanza numerica nazionale del gruppo in questione. Ad esempio sciiti e sunniti hanno rispettivamente 873.000 e 842.000 elettori registrati e ad entrambi i gruppi spettano un massimo di 27 seggi. I cristiano-maroniti e i drusi hanno rispettivamente 697.000 e 186.000 elettori, ma a loro spettano rispettivamente un massimo di 34 e 8 seggi. Come si vede l’elezione di un rappresentante in Parlamento ha ben poco a che vedere con la rilevanza numerica dei votanti. A ciò si aggiunga che in questa tornata elettorale più di 120.000 espatriati libanesi sono stati pagati dal gruppo di Hariri (il neoeletto capo del governo, filooccidentale, figlio dell’ex primo ministro Rafik Hariri assassinato nel 2005) per tornare in patria a votare, e oltre tre quarti di essi hanno votato per Hariri. Ma tutto questo impegno ha dato risultati limitati. L’opposizione guidata da Hezbollah ha ricevuto la preferenza del 55 per cento degli elettori (840.000 voti) ma solo il 45 per cento dei seggi. La coalizione di governo ha avuto la preferenza del 45 per cento degli elettori (692.000 voti) e il 55 per cento dei seggi. Nella scorsa legislatura Hezbollah e i suoi compagni di coalizione avevano 58 seggi contro i 70 della coalizione di governo. Ora ne hanno 57 contro 71, ma si tenga presente che tre di questi 71 seggi erano stati ottenuti dai candidati indipendenti che hanno deciso di allearsi con la maggioranza solo dopo le elezioni. Clamoroso poi il fatto che il generale Michel Aoun, alleato con Hezbollah, abbia ricevuto il 52 % del voto cristiano, ma un numero di seggi inferiore a quello dei suoi avversari cristiani.
Insomma, l’effetto “rifiuto di Hezbollah” esiste solo nella vanvera dei media occidentali e nella propaganda di coloro che ne dettano le veline. La realtà è che la coalizione di Hezbollah gode della preferenza della maggioranza degli elettori libanesi ed è solo la perversa alchimia elettorale ad impedirle di divenire maggioranza parlamentare. La situazione del paese è in stallo, rispetto alla legislatura precedente, ma la grande vittoria della coalizione filooccidentale esiste solo nel mondo di pura fantasia in cui gli strateghi del rimbecillimento mediatico rinchiudono i loro lettori quando scoprono che i piani dei dominanti sono andati, parzialmente o totalmente, in vacca.
Altro esempio tipico sono le elezioni presidenziali in Iran, che presentavano all’opinione pubblica la scelta tra un quisling israelo-americano come Moussawi e il presidente uscente Ahmadinejad. Ovviamente Ahmadinejad ha stravinto: solo un popolo di deficienti completi avrebbe potuto votare per un individuo che avrebbe svenduto il paese agli interessi stranieri. Non esiste al mondo un popolo così imbecille, forse neanche in Italia. Perfino nel nostro paese, fiore all’occhiello dell’analfabetismo letterario e politico teleindotto, la coalizione più prona agli interessi USraeliani (il centrosinistra) viene sistematicamente boicottata dagli elettori da ormai 15 anni ed è costretta, per sopravvivere, ad additare Berlusconi come minaccia permanente. Senza Berlusconi il centrosinistra cesserebbe di esistere. Se neanche gli italiani sono così fessi da dare la maggioranza ad un maggiordomo delle potenze straniere, figuriamoci gli iraniani. Moussawi, come tutti i fantocci USraeliani, si è mostrato così carico di arrogante sicumera da dichiarare la propria vittoria prima ancora che fossero chiuse le urne, in un paese in cui le rilevazioni demoscopiche non sono certo così capillari come da noi. Così si è tradito, e non appena sono apparse le prime proiezioni che davano ad Ahmadinejad la vittoria schiacciante non gli è rimasto altro da fare che chiamare a raccolta i suoi quattro gatti (foraggiati da USA e giudei) perché facessero quanto più casino possibile. Solitamente a me non piace la repressione dei movimenti di piazza, quale che sia il potere da cui viene disposta. In questo caso farò un’eccezione: considerato il livello della posta in gioco, spero che questi traditori del loro paese, questi venduti al nemico, vengano zittiti con la massima durezza possibile, in modo tale da far arrivare a burattini e burattinai il chiaro messaggio: abbiamo capito il trucco, i vostri giochetti sono finiti. Naturalmente i media occidentali fanno da cassa di risonanza alla tesi dei brogli elettorali, rivelando impudicamente il proprio servilismo. Come sempre, tra la stampa sguattera, si è distinta per dedizione e comicità la nostra Repubblica, la cui inviata, Vanna Vannuccini, dopo aver richiesto un paio di scalmanati della loro opinione, ha sposato in toto e senza dubbi la tesi dei brogli, colorandola di folklore locale: fanciulle iraniche in lacrime, vecchi pietosi che le offrono protezione contro gli “sgherri in motocicletta” invece di abbandonarla serenamente alle manganellate sulla crapa, come avrei fatto io, onesti cittadini ricolmi di sdegno per la mancata corrispondenza delle panzane di Repubblica con il mondo reale. Chissà dov’era la Vannuccini quando Bush truccava le elezioni americane del 2000 e 2004 e in Italia, nel 2006, le elezioni politiche venivano manipolate attraverso il voto elettronico? Probabilmente era nella sua stanzetta d’hotel, a ripetere il mantra del giornalista-lavapiatti: “I brogli li fanno solo le dittature antioccidentali; qui da noi ci sono al massimo democrazie che sbagliano”.
Sempre Repubblica si è resa protagonista, nelle scorse settimane, del più clamoroso attacco diffamatorio verso un politico “ribelle” ai diktat israelo-americani che mai si sia visto a queste latitudini. Sto parlando ovviamente dell’affaire Lario-Noemi-Berlusconi con il quale il giornalaccio di De Benedetti ha toccato davvero il fondo della sua non certo limpida carriera al servizio del potere coloniale che ci domina da ormai quasi 65 anni. Le bordate di letame, mai sparate prima con simile intensità, sono iniziate quando Berlusconi ha dato chiaro segnale di voler creare un asse con la Libia (da cui importiamo il 25% del nostro petrolio e circa il 10% del gas) e la Russia di Putin (favorendo accordi energetici tra Eni e Gazprom). Si sa che io non amo Berlusconi, ma tutto ciò avrebbe garantito all’Italia una certa indipendenza energetica. Un’indpendenza che il potere coloniale americano non può consentire, tanto più che tali accordi vanno a scapito del famoso gasdotto Nabucco, che avrebbe dato agli americani il controllo energetico dell’Europa bypassando Russia e Ucraina. Dopo il discorso di Gheddafi (un capo di Stato di gigantesca statura politica a confronto dei nostri sguatteri) a Palazzo Giustiniani, Berlusconi è stato convocato d’urgenza dal “preside”. Traggo dal sito www.blitzquotidiano.it :
A Washington non hanno gradito, ma soprattutto non hanno, letteralmente, capito. Quando al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca hanno letto il testo delle dichiarazioni di Gheddafi, il commento, non ufficiale ma unanime è stato «Incredibile», “Pazzesco”. Non tanto e non solo il fatto che il leader libico abbia equiparato Reagan a Bin Laden, abbia spiegato che la democrazia è solo quella libica, abbia ironizzato sui diritti umani. Ciò che ha stupito fino all’incredulità l’amministrazione americana è che l’Italia si sia prestata con somma disponibilità e nessuna cautela a far da palcoscenico allo show del Colonnello. Nelle sedi istituzionali e politiche e perfino all’Università di Roma La Sapienza, con quel rettore, Luigi Frati, che null’altro ha trovato da dire e comunicare che la sua ammirazione per le amazzoni, mitigata solo dal fatto che “mia moglie è in sala”.
Ma se questo appartiene al folklore civile e culturale italico e quindi poco importa agli Usa, la scelta di far da platea e claque a Gheddafi ha indotto Obama ad una decisione netta: chiederà conto a Berlusconi, chiederà in un faccia a faccia diretto al premier italiano a che gioco gioca l’Italia in campo internazionale. Ecco l’elenco delle domande che Obama ha pronte per Berlusconi quando si vedranno lunedì 15 a Washington.
Prima: che senso ha la ripetuta affermazione di voler “mediare” tra Usa e Russia? E poi anche tra Usa e Iran? È una ricerca di protagonismo o l’affermazione di una posizione equidistante? E, se è così, quale equidistanza?
Seconda: che peso va data all’affermazione di Berlusconi di non volere una società multietnica? In Italia questa frase non ha fatto molto rumore, ma in tutti i paesi dell’Occidente è di fatto impronunciabile da un capo di governo. Gli Usa devono archiviarla come voce dal sen fuggita o prenderne atto come linea effettiva di governo?
Terza: che peso va dato all’affermazione di Berlusconi di essere il leader più esperto del G8?
Quarta: le assicurazioni date da Gheddafi sui rifornimenti energetici all’Italia e i complimenti del leader libico, «fortunati voi italiani ad esser governati da Berlusconi, con la sinistra le imprese italiane farebbero meno affari in Libia», valevano la rinuncia ad esercitare qualunque accordo preventivo sulle dichiarazioni di Gheddafi in Italia? Contrariamente a quanto accade in diplomazia, Gheddafi ha avuto licenza di dire quel che voleva come voleva senza avvertire prima gli italiani, oppure gli italiani sapevano ed hanno acconsentito?
Quinta: dopo le elezioni in Afghanistan l’Italia ritirerà le truppe mandate di rinforzo?
Sesta: in che misura l’Italia appoggia davvero la politica ambientale di Obama?
Settima, ultima e riassuntiva domanda: «Dear Silvio, a che gioco giochi con l’amico Putin, il figliol prodigo Gheddafi e, soprattutto, ci fai o ci sei quando ti atteggi a fratello maggiore di Obama?».
Appuntamento nello Studio Ovale, tra le 16 e le 17 del 15 giugno, con la richiesta ferma e già fatta pervenire che le risposte non siano sorrisi e abbracci ma impegni e chiarimenti.
Come si vede si tratta di un vero e proprio terzo grado, un autodafé con cui si chiede a colui che – nel bene e nel male – è nostro primo ministro di rinnovare il giuramento di servitù verso i padroni d’oltreoceano. Gli americani, di fronte ai tentativi di svolta autonomistica berlusconiani, sono rimasti davvero di sasso. Come si dice: finché ti morde un lupo, pazienza, quello che fa veramente male è quando ti morde una pecora. Obama è stato morso dalla pecora italiana, dallo staterello più prono e ubbidiente fra tutti i suoi possedimenti d’oltremare e questo grida vendetta. Per Berlusconi, il morsicatore, rischia di finire veramente male, come anticipato dall’avvertimento odierno, in stile paramafioso, di D’Alema: il quale ha invitato l’opposizione a “tenersi pronta per eventuali scosse”. Quali possano essere queste scosse, con Berlusconi convocato per domani pomeriggio dinanzi all’alta e risentita presenza di Sua Maestà Obama I, non è difficile immaginarlo. Riuscirà Berlusconi a salvarsi sfoderando l’inchino delle feste? Tergiverserà e prenderà tempo raccontando barzellette idiote, come è sua specialità? Basterà tutto ciò a placare la furia di Obama e dei suoi manovratori industrial-finanziari? Lo sapremo tra pochi giorni. Il balletto delle italiche fantesche, croce e tormento degli ultimi 15 anni di vita politica nazionale, sembra prossimo ad una svolta decisiva.
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net/
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2009-06-14
14.06.2009